"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

lunedì 30 maggio 2011

Quarto Capitolo

Viviamo di giornate sempre più corte

Il mattino dopo avevo un mal di testa assurdo. Ero crollato sul letto poco prima che i miei genitori tornassero. Ricordavo vagamente che mio fratello e Chris mi avevano trasportato di peso al secondo piano di casa mia, dove c’era la mia camera, e lì mi avevano lasciato. Chris e Julia si erano poi defilati giusto in tempo, e Alan era andato in camera sua a leggere.
Quella notte sognai pianure verdi sterminate, ma pur sapendo che esistevano, non riuscivo a ricordare dove avrebbero potuto trovarsi. Sapevo però che c’erano, e questo era tutto ciò che contava.
Era sabato e pioveva, guardai fuori dalla finestra appena sveglio e rimasi a fissare la pioggia, le goccioline che scendevano delicatamente per il vetro, divertito e felice che la natura fosse viva, che io fossi vivo, che tutto si muovesse e scorresse senza sosta, i giorni, le parole, gli sguardi. Quanta bellezza invisibile. Eravamo la luce che rischiarava il mondo, figli delle stelle e stelle a nostra volta, splendenti, vibranti di gioia.
Iniziai a pensare a quale follia fosse andarsene. Sentirsi straniero da qualche altra parte, non vivere nei posti in cui si è cresciuti, con le persone che si amano e che ci amano, non piangere con loro, non ridere con loro e non condividerne le lunghe giornate d’estate che sembrano non finire mai, le gite nei verdi prati della California e le notti in spiaggia.
E allora perché la mia idea non se ne voleva andare?
Presi un blocco di fogli, una biro, e iniziai a scrivere:

Caro Amico,
non so darti un nome, perché in realtà io sto scrivendo a me stesso, ma mi piacerebbe poterti chiamare amico, e che tu chiamassi amico me, in modo tale che possiamo raccontarci ciò che gli amici di solito si raccontano. E magari anche qualcosa di più, come quelle sensazioni che si raccontano solo a se stessi e che poi nemmeno si ammettono.

Posai la biro.
Quando scesi di sotto per la colazione, i miei genitori l’avevano già fatta ed erano in veranda a leggere su sedie a dondolo, mia madre un romanzo di Dostoevskij e mio padre il giornale del mattino. Nonostante il freddo e la pioggia, non si scoraggiavano dal prendere un po’ d’aria alla mattina, magari con un paio di coperte di lana.
Alan aveva quasi finito, e una volta che mi fui seduto mi chiese:
– Dov’è che vuoi andare?
– Via.
– Via dove?
– Il più lontano possibile da qui. Così lontano che dovrò sentire la mancanza di questo cazzo di posto. E allora, forse, tornerò.

La mia strada era lì davanti a me. Io la vedevo, ma era come se qualcosa mi ostacolasse il cammino. Quel qualcosa era me stesso. Dovevo scrivere per ricordare alle persone intorno chi ero, che eravamo tutti umani, tutti uguali, anche se tendevamo a chiedere il mondo intero per noi.
Passai la giornata a scrivere, instancabile come sempre. Chris venne da me verso pranzo a salutarmi, ma quando vide che non alzavo nemmeno gli occhi dal foglio, sorrise e mi disse che preferiva non disturbarmi, così se ne andò. Era bello avere un amico così. Era bellissimo.
Scrissi il tema per il signor Johnson, ma escogitai una piccola scorciatoia:

Come evitare le rivoluzioni.

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano.

Non smise di piovere, e io non smisi di scrivere. Decisi che quella era una legge e io agivo secondo quella legge, ero prevedibile, producevo quando c’era più tristezza. In primavera ed estate la mia città era troppo felice per i miei gusti, ora capivo che non potevo vivere lì per sempre se volevo fare lo scrittore.
Facevo alcune pause in cui smettevo di scrivere e andavo sotto la pioggia per sentire l’acqua bagnare il mio viso, chiudere le mie palpebre e inzupparmi i capelli.
Ero matto, ma ero vivo.

Scrissi talmente tanto e talmente intensamente che dimenticai che giorno fosse. Mancavano dieci giorni a Natale, e quello era il giorno fissato da mio padre e mia madre per attendere mia zia e mia cugina.
Quest’ultima, Wendy, godeva della mia massima stima. Aveva vent’anni e studiava legge a San Francisco. Mia zia era una donna molto fredda e distante, ma non per questo una cattiva persona; anzi, spesso, da piccolo, facevo ricorso ai suoi consigli.
Arrivarono verso sera, mentre io ero sul divano a scrivere e sul giradischi andava Que sera sera di Doris Day. Nel caminetto ardeva un piacevole fuocherello. Dato che mia zia era la sorella di mio padre, egli andò in strada, con l’ombrello, per scortare lei e mia cugina fino alla porta di casa.
Wendy, capelli castani e occhi marrone chiaro, mi sorrise e corse ad abbracciarmi (dopo aver fatto la stessa cosa con mio padre, naturalmente). Nonostante fosse più grande, io la sovrastavo di parecchi centimetri in altezza, e quindi dovette alzarsi in punta di piedi per scoccarmi gli usuali bacetti sulle guance.
– Come stai, carissimo cugino?
– Bene, e tu sei bella come sempre!
– Oh, mi piacerebbe contraddirti con qualche insulto, ma i nostri genitori sono qui, purtroppo.
Risi e l’abbracciai ancora. – Ce ne libereremo presto, tranquilla. Sono contento che tu sia qui!
– Anche io sono contenta di essere qui, Charlie.
Mia madre cambiò musica e subito la voce di Elvis Presley risuonò in salotto.
– Ecco perché mi mancava questa casa – disse mia cugina.
Adocchiò il blocco degli appunti su cui stavo scrivendo e chiese: – Una nuova storia?
Risposi: – Una nuova vita.
– Piccolo cugino mio, – disse Wendy, – non sei cambiato di una virgola dallo scorso anno, eppure mi sembra di vedere una luce diversa nei tuoi occhi.
– Wendy…
– Che c’è?
– Sto piangendo.

Il giorno dopo era domenica, e il sole splendeva alto nel cielo, illuminava le gocce di pioggia rimaste sulle foglie degli alberi, faceva sembrare i fiori ancora più belli, perché adesso era bagnati, ed erano vivi o piangevano. Io, Charlie Collins, amavo i fiori, perché essi erano vita, e ciò che era vita prendeva forma nelle pagine sulle quali la mia biro si posava.
Andai da Chris e mi portai dietro Wendy. Il mio amico stava cercando di venire a capo del tema che per causa sua il signor Johnson ci aveva affibbiato.
Mia cugina mi chiese cos’avessi scritto io.
Feci spallucce. – Dev’essere una sorpresa.
– Odio quando fa così – ammise Chris mangiucchiando la biro.
– Prova a scrivere che le rivoluzioni sono evitabili con un buon governo che tiene in conto gli interessi delle classi più disagiate, dev’essere quello che il tuo insegnante si aspetta – disse Wendy mentre Mary ci raggiungeva e salutava timidamente mia cugina.
– È proprio questo il problema – replicò Chris. – Devo scrivere qualcosa che il signor Johnson non si aspetti, ma di solito ci riesce solo Charlie.
– Ma tu non puoi scrivere quello che ha scritto Charlie. Devi scrivere quello che senti tu.
– Non riesco – disse Chris.
– Perché? – chiesi io.
– Per quello che hai detto l’altra sera, per il fatto che vuoi andartene. Non puoi farmi questo.
Rimasi in silenzio, e Wendy mi guardò con aria interrogativa, mentre la piccola Mary, percependo un velo di disagio, preferì allontanarsi e tornare dai suoi genitori.
– Non ho detto che me ne andrò, ho detto solo che voglio andarmene.
– Charlie, – disse Chris, – sai meglio di me che quando dici una cosa, poi la fai. Era da un po’ che ti comportavi in modo strano, e ora che so cosa ti passa per la testa, so anche che manterrai fede a ciò che hai detto e lascerai questa città. Forse non domani, ma presto lo farai.
– Chris, di cosa hai paura?
– Ho paura di te. Ho paura che tu non tornerai.

venerdì 27 maggio 2011

Terzo Capitolo

Bombardano dentro

Uno dei camerieri del ristorante che gestiva mio padre (e di cui era lo chef), Lucas, venne a casa nostra poco prima di cena per dirmi che Michael, l’altro cameriere, non si era sentito molto bene, e che io avrei dovuto sostituirlo. Era già successo altre volte, così presi la bici e seguii Lucas fino al ristorante.
Quella sera servii ai tavoli e ascoltai svariati discorsi.
Una donna anziana che cenava da sola mi fece i complimenti per i miei occhi verdi e si lanciò in un appassionato monologo sull’importanza del capitalismo; ella riusciva a dirmi un sacco di cose nel solo intervallo di tempo in cui le portavo i piatti.
– I comunisti ci vogliono tutti uguali! E poi…
E poi mi allontanavo, ma lei ritornava all’attacco non appena ero nuovamente nei paraggi.
Una ricca copia veniva da New York e litigava sul fatto che quella vacanza fosse una “vaccata” (testuali parole) e che lì non ci fosse niente da fare, né la vita era molto movimentata come quella cui erano abituati. Erano allergici alla quiete.
George, mio padre, mi diede il permesso di andare a casa solo alle dieci. Vi arrivai sfinito e, dopo aver mangiato controvoglia una fetta della torta avanzata, mi buttai sul letto e mi ad-dormentai immediatamente.

La mattina dopo, il signor Johnson, neanche a farlo apposta, tenne una lezione sulla Rivoluzione d’Ottobre e sull’ideologia comunista. Secondo lui il comunismo in sé era qualcosa di molto nobile, solo che era utopico e impossibile da realizzare. Questo aveva portato a milioni di morti. Fui sorpreso della condizione in cui si trovavano i cittadini russi prima di quell’ottobre.
Chris fece uno dei suoi logorroici ma stimolanti interventi sull’importanza dei diritti umani e della distribuzione equilibrata delle ricchezze.
– Io ritengo che ogni rivoluzione abbia i suoi perché.
Il signor Johnson sospirò esasperato. – Su questo punto concordiamo tutti, Christopher.
– Certo, ma i russi non avevano la cultura necessaria per tenere in piedi un nuovo ordine, giusto? La rivoluzione la fanno i poveri, gli operai, quelli la cui dignità viene calpestata ogni giorno. Facile lamentarsi quando si ha tutto.
Calò il silenzio.
Nessuno osava commentare.
Il signor Johnson si alzò e andò alla lavagna. – Tema per settimana prossima: come evitare le rivoluzioni.

Al pomeriggio avevo un’importante partita di tennis al campo della scuola. Chris venne a vedermi insieme a una ragazza del liceo femminile che non avevo mai visto. Era carina e sorridente, ma l’avrei conosciuta meglio dopo aver giocato. Chris sembrava un po’ imbarazzato, e ciò mi mise di buon umore a causa dell’affetto che provavo nei suoi confronti.
Era una giornata soleggiata ma molto fredda, Natale era vicino, quindi c’erano poche persone ad assistere, e riuscii a trattenere meglio il nervosismo.
Vinsi facilmente e andai a stringere la mano all’avversario, un ragazzetto bruno e basso che non se la prese minimamente per la sconfitta.
Chris venne a congratularsi con me dandomi un’amichevole pacca sulla spalla.
– Domani è sabato, quindi stasera si festeggia! Ho una cosina speciale per divertirci.
Mi fece l’occhiolino.
– Ah, e questa è Julia.
Le strinsi la mano. – Piacere Julia, io sono Charlie.
– Ciao, Charlie, begli occhi.
Le sorrisi. – Grazie.
– Ti aspettiamo all’uscita da scuola, vai a lavarti che puzzi! – concluse Chris.
Salutai e andai negli spogliatoi per farmi la doccia. Insieme al sudore cercai di lavar via anche il senso di smarrimento che mi opprimeva, ma non ci riuscii.

Quella sera i miei andarono a teatro, e non sarebbero stati di ritorno prima dell’una di notte. Chris colse l’occasione al volo e mi chiese se lui e Julia sarebbero potuti venire da me per svagarsi un po’. Alan non avrebbe dato fastidio, senza contare che tra lui e Chris c’era un particolare rapporto basato su battutine a sfondo culturale, e Chris si divertiva tantissimo, nonostante la maggior parte delle volte ne uscisse sconfitto.
La sorpresina di cui mi parlava alla partita non era altro che tre bottigliette di vodka ancora chiuse.
– Ho pensato, – mi disse, – che se non hai niente da nascondere ti darai alla pazza gioia.
– Chris, non so…
Mi mise una mano sulla spalla. – Charlie, amico mio, quando i tuoi genitori saranno tornati, noi saremo già a casa nostra e tu a dormire come un sasso.
Alla fine mi convinse, e nonostante mio fratello iniziò a fare storie non appena vide la vodka, presto Chris lo fece tranquillizzare, iniziando così il loro consueto battibecco.
Io ne bevvi un sorso e poi iniziai a parlare con Julia.
– Come hai conosciuto Chris? – le chiesi.
– Oh, dev’essere successo in qualche piazza mentre teneva un comizio.
Strabuzzai gli occhi.
– Sto scherzando, scemo – rise lei.
Bevvi un altro sorso e un altro ancora. Avendo finito il bicchiere, chiesi a Chris di riempirmelo. Lui non se lo fece ripetere due volte.
Alan e il mio amico misero su il disco con il primo album di Little Richard e ciò mi indusse a scolarmi anche il secondo bicchiere di vodka.
– Ehi, vacci piano.
– Ma non ho niente da nascondere, come dice Chris.
– Chaaarlie, tuo fratello non sa qual è la capitale della Mongolia!
Scoppiai a ridere rumorosamente. – Ma nemmeno tu, Chris!
Venne vicino a me e mi versò altra vodka. – Questa sera non mi sfuggi, devi dirmi cos’hai che non va! Fattelo dire tu, Julia! Fatti dire da Charlie cos’ha che non va!
La ragazza mi guardò con aria interrogativa. – Che intende dire?
– Niente.
Bevvi anche il terzo bicchiere.
Chris me ne versò subito uno nuovo.
– Intendo dire – disse – che Charlie è molto chiuso negli ultimi tempi. E soprattutto non scrive più. Te l’avevo detto che scriveva? Sì, insomma, dovresti vedere le poesie e i racconti, sono molto belli, e ne ha scritti tantissimi! Solo che ora dice che ha smesso.
Sorseggiai il quarto bicchiere. – Non riesco più a scrivere perché vorrei scrivere troppe cose – mormorai.
– Questo a me l’hai già detto, amico – rispose Chris. – Quello che non mi hai detto è cosa vorresti scrivere. Sono sicuro che nella confusione della tua testa tu abbia delle idee ben fisse.
Alan ascoltava, in silenzio. Little Richard copriva i pensieri.
Mi versai da solo altra vodka. La testa mi girava ma ero in estasi, e a un passo dal rivelare le mie intenzioni.
– Voglio andarmene.
In quel momento si concluse la canzone di Little Richard.

mercoledì 25 maggio 2011

Secondo Capitolo

Si spegne il sole

A casa trovai Alan che leggeva Guerra e Pace sul divano. Senza alzare la testa disse – Ciao, Charlie –, come tutte i giorni. Mamma stava ancora finendo la sua lezione di piano con una ragazzina di quattro o cinque anni più piccola di me. Mi salutò allo stesso modo di mio fratello e mi chiese cosa volessi per cena.
– Chris mi ha invitato da lui, è un problema?
– No, tesoro, vai pure. Ci vediamo stasera. Clara, attenta al si bemolle, non devi dimenticarlo! Avanti, riprova.
– Ti dispiace se gli porto qualche fetta della torta che hai fatto?
– Cosa tesoro? La torta? Sì… no, no, assolutamente, portagliela pure, poi fatti dire come l’hanno trovata! Il si bemolle, Clara!
– Dove sei arrivato? – chiesi a Alan.
– Hai fumato?
– Che te frega? Dove sei arrivato?
– A metà, più o meno.
Ci rinunciai, mi mossi in direzione della cucina e lì tagliai la torta a metà con un coltello che avevo preso da un cassetto. La avvolsi in un sacchetto di plastica e tornai fuori. L’aria gelida mi riavvolse dolcemente, e per qualche secondo mi sentii a casa.

***

Chris stava apparecchiando quando arrivai. A casa non c’era nessuno tranne la sorella più piccola, Mary, che aveva otto anni.
– Charlie!
– Ciao, piccolina – dissi, dandole un bacio sulla fronte. – Tutto bene?
– Mangi con noi, Charlie?
– Certo! Cosa ci ha fatto tuo fratello di buono?
Lei alzò le spalle e disse: – Boh!
Charlie era ai fornelli che canticchiava una canzone di Sinatra di qualche anno addietro.
Don’t like goodbyes, tears or sighs, I’m not good at leaving time, I got no taste for grieving time, no, no, not meee!
– Chris?
Lanciò un mezzo urlo e quasi mandò all’aria la padella e la carne. – Oh, Charlie, non ti avevo sentito. Sai, stavo…
– Cantando. Hai la stessa voce di Sinatra.
Rise. – Ah ah! Tu ti prendi gioco di me, amico mio! In ogni caso la carne è quasi pronta, vai pure a sederti insieme a Mary.
– Hai bisogno di aiuto?
– No, no, tranquillo, me la sbrigo da solo. Distraiti un po’ con mia sorella, non dev’essere difficile.
In sala da pranzo mi sedetti accanto a Mary. Era una bambina graziosa, con i capelli biondi e ricci come quelli di suo fratello, gli occhi scuri e calmi. Aveva un viso rotondo, le guance rosse con una fossetta su quella destra.
– Come fai a tenere i capelli così ordinati?
Mi riscossi. – Come?
– I capelli… li pettini tanto per averceli così?
Era una domanda che mi avevano già fatto più volte. Io tenevo i miei capelli neri sempre lisci e pettinati con la piega a sinistra, e molta gente si era sorpresa di questa cosa; infatti non c’è mai stato un giorno in cui li avessi in disordine o spettinati.
– Mi piace tenerli così – risposi.
– Ti piace e basta?
Annuii.

Dopo mangiato, io e Chris uscimmo a fare un giro in bicicletta senza una meta precisa. Pensavo che facesse così solo perché pensava di riuscire a strapparmi il mio “segreto” se avesse continuato a pressarmi.
Avevo sempre pensato che saremmo cresciuti insieme ancora per molti anni e che avremmo condiviso i nostri problemi fino a che ci fosse stato possibile. Ma quel problema Chris non l’avrebbe capito, non l’avrebbe voluto ascoltare nuovamente dalle mie labbra, avrebbe voluto cancellarmi dalla testa quella idea tanto folle. E io non potevo permettermelo.
Quando sarebbe venuto il momento, gli avrei detto che me ne sarei andato, e un minuto dopo mi avrebbe guardato andarmene, io e una valigia, per una qualche strada verso nord, senza sapere cosa stessi facendo e soprattutto perché, lo stessi facendo.
Lasciammo le bici poco prima della spiaggia legate al palo di un vecchio cartellone pubblicitario che ritraeva un’immagine semidistrutta di Marilyn Monroe.
Il vento soffiava più forte in prossimità del mare. Fischiava nelle orecchie, liberava la mente. L’inverno era il momento migliore per scrivere.
Chris mi chiese: – Cosa scrivi ultimamente?
– Cosa intendi dire?
– Intendo dire che so che non puoi stare un giorno senza mettere giù qualcosa, fosse anche un’idea del cazzo che abbandoni dopo poche righe. Quindi, ripeto la domanda, che stai scrivendo negli ultimi tempi?
Non risposi. Mossi qualche passo verso la riva.
– Allora?
– Non scrivo più niente – dissi infine.
– Come? Non scrivi più niente?
– No.
– E perché?
– Perché ho troppe cose dentro di me che vorrei scrivere, e so che se ci provassi scoppierei senza riuscire a scrivere nulla.
– Non ti capisco.
– Non devi capirmi.
– Ma io sono tuo amico. Io voglio capirti.
Lo abbracciai. – Grazie.
– Non c’è bisogno di ringraziarmi.
– Perché mai?
– È questo che fanno gli amici. Si capiscono, si aiutano. Se non è così significa che non sono amici; e noi lo siamo da tanto tempo. Proprio ora, nel momento in cui mi sembra che tu abbia più bisogno d’aiuto, rifiuti di confidarti con me?
– Forse non è il momento di essere aiutati, Chris.
Non disse niente, ma prese a raccogliere sassi per la spiaggia deserta e a lanciarli in mare facendo cerchi nell’acqua. Essi nascevano e morivano con la stessa velocità delle mie idee, bruciate ancor prima di prendere fuoco.
– Se cambi idea, – riprese dopo un po’ – dimmelo.
– Un giorno capirai – gli dissi.
Ma mi guardò triste. – Quando capirò sarà comunque troppo tardi, vero?

Restammo in spiaggia fino al tramonto, dimentichi dei compiti scolastici per l’indomani. Stemmo in silenzio, onorando le parole del signor Johnson di quella mattina, perché non c’era niente da dirsi ma tanto da tacere che a parole non si poteva certo esprimere.
Quando il sole si spense oltre il mare e la luce iniziò a sbiadire, allora ci alzammo, recuperammo le bici e ognuno pedalò verso la propria casa, lui con la certezza di trovarne una, io con tutto tranne che quella certezza.

lunedì 23 maggio 2011

Saltando nelle pozzanghere - Prologo e Primo Capitolo


Prologo

Scrivere era l’unica cosa che sapesse fare. Lui lo sapeva, la sua famiglia anche, e persino i suoi amici lo sapevano. La scuola, la sua città, il mondo fisico, esistevano solo in piccola parte nella sua vita; era come se si trovasse in una nuvola enorme e solo raramente riuscisse ad uscirne per vedere il cielo. Eppure aveva solo diciassette anni, non era brutto e nemmeno antipatico. Anzi, tutto il contrario a voler essere onesti. Il problema era che non riusciva a trovare il suo posto nel mondo. Voleva viaggiare e girarlo tutto solo nella speranza che un giorno avrebbe trovato un posto dove stare. Un posto che lo volesse, che lo chiamasse con il suo aspetto, che gli dicesse «tu devi vivere qui».
Viveva in una perenne crisi esistenziale, non sapeva dare un significato alla vita, alla sua casa, ai suoi sentimenti. Provava amore e odio come tutti gli esseri umani, si consumava in essi ma non riusciva ad abbracciarli. Non urlava, come succede spesso a tutti, perché ardeva di rabbia, né smetteva di mangiare perché era innamorato.
Semplicemente leggeva.
E scriveva.

Quando aveva dodici anni, Charlie era diverso. Scriveva già, ma non aveva ancora raggiunto la piena consapevolezza che lo avrebbe portato a sentirsi un adulto nel corpo di un ragazzo.
Da quando era nato, la sua famiglia aveva vissuto in una cittadina di qualche migliaia di abitanti sulla costa occidentale della California. Due anni dopo di lui era nato suo fratello Alan. Erano cresciuti insieme, né troppo affezionati l’uno all’altro né troppo distaccati: formavano insomma una normalissima coppia di fratelli. Il padre di Charlie era il direttore di un ristorante, mentre la madre dava lezioni private di piano.
Charlie andava bene a scuola, giocava discretamente a tennis e aveva una buona compagnia di amici. Prendeva voti più che sufficienti, nessuno si lamentava di lui e tutti in città erano sicuri che sarebbe diventato una brava persona, e che sarebbe vissuto lì per sempre con la sua famiglia. Fu quando aveva sui quindici anni che qualcosa dentro di lui si ruppe.
Una mattina Charlie si svegliò con la terribile sensazione di essere una persona sbagliata. Allo psicologo che l’avrebbe seguito per qualche tempo disse che era come soffocare, come se un peso insopportabile gli gravasse addosso e lo schiacciasse giù, sempre più giù, fino a farlo rimanere attaccato a quel paesino per il resto della sua vita.
Da quel momento maturò l’idea di andarsene. Prendere e sparire, senza sapere bene dove. Dentro di lui germogliò la convinzione che niente avesse senso al mondo, che la vita fosse la cosa più noiosa e triste mai esistita; e poiché niente poteva esistere senza la vita, arrivò alla conclusione che essa fosse la causa di tutta la tristezza che le persone provavano.



Capitolo 1: Un mondo nuovo e impazzito



– Perché, non vi chiedete mai perché, ragazzi miei, la chiamano Rivoluzione Americana e non “rivoluzione inglese”? Pensate, gli europei sono venuti qui, quattrocento anni fa, e hanno sterminato tutte le popolazioni indigene. E noi, tempo dopo, abbiamo avuto il coraggio di chiamare americana la nostra rivoluzione. Gli americani, ragazzi, sono morti. Noi non siamo americani, né europei. Noi siamo cittadini del mondo. Questo dovete ricordare, che molti ancora lo dimenticheranno negli anni a venire, e ripeteranno, consapevoli, gli stessi identici errori.
Christopher, il mio miglior amico, alzò la mano.
Il signor Johnson gli fece cenno di parlare.
– Signore, la rivoluzione ci ha reso il paese più bello del mondo.
– Il paese più bello del mondo? Non c’è un paese più bello del mondo. È il mondo ad essere bello, Christopher. Con quale diritto chiamammo – e chiamiamo – nostra questa terra? Sappi che non è di nessuno, né tua, né mia, né nostra.
Mentre mangiucchiavo la biro riflettei su quelle parole che mi sembravano tanto vuote quanto lo era la mia testa ogni mattina alle sette. Ma non riuscii a pensare a nulla che già Chris stava ribattendo al signor Johnson:
– Signore, io sono orgoglioso di essere americano, oggi. E sono orgoglioso che degli uomini abbiano combattuto per l’indipendenza delle colonie tanti anni fa. Non vorrei sembrare maleducato, signore, ma sembra che lei non apprezzi questo fatto.
Addentai la biro con maggior vigore.
– Mi fraintendi, Christopher. Io sono ancora più orgoglioso di te. Ma vedi, una quindicina di anni fa si è chiusa la peggiore guerra che il mondo abbia mai visto. Tu eri appena nato, non te la ricordi, e qui in America non è stata sentita come in Europa. Sappi che una guerra del genere, benché nessuno la voglia, potrebbe ripetersi. Quello che sto cercando di farti capire, a te e ai tuoi compagni, è che non bisogna mai, mai, considerare qualcuno uno straniero. E se considerate una persona dai suoi costumi, ed essi sono rozzi e volgari, allora cercate di modificarli, di aiutarla, di mostrarle l’universalità dei diritti. Mi capite?
– No – rispose Chris sorridendo amareggiato. – Non completamente, almeno.
Io scrissi due versetti improvvisati sul quaderno e il signor Johnson sorrise a Chris.
– È questo, Christopher, il problema della gente. Non si capisce mai a parole. Di questo non dovete aver paura: di rimanere a corto di cose da dire. Credetemi, ci sono altri modi, più veri, più diretti, per parlare a qualcuno. Le parole possono essere cambiate, un po’ di qua e un po’ di là e il significato è stravolto. Non ho idea, né voglio saperlo, di quante persone abbiano sofferto a causa delle parole.
Chris disse: – Le sue lezioni sono sempre molto interessanti, signor Johnson. Certo, non so quante persone qui dentro condividano il suo pensiero, ma apprezzo il fatto che ci faccia riflet-tere su temi di indubbia importanza.
Un ragazzo dall’altro capo della classe rise. – Sei un cretino, Chris. Non saranno certo queste leccate a salvarti il culo, quest’anno!
La classe scoppiò a ridere e il signor Johnson, anch’egli ridacchiando, disse: – Vai fuori, James.
Il ragazzo che aveva parlato uscì tutt’altro che risentito.
– Bene, – sospirò il signor Johnson, – mancano cinque minuti, avete qualcosa da chiedermi?
Alzai la mano. – Signore, e se fossi io a sentirmi straniero a casa mia?
Mi guardò attentamente. – Tu ti senti straniero a casa tua, Charlie?
Non risposi. Lasciai che il silenzio lo facesse al mio posto.
– Be’, – riprese il signor Johnson, – se è così potresti non appartenere a questo paese.
– Come dice lei, signore, io appartengo al mondo – dissi.
Chris diede un colpo di tosse.
– Va bene ragazzi, potete andare. –
Parlato che ebbe Johnson, tutti si alzarono e presero i loro zaini.
Chris mi afferrò il braccio e, mentre gli altri uscivano dalla classe, si piantò di fronte al signor Johnson e disse:
– Naturalmente, signore, non faccia caso alle parole del mio amico, ultimamente ha sempre la testa fra le nuvole. –
– Ho notato. –
Stemmo un attimo zitti, poi Johnson riprese: – Be’, Charlie… se hai bisogno di parlarmi non farti problemi, va bene? E ora andate a casa.
– Arrivederci, signor Johnson – disse Chris sempre trascinandomi per il braccio.
– Arrivederci, ragazzi.
Una volta fuori dall’edificio, Chris tirò fuori un nuovo pacchetto di Marlboro dalla tasca dei pantaloni.
– Sigaretta? – mi chiese.
Annuii assente.
– Eddai, Charlie! – esclamò porgendomela. – Che hai? Non ti sarai mica innamorato, vero?
– No – dissi.
– Qualunque cosa sia potresti dirmela.
Mi accese la sigaretta.
– Vieni a mangiare da me?
Feci spallucce. – Devo avvisare a casa.
– E allora muoviti, ti ho appena invitato. Ci vediamo fra un’ora, mi raccomando. A dopo!
Ritirò l’accendino in tasca e si allontanò fischiettando.
Io presi la strada opposta. Mi sentivo la testa occupata da mille pensieri. Le parole del signor Johnson non avevano un solo significato, ma potevano voler dire tante cose allo stesso tempo. Era forse possibile che ciò che provavo fosse il non sentirmi a casa dove, dopotutto, la mia casa c’era? E cos’era quella paura che sentivo, il timore di non riuscire a trovare il mio posto o la convinzione che quel posto non esistesse?
Ai fianchi del viale che stavo percorrendo gli alberi erano spogli, e il fumo della sigaretta si confondeva con la condensa del mio respiro. L’inverno aveva la capacità di spegnermi fuori e accendermi dentro. Ribollivo d’ispirazione. Sentivo crescere dentro di me migliaia di nuove storie, decine di migliaia di vite e di amori, morti, delusioni, e gioie. La mia vita non mi bastava, esplodevo dal desiderio di viverle tutte. Non potendolo realizzare, scrivevo, scrivevo senza mai fermarmi, componendo una parola e pensandone cento. Questa situazione mi consumava e mi cambiava, quasi il mondo fosse all’improvviso impazzito.