"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

domenica 25 settembre 2011

Recensione libro: "Sulla strada" di Jack Kerouac


E non smisi nemmeno per un attimo di pensare a Dean e a come fosse salito sul treno e si fosse fatto più di cinquemila chilometri sopra quell'orrida terra senza nemmeno sapere il perché, se non per vedere me.

"Sulla strada" è un romanzo che andrebbe letto tutto d'un fiato, tutto in una volta. È un romanzo che non lascia il tempo di respirare, il tempo di fermarsi e mettersi a pensare che razza di vista si sta facendo. Anche i momenti di apparente calma sono falsi, illusioni. Sembra che si sia trovato il proprio posto nel mondo e invece niente, era solo una sensazione passeggera. Perché dare un nome a questa generazione, perché chiamara "Beat Generation"? Quelli che l'hanno vissuta non potevano stare fermi, muoversi era più forte di loro, la strada stessa diventa un personaggio del libro, mentre per loro è un amico cui ritornare dopo pochi giorni di relativa quiete. La strada li porta dalla costa orientale a quella occidentale degli Stati Uniti e viceversa, e ogni volta sembra essere una novità, anche se poi, quando si fa ritorno, ci si sente solo tristi.

Potremmo inquadrare il romanzo di Kerouac come un racconto sul fantastico personaggio di Dean Moriarty (Neal Cassady), colui sul quale puntano i riflettori dello scrittore per tutte le quasi quattrocento pagine. C'è un punto in cui Dean viene abbandonato da tutti. Nessuno più sopporta quel suo fare approfittatore, quel suo sfruttare un amico e poi piantarlo in asso quando gli fa più comodo e ha finito di sfruttarlo. A quel punto Sal Paradise (Jack Kerouac) gli si fa ancora più vicino, e qui rimando al titolo della recensione. La fine del romanzo mi ha lasciato un certo disagio, una certa malinconia, come se Dean si fosse alla fine reso conto di quanto vuota fosse la sua vita, di quanto provasse a riempirla viaggiango e viaggiando, beandosi del mondo e godendoselo fino in fondo. Aveva forse capito che quel suo amico l'aveva salvato, gli aveva mostrato come ci si doveva accontentare di una famiglia dopo infiniti viaggi in giro per l'America e il Messico.

Francamente non riesco a comprendere i tanti commenti negativi che ho letto un po' dappertutto. È il semplice manifesto di un'America che sta cambiando. Che dalla depressione degli anni '30 e dalla Seconda Guerra Mondiale attraversa un breve periodo prima di diventare l'America che è oggi. E in questo cambiamento abbiamo avuto la Beat Generation. Abbiamo avuto questi giovani che non sapevano se il mondo era un luogo che ogni tanto stesse fermo, oltre a muoversi. E per non venir sorpassati, si muovevano anche loro.

E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli lungo il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un'unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità e so che a quell'ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell'arrivo della notte fonda che benedisce la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro, allora penso a Dean Moriarty, persino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty.

giovedì 22 settembre 2011

Recensione libro: "Oltre il confine" di Cormac McCarthy


È il dolore ad addolcire ogni dono.

Grazie, Cormac McCarthy. Grazie all'infinito. Hai scritto il libro della mia vita. E ti chiedo scusa se lo chiamo libro. Ti chiedo scusa per quelli che lo hanno disprezzato e lo disprezzeranno. Perdonali, perché non sanno quello che fanno. Io non posso fare altro che inchinarmi davanti a tanta capacità letteraria. Non posso far altro che piangere sapendo che un autore ancora vivente ha prodotto questo libro. Sapendo che ha scritto queste pagine, che non è stato un dio a farlo.

Scusatemi, sto cercando di razionalizzare un po'. Sono sconvolto, davvero sconvolto. Sono arrivato all'ultima riga con gli occhi pieni di lacrime senza sapere neanche bene il perché. So solo che dentro ero completamente scosso. Ancora adesso faccio una fatica immensa a ragionare, a restare lucido. Le parole, di fronte a certe pagine, vengono meno.

Ci troviamo di fronte a un libro di livello superiore. Non so cos'altro leggerò, nei prossimi anni, ma qui la letteratura - e parlo della letteratura di tutti i tempi - tocca vette altissime. La maggior parte degli scrittori, io per primo, possono solo trascorrere la vita sognando di avere anche solo la metà della bravura di McCarthy, ma la verità è che non l'avranno mai. La verità è che Cormac McCarthy è il miglior scrittore che io abbia mai letto. La verità è che "The Crossing" (Oltre il confine) è talmente immenso che necessita sicuramente decine di riletture prima di poterlo comprendere a pieno. Prima di comprendere ogni riga, ogni parola. Prima di rendersi conto di star leggendo un "miracolo in prosa", come dice il retrocopertina. Prima di accorgersi che sono 370 pagine di poesia, non una di meno.

Le quattro parti in cui è suddiviso il libro sono una più bella dell'altra. La prima, quella che descrive il rapporto tra il protagonista e la lupa, credo comprenda le pagine più belle mai scritte sulla relazione che si può instaurare tra un essere umano e la natura. Le altre tre parti parlano d'altro, e non ho intenzione di accennarvi nemmeno una parola a riguardo.

McCarthy, quando scrive, lo fa scrivendo del lato umano più triste, più cupo, più nero. Lo fa di proposito, perché alla fine la vita è questo. Leggere questo libro è stato come guardare dentro un abisso e rimanere a fissarlo per tutta la durata della lettura. Un abisso che affonda le sue radici in te, come i tuoi occhi affondano le loro in lui. E da quell'abisso è impossibile uscirne. O forse ne esci, ma ne esci con una consapevolezza del mondo da togliere il fiato. Non guarderai più nemmeno un sasso allo stesso modo con cui lo guardavi pieno. McCarthy ha questo potere. Il potere di illuminare di una luce triste tutta la realtà. E poi non c'è nient'altro da fare se non piangere. E piangi per sfinimento, non perché il libro vuole commuovere. Non è quello il suo intento. A dire il vero il libro è così crudo e reale che commuovere è l'ultima delle sue intenzioni. Ma tu piangi perché alla fine non ce la fai più. Piangi perché i personaggi non ti dicono i loro pensieri. Tranne che nei dialoghi, McCarthy non te li dice. Tu lo capisci dai gesti cosa pensano. Tu lo capisci da come vedono il mondo. E il mondo che vedono è un mondo triste, triste, triste.

Ho sottolineato quasi tutto il libro. Ci sono intere pagine sottolineate di seguito. Molti passi li ho già trascritti, ma non li ripoterò nella recensione. Non ha senso, sono talmente belli che stonano con le mie parole.

Ho ancora qualcosa da dire. Vorrei dirvi leggetelo, ma sarebbe banale. Non ha senso leggerlo. Vi renderà solo persone più tristi. Vi renderà ancora più estranei a questo mondo che viviamo tutti i giorni. Vi farà credere che niente ha senso, che tutto quello che facciamo è inutile. Ed è terribile. Io credo che amare un libro così sia semplice. È facile che piaccia. Sia perché è scritto in modo sublime, sia perché McCarthy ha la miglior prosa che io abbia mai conosciuto, sia perché è poesia pura. Ma che lo capiate, che capiate quello che McCarthy vuole dire, be', quella è un'altra storia. Il fatto è che un libro di tale portata letteraria è presente nella maggior parte delle librerie italiane eppure nessuno che conosco l'aveva mai letto o sentito nominare. Toglietevi dalla testa "La strada", l'ultimo lavoro del Maestro. È un bel libro, è bello anche il film, ma qui siamo a livelli inconcepibili per noi comuni mortali. Qui tocchiamto l'apice dell'abilità letteraria che un uomo può raggiungere.

Quando ho detto che avevo ancora qualcosa da dire, intendevo qualcosa di lungo. Se siete stanchi, fermatevi qui. Seguiranno solo inutili soliloqui sulla bellezza di questo libro. Sto già pensando a come costruire l'altare a McCarthy in casa mia.

Billy è un ragazzo incredibile. Incredibile nella sua realtà di uomo, di essere umano. Incredibile nelle sue domande, nei racconti che ascolta durante il suo vagabondare. Ed è reso incredibile soprattutto dalle parole degli altri, da chi parla a lui di cose sconosciute, di ragionamenti sul mondo e sulla vita. Le storie che apprende nel suo viaggio sono molteplici. Le più importanti sono quelle del confronto tra il vecchio e il prete e quella del cieco. Quest'ultima è di una bellezza sconvolgente. Toccante a tal punto che non mi ritenevo degno di leggere. A tal punto da smettere e dirmi: tu non meriti di leggere parole così belle. Tu non meriti di leggere questo libro. Perché io sono nato e ho vissuto diciassette anni della mia vita aspettando di leggere il libro pubblicato l'anno della mia nascita. Ormai lo credo per certo. Ancora grazie, Cormac McCarthy. Mi sembra di deturpare il tuo genio solo parlandone. Anche io non so quello che faccio, perdonami, e io ti perdonerò di avere 78 anni e ti perdonerò il fatto che non saranno molti i libri che ti restano da pubblicare. Ma io mi accontento lo stesso. Io mi accontento del fatto che tu abbia donato al mondo "The Crossing". Tutti dovremmo accontentarcene. Cosa si può chiedere di più dalla vita se non la lettura di un romanzo di questa portata? Davvero, cosa si può chiedere dui più? La felicità, forse? La felicità non è niente.

Un'altra cosa che ho capito, e spero di averla capita nel modo giusto, è che il mondo è una storia. Che tutte le storie fanno parte di un'unica storia, e quella storia è il mondo. E che noi stiamo vivendo una storia, né più né meno. Piango di fronte a questa consapevolezza. Piango di fronte all'illusione del mondo, alla sua inconsistenza, alla sua leggerezza. Come dice Mccarthy, non si può tenerlo in una mano, perché è inconsistente. È una storia. È un'illusione.

Alla fine ho deciso che qualche cosa dovevo pur riportarla. È lunga, ma non può essere altrimenti:

Sono venuto come un eretico che fugge da una vita precedente. Stavo fuggendo.
È venuto a nascondersi?
Sono venuto per via del disastro.
Scusi?
Il disastro. Il terremoto.
Il terremoto, certo.
Stavo cercando prove dell'intervento di Dio nel mondo. Ero arrivato a credere che quell'intervento fosse dettato dall'ira e credevo che gli uomini non si fossero mai interrogati a sufficienza sui miracoli della distruzione. Sui disastri di una certa grandezza. Credevo vi fossero prove del fatto che tutto ciò era stato tenuto in scarsa considerazione. Pensavo che Lui non si sarebbe dato premura di cancellare tutti i segni del proprio intervento. Avevo molta voglia di sapere. Pensavo che magari Lui si divertisse addirittura a lasciare degli indizi.
Che genere di indizi?
Non so. Qualcosa. Qualcosa di imprevisto. Qualcosa fuori posto. Qualcosa non vero o improbabile. Una traccia nella polvere. Un gingillo caduto a terra. Non una causa. No di certo. Non una causa. Le cause non fanno altro che moltiplicarsi e conducono al caos. Volevo sapere cos'aveva in mente. Non potevo credere che distruggesse la propria chiesa senza alcuna ragione.
Crede forse che la gente di qui avesse fatto qualcosa di simile?
L'uomo fumò pensieroso. Sì, credevo che fosse possibile. Possibile. Come nelle città in pianura. Pensavo ci fossero prove di qualcosa di indicibile che l'avesse sollecitato a intervenire. Qualcosa tra le macerie. Tra la polvere. Sotto le vigas. Qualcosa di oscuro. Chi potrebbe dirlo?
Che cosa ha trovato?
Nulla. Una bambola. Un piatto. Un osso.
Si chinò e spense la sigaretta in una coppa di terracotta sul tavolo.
Sono qui a causa di una certa persona. Sono venuto a ricostruirne i passi. Forse a vedere se per caso vi fosse un percorso alternativo. Ma qui non si trova niente. Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d'altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo. Ecco che cosa si poteva trovare qui. Il corrido. La storia. E come tutti i corridos, in fin dei conti raccontava soltanto una storia, perché ce n'è solo una da raccontare.
I gatti si muovevano, il fuoco scoppiettava nella stufa. Fuori, nel villaggio abbandonato, il silenzio più profondo.
Che storia è? domandò il ragazzo.
Nella città di Caborca, sul fiume Altar, visse un uomo, un vecchio. A Caborca era nato e a Caborca morì. Però visse per un certo periodo in questa città, a Huisiachepic.
Che cosa sa Caborca di Huisiachepic e che cosa sa Huisiachepic di Caborca? Sono mondi diversi, dovrai convenire con me. Eppure anche così c'è solo un mondo e qualsiasi cosa tu possa immaginare è un suo elemento necessario. Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c'è mai fine al raccontare. E, ripeto, sia a Caborca che a Huisiachepic che in qualsiasi altro posto con qualsiasi altro nome o senza nome alcuno, tutte le storie sono una cosa sola. Se ascolti come si deve, sono una unica storia.

Voi cosa dite? Voi che parole pronunciate di fronte a un foglio e dell'inchiostro? Che potere avete voi, che potere abbiamo noi, davanti a un libro scritto in questo modo?
Io nessuno. Io sono un poveraccio, una nullità. Sto seriamente pensando di esauire tutti i caratteri a disposizione. Ma poi chi la legge, questa recensione? Ancora due cose, solo due.

Voglio solamente dire a chi è arrivato fino in fondo, che questi libri vi distruggono. Non vi cambiano la vita, non vi salvano. Vi distruggono. La bellezza ha quest'effetto.
L'ultima cosa che vi dico è di regalarlo a tutti coloro che conoscete. Non per distruggerli, ma per farli diventare come voi. Per farli rendere conto della vita e del mondo. Regalatelo e piangete pensando alle persone che amate che piangono leggendolo. Che piangono arrivando all'ultima parola. Arrivando al punto. Ci sono arrivato anch'io. Basta.

domenica 18 settembre 2011

Tutte le storie sono un'unica storia.


Sono venuto come un eretico che fugge da una vita precedente. Stavo fuggendo.
È venuto a nascondersi?
Sono venuto per via del disastro.
Scusi?
Il disastro. Il terremoto.
Il terremoto, certo.
Stavo cercando prove dell'intervento di Dio nel mondo. Ero arrivato a credere che quell'intervento fosse dettato dall'ira e credevo che gli uomini non si fossero mai interrogati a sufficienza sui miracoli della distruzione. Sui disastri di una certa grandezza. Credevo vi fossero prove del fatto che tutto ciò era stato tenuto in scarsa considerazione. Pensavo che Lui non si sarebbe dato premura di cancellare tutti i segni del proprio intervento. Avevo molta voglia di sapere. Pensavo che magari Lui si divertisse addirittura a lasciare degli indizi.
Che genere di indizi?
Non so. Qualcosa. Qualcosa di imprevisto. Qualcosa fuori posto. Qualcosa non vero o improbabile. Una traccia nella polvere. Un gingillo caduto a terra. Non una causa. No di certo. Non una causa. Le cause non fanno altro che moltiplicarsi e conducono al caos. Volevo sapere cos'aveva in mente. Non potevo credere che distruggesse la propria chiesa senza alcuna ragione. Crede forse che la gente di qui avesse fatto qualcosa di simile?
L'uomo fumò pensieroso. Sì, credevo che fosse possibile. Possibile. Come nelle città in pianura. Pensavo ci fossero prove di qualcosa di indicibile che l'avesse sollecitato a intervenire. Qualcosa tra le macerie. Tra la polvere. Sotto le vigas. Qualcosa di oscuro. Chi potrebbe dirlo?
Che cosa ha trovato?
Nulla. Una bambola. Un piatto. Un osso.
Si chinò e spense la sigaretta in una coppa di terracotta sul tavolo.
Sono qui a causa di una certa persona. Sono venuto a ricostruirne i passi. Forse a vedere se per caso vi fosse un percorso alternativo. Ma qui non si trova niente. Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d'altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo. Ecco che cosa si poteva trovare qui. Il corrido. La storia. E come tutti i corridos, in fin dei conti raccontava soltanto una storia, perché ce n'è solo una da raccontare.
I gatti si muovevano, il fuoco scoppiettava nella stufa. Fuori, nel villaggio abbandonato, il silenzio più profondo.
Che storia è? domandò il ragazzo.
Nella città di Caborca, sul fiume Altar, visse un uomo, un vecchio. A Caborca era nato e a Caborca morì. Però visse per un certo periodo in questa città, a Huisiachepic.
Che cosa sa Caborca di Huisiachepic e che cosa sa Huisiachepic di Caborca? Sono mondi diversi, dovrai convenire con me. Eppure anche così c'è solo un mondo e qualsiasi cosa tu possa immaginare è un suo elemento necessario. Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c'è mai fine al raccontare. E, ripeto, sia a Caborca che a Huisiachepic che in qualsiasi altro posto con qualsiasi altro nome o senza nome alcuno, tutte le storie sono una cosa sola. Se ascolti come si deve, sono una unica storia.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

Forse vorresti comprare un fiore, ma io non potrei mai venderlo


Disse al ragazzo che pur essendo orfano avrebbe dovuto smettere di vagabondare e trovarsi un posto nel mondo, perché quel vagabondare sarebbe diventato per lui una passione e tale passione lo avrebbe estraniato dagli uomini e quindi anche da se stesso. Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare, e imparare a conoscere quei cuori, e per far ciò si doveva vivere con gli uomini e non limitarsi a passare in mezzo a essi. Disse che per quanto l'orfano sentisse di non avere più nulla a che spartire con gli uomini, doveva mettere da parte quella sensazione, perché dentro di lui vi era una grandezza di spirito che gli uomini potevano vedere, e gli uomini avrebbero desiderato conoscerlo e il mondo avrebbe avuto bisogno di lui così come lui aveva bisogno del mondo, perché erano una cosa sola. Alla fine disse che mentre questa era di per sé una cosa buona, come tutte le cose buone costituiva anche un pericolo.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

sabato 17 settembre 2011

Un ragazzo e una lupa


Si accovacciò sulla lupa e le toccò il pelo. Le toccò i denti, freddi e perfetti. L'occhio voltato verso il fuoco non rispecchiava più la luce e con il pollice glielo richiuse, le si sedette a fianco e le mise una mano sulla fronte insanguinata. Chiuse gli occhi per potersela immaginare correre libera tra le montagne, alla luce delle stelle, dove l'erba è umida e l'apparire del sole non ha ancora fatto svanire l'immagine delle creature che nella notte le sono passate davanti. Cervi, lepri, colombe e avicole, tutti ben fissati nell'aria per la sua gioia, tutte le nazioni del possibile mondo voluto da Dio del quale lei era parte, dal quale non era separata. Lì dove lei correva le urla dei coyote cessavano come se davanti a loro si fosse chiusa una porta e tutto fosse paura e meraviglia. Le sollevò la testa rigida appoggiata alle foglie, la trattenne, o si allungò per trattenere ciò che non si può trattenere, ciò che già correva tra le montagne, al contempo tremendo e bellissimo, come un fiore carnivoro. Ciò che costituisce la sostanza del sangue e delle ossa, ma che sangue e ossa non si possono generare, né su un altare né con una ferita di guerra. Ciò che noi possiamo credere che sia in grado di tagliare, dar forma e plasmare la sagoma scura del mondo, se vento e pioggia sono in grado di farlo. Ma che non può venir trattenuto, non può mai venir trattenuto e non è un fiore, ma è una cacciatrice veloce di cui il vento stesso ha terrore e che il mondo non può perdere.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

giovedì 15 settembre 2011

Fratelli


Boyd si svegliò una volta quella notte e restò ad ascoltare il silenzio della casa immersa nell'oscurità e la stufa che scoppiettava, o forse era la casa che scricchiolava al vento della pianura. Quando guardò il letto di Billy vide che era vuoto e dopo un po' si alzò e andò in cucina. Billy sedeva davanti alla finestra a cavalcioni di una sedia. Aveva le braccia incrociate sullo schienale e guardava la luna sul fiume e gli alberi sulla riva e le montagne a sud. Si voltò a guardare Boyd sulla porta.
Cosa fai? disse Boyd.
Mi sono alzato per controllare il fuoco.
Cosa guardi?
Niente. Non c'è niente da guardare.
Che ci fai lì seduto?
Billy non rispose. Dopo un po' disse: Torna a letto. Arrivo subito.
Boyd entrò in cucina. Si fermò accanto al tavolo. Billy si voltò a guardarlo.
Che cosa ti ha svegliato? disse.
Tu.
Non ho fatto nessun rumore.
Lo so.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

lunedì 12 settembre 2011

Incipit della "nuova creatura"


Sole splendente, così chiamava sua madre da piccolo. Sua madre che sorrideva sempre, che non si lamentava mai, che era sola con il figlio ma viveva felice. Sole splendente. L’unica vera luce nella notte. Era lei che gli diceva «resisti» quando i fascisti venivano a prendere qualcuno. Lei che gli leggeva Andersen alla sera. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca. Rimani a testa alta qualsiasi cosa accada, perché ami qualcosa che va al di là delle disgrazie. Però non pensare che sia l’amore e farti fare il primo passo ogni mattina. È il semplice fatto di esistere. L’esistenza ti permette di amare, e tu sei felice di esistere, non di amare. Si ama perché si è vivi».
Rimaneva lì seduta di fianco al suo letto, mentre fuori scendeva la neve – amava l’inverno –, con il libro di Andersen aperto sulle ginocchia. Ma lui pretendeva di vedere le parole, di toccarle con la mano come se avessero un loro spessore. Sua madre gliele indicava, e lui seguiva quel dito giovane e femminile fino a una vocale, una consonante, e restava estasiato di fronte alla formazione di una parola, ammutolito dopo aver letto una frase. Che grande scoperta, quella del mondo della carta. Lo riempiva di meraviglia. Lo illuminava. E non solo perché sua madre era il sole splendente, ma soprattutto perché imparare a scrivere divenne ancor più importante che imparare a leggere. Voleva creare anche lui qualcosa come il soldatino di stagno. Voleva diventare anche lui un sole splendente. Fuori, da qualche parte, qualcuno scriveva contro i fascisti, e loro lo cercavano, poi lo trovavano e lo ammazzavano. Ma quelle persone non avevano una ballerina come il soldatino con cui fondersi insieme nella morte. Avevano le parole. Giuravano di fronte a «libertà», «democrazia», si inchinavano a mani giunte davanti ai libri, chiedendo di salvarli, di tenere per l’eternità la loro stupida idea. E quando chiedeva a sua madre cos’era la libertà, cos’era la democrazia, lei non rispondeva. «Mamma, per favore». E lei ancora stava zitta. Poi gli spiegava che non sapeva cos’erano quelle cose, che ignorava cosa significassero. Diceva: «gli uomini che le usano, raramente ne hanno un’idea concreta». «E allora perché le usano?». «Perché non hanno altro». «Come non hanno altro?». «Hanno solo la carta e le parole». «E perché i fascisti vogliono uccidere le persone che hanno solo la carta e le parole?». «Perché i fascisti non hanno nemmeno quelle». «Noi siamo fascisti, mamma?». «Noi stiamo zitti». «E quindi?». «E quindi è sufficiente questo per essere fascisti».
La riempiva sempre di domande. Le domande lo tenevano vivo. Se non avesse potuto domandare, non avrebbe saputo come vivere. Curiosità, curiosità, curiosità. Sua madre gli ripeteva quella parola per tre, dieci, mille volte. Voleva che gli entrasse in testa. Che diventasse la sua religione. «Prega la curiosità, non Dio. Se non sei curioso, sei morto». «Come faccio a non aver paura della morte, se non prego Dio?». «Luca, tutti moriremo un giorno. Non serve a niente costruire la propria vita sulla convinzione che dopo ci sarà qualcosa». «Ma dopo c’è qualcosa?». «Qualcuno c’è mai stato, in quel dopo?». «No, mamma. Non credo».
Quell’insicurezza, gli diceva, era umana. L’unica certezza della sua vita erano le fiabe di Andersen prima di dormire. E che certezza era, per lui! Era un bambino acuto, di quelli che si amano o si odiano, ma che mai lasciano indifferenti. D’inverno gli piaceva stare sotto le coperte con la cioccolata calda che ogni tanto sua madre gli preparava. Ficcava la testa tra le pagine di Salgari e Stevenson, leggeva finché le parole non si mischiavano fra loro. D’estate, invece, giocava. Ma odiava il gioco perché non c’era nessuno con cui valeva la pena giocare. Non sapeva se era più felice in primavera quando i fiori sbocciavano o in autunno quando li vedeva morire sapendo, in cuor suo, che la prossima primavera sarebbero sbocciati di nuovo. Bastava poco per renderlo felice, ma non accadeva mai che qualcuno, a parte sua madre, ci riuscisse. Non credeva nei miracoli perché non ne aveva mai visto uno, ma anche se ne avesse visti non ci avrebbe creduto lo stesso, perché nessuno aveva mai fatto il miracolo di renderlo felice. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca». Il soldatino con una gamba sola. La ballerina. La loro tragica fine. Che cosa dolce il fatto che due cuori muoiano insieme. Che cosa dolce, il cuore. Era solo un organo, aveva imparato a scuola. Eppure qualcuno, molti anni prima, gli aveva dato un significato più profondo. Qualcuno aveva preso le cinque lettere di “cuore”, la c, la u, la o, la r e la e, le aveva unite in quell’ordine e per la prima volta aveva dato un volto a delle sensazioni, chiamandole cuore. E Luca si chiedeva sempre se quel qualcuno fosse stato un genio o un imbecille. «Nessuno dei due», rispondeva sua madre; «era semplicemente un folle».
Ricordava sempre quella storia che sua madre gli raccontava; una storia diversa dalle altre perché l’aveva inventata lei. Parlava di un padre, di suo figlio e dei fascisti. Il padre scriveva per un giornale di un altro partito, e continuò a scrivere anche dopo che i fascisti iniziarono a sopprimere tutta l’opposizione politica, divenendo di fatto l’unico partito eleggibile nel paese. Continuò a scrivere semplicemente perché non poteva farne a meno. Così, quando lo vennero a prendere, seppellì suo figlio sotto una montagna di libri e i fascisti non lo trovarono. Fucilarono il padre, e nessuno disse niente. Fucilarono altri cento padri, e nessuno disse niente nemmeno questa volta. E tutto questo alla gente andava bene, perché chi veniva ammazzato era solo perché non voleva diventare fascista. Quel bambino crebbe tra i libri che gli avevano salvato la vita. Respirò le loro pagine e parlò con le loro parole. E non divenne mai fascista.

─ Marco Tamborrino

domenica 4 settembre 2011

I romanzi


I romanzi, [...] non ne ho letti molti, ma quelli che ho letto, a me sembra che non sia sopportabile, la loro forma, questo fatto che pretendono di raccontarti la storia di una persona, di un gruppo di persone, però in realtà non lo fanno, c'è una trama, un inizio e una fine, e in mezzo compaiono dei personaggi, alcuni buoni e alcuni cattivi, e tu ti affezioni e vorresti sapere di loro, com'erano da piccoli e come erano i loro genitori, e cosa pensano dell'amore e della vita, cosa gli succederà quando decideranno di sposarsi, tutte le cose che è normale volere sapere delle persone che ti interessano, e invece gli scrittori ti danno solo poche notizie, quelle che servono per portare avanti la storia, insomma, io mi affeziono, poi non è che mi interessa solo sapere se il tradito si vendicherà o a chi verrà assegnata l'eredità o chi è l'assassino o se il poliziotto verrà ucciso in una sparatoria, io vorrei sapere tutto di quei personaggi, altro e altro ancora, e invece poi arrivi a un punto e c'è la parola fine, e questa mi sembra una cosa così arrogante, e così triste, perdere quelle persone per sempre, insomma hai passato un paio d'ore o di giorni con loro e poi non le riincontrerai più, non è che puoi sperare che ti chiamino al telefono qualche anno dopo e ti raccontino come stanno, niente, persi per sempre, allora forse gli scrittori dovrebbero pensarci bene prima di cominciare scrivere, così, voglio dire, avere moltissime notizie messe da parte sui personaggi, raccontare davvero tutto, anche dopo che finisce la trama, altrimenti a me sembra che i lettori, almeno io sono così, poi ci restano male.

Soriga, 'Sardinia Blues'

Il mondo che non c'è


Era un bambino e andò a dormire con la tristezza nel cuore e pianse, pianse perché non c'era altro da fare. Pianse perché il mondo che sognava non sarebbe mai esistito, perché non appena fosse cresciuto si sarebbe dimenticato di aver pensato queste cose, di aver desiderato che tutti si potessero abbracciare e stringere senza che la gente li guardasse male, pianse perché sapeva che non sarebbe mai giunto il giorno in cui avrebbe potuto dare un bacio sulla guancia a una sua amica o a un suo amico solo per dimostrarle o dimostrargli il suo affetto, come a dire: io ti voglio tanto bene, te ne voglio tanto tanto tanto e per favore abbracciami e baciami anche tu, così stasera non andrò a dormire piangendo, non sentirò mamma che urla con papà e non penserò a mio fratello che è fuori con una ragazza o forse è ubriaco perché è triste, triste di dimenticare quelle cose che anche lui un giorno aveva pensato, triste di aver pianto per loro e con loro, perché il mondo che lui sogna, che io sogno e che noi sogniamo non esiste e non esisterà mai.
Andò a dormire e dopo aver pianto s'addormentò e sognò, sognò che i bambini e le bambine e i ragazzi e le ragazze s'abbracciavano piangendo, ma questa volta piangendo di gioia perché tutti avevano capito che volevano essere abbracciati e stretti con tutte le forze e tutto l'affetto del mondo fino a scoppiare dalla felicità. Poi piansero ancora, e questa terza volta furono lacrime di malinconia perché avevano dimenticato come si sogna o forse la notte era finita ed era sorto il sole.

─ Marco Tamborrino

sabato 3 settembre 2011

Ingenuità umana

Pitt serrò i pugni, furioso... e disperato. Perché sapeva che l'umanità sarebbe passata di stella in stella con la stessa facilità con cui era passata da un continente all'altro, e ancor prima da una regione all'altra. Fine dell'isolamento, fine degli esploramenti autonomi. Il suo grande esperimento era stato scoperto e rovinato. La stessa anarchia, la stessa degenerazione, lo stesso modo di pensare avventato e miope, le stesse disparità culturali e sociali, avrebbero continuato a prevalere... a livello galattico! Cosa ci sarebbe stato adesso? Imperi galattici? Tutti i peccati e le follie di un mondo estesi a milioni di mondi? Tutte le avversità e le difficoltà orribilmente ingrandite? Chi sarebbe riuscito a capire una galassia, dal momento che nessuno era mai riuscito a capire nemmeno un mondo? Chi avrebbe imparato a interpretare le tendenze e a prevedere in futuro in una galassia brulicante di umanità?

─ Isaac Asimov, 'Nemesis'

venerdì 2 settembre 2011

La felicità ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza

Sappi solo che io sono il miglior padre del mondo, davvero. Tutti quelli che mi conoscono la pensano così e fino all'anno scorso, prima che gli affari cominciassero ad andare così bene, passavo un sacco di tempo con Yidò, ogni momento libero. Ancora oggi mi occupo di lui con devozione materna: lo nutro, lo vesto, lo pulisco, e persino in questo momento mi vengono le lacrime agli occhi pensando a quanto bene gli voglio, a quanto sia bello e a come io lo distrugga in continuazione. Cosa ne sarà di lui, Myriam? La linea delicata e fragile del suo mento, la sua solitudine in un gruppo di bambini. Il sorriso incerto, insicuro, che io ho creato per infierirvi contro, senza pietà. Cosa ne sarà di lui, davvero? Una volta potevo indovinare quasi ogni suo pensiero e avevamo il nostro lessico privato. Naturalmente usavamo le loro parole, ma erano nostre, perché le avevo scelte per lui dentro di me. Quasi tutte le parole che ha imparato fino a tre anni gliele ho insegnate io. Gli dicevo: "Ecco un uccello. Ripeti: uccello". E lui mi guardava affascinato, dicendo: "uccello". Solo dopo averla ripetuta la parola diventava sua. Come se io l'avessi masticata e gliela avessi messa in bocca. Era questo il nostro rituale per ogni nuova parola. C'erano persino delle lettere che volevo pronunciasse in un certo modo - una "esse" piena e non leggermente sibilante come la mia, o una "erre" gutturale e virile (come quella di Moshe Dayan, ricordi?)... Non ridere di queste stupidaggini. Mi sentivo come se gli stessi porgendo i primi mattoncini di Lego per costruire il suo mondo, e così facendo penetravo ulteriormente in lui, gli lasciavo un'impronta, esistevo in lui come, forse, non esisto in nessun altro luogo della terra. Capisci? Improvvisamente avevo affondato le radici. Cosa non ho fatto per esistere dentro di lui! Stavo chino sul suo letto quando dormiva, gli passavo una mano sul viso e gli disegnavo i sogni con le dita. Gli sussurravo parole allegre nell'orecchio perché giungessero fino alla fabbrica dei sogni e, all'occorrenza, li rendessero più dorati. Avrei fatto qualunque cosa per divertirlo. E lui rideva con me...

─ David Grossman, 'Che tu sia per me il coltello'

Profanazione

Profanato, già. Era l'unica parola che gli sembrava adeguata, ma loro ne avrebbero riso. Gli volevano bene, lo sapeva, e lo avevano accettato nel loro gruppo, ma ne avrebbero lo stesso riso. Ciononostante c'erano cose non ammissibili. Profanavano il senso dell'ordine di qualsiasi persona sana di mente. Profanavano l'idea fondamentale che Dio avesse dato alla terra un'inclinazione sull'asse, in maniera che il crepuscolo durasse solo dodici minuti circa all'Equatore o si prolungasse un'ora o più lassù, dove gli eschimesi costruivano le loro case di cubetti di ghiaccio. Che lui avesse così deciso e quindi avesse detto: «Okay, se capirete come funziona l'inclinazione, potrete capire tutto quello che vi pare. Perché persino la luce ha peso e quando la nota del fischio di un treno cade all'improvviso è per l'effetto Doppler e quando un aereo varca la barriera del suono il rumore che si sente non è applauso di angeli o flatulenza di demoni, ma solo aria che crolla per tornare al suo posto. Io vi ho dato l'inclinazione e poi mi sono
seduto in una delle file centrali della platea per assistere allo spettacolo. Non ho altro da dire, salvo che due più due fa quattro, che le luci nel cielo sono stelle, che se c'è del sangue lo possono vedere gli adulti bene quanto i bambini e che i bambini morti restano morti». Si può vivere in compagnia della paura, credo, avrebbe voluto dire Stan se gli fosse stato possibile. Forse non per sempre, ma per lungo tempo, questo sì, ma forse non si riesce a vivere in compagnia di una profanazione, perché essa apre una crepa nel tuo modo di pensare e se tu ci guardi dentro vedi che laggiù ci sono esseri viventi con occhietti gialli privi di palpebre, vedi che c'è una tenebra che puzza e dopo un po' ti viene da pensare che forse laggiù c'è un intero universo, ma diverso, un universo dove nel cielo sorge una luna quadrata e le stelle ridono con voci gelide e certi triangoli hanno quattro lati e certi altri ne hanno cinque e certi altri ancora ne hanno cinque elevati alla quinta potenza dei lati. In quell'universo potrebbero crescere rose capaci di cantare. Ogni cosa porta a ogni cosa, avrebbe detto loro se avesse potuto. Andate alla vostra chiesa e ascoltate le vostre storie di Gesù che camminava sull'acqua, ma io, se vedessi qualcuno fare lo stesso, mi metterei a urlare e urlare e urlare. Perché a me non sembrerebbe un miracolo. A me sembrerebbe una profanazione.

─ Stephen King, 'IT'