"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

giovedì 30 giugno 2011

Nono Capitolo

È forse la libertà?

Chris diede subito segno di un innato talento per la pittura. Ogni volta che finiva tre o quattro disegni, si appostava all’entrata del condominio e in una giornata riusciva a venderli tutti. Questo mentre io iniziavo a lavorare al giornale anarchico The Anarchist. Il mio primo, breve articolo fu sul grande carisma che possedeva il presidente Kennedy, ma che, secondo la direzione del giornale, non cambiava di molto la situazione in America. C’era sempre troppo potere concentrato in troppe poche mani. Inoltre girava la voce di una crisi molto prossima a causa di alcune posizioni del governo cubano.
I parchi di Los Angeles si accesero con la primavera. Nella fioritura degli alberi c’era una rinascita della vita che, a dispetto di quanto fosse scontata, mi riempiva sempre e comunque di una gioia infantile che ancor oggi non mi spiego. Credo che si possa paragonare alla felicità che invase mia madre quando nacqui, mentre l’inverno non era altro che il momento in cui me n’ero andato, rendendola così infinitamente triste.
Con l’arrivo della primavera successe anche un’altra cosa: finii la mia nuova storia. Era lunghissima e parlava di un giovane che si era innamorato di una fanciulla molto nobile che purtroppo non ricambiava il suo amore. La storia era particolare perché il padre di lei, nonostante il giovane non fosse di alto lignaggio, avrebbe acconsentito volentieri al matrimonio. Volevo dimostrare che l’ostacolo all’amore non solo le persone, ma l’amore stesso. Tutto il racconto era incentrato sul viaggio che il giovane compiva per dimenticare, per non impazzire. Il problema era che il solo amare la fanciulla lo rendeva felice, ma il suo rifiuto lo torturava. La follia più luminosa è l’amore. La feci leggere a Chris e a Julia e gli piacque tantissimo.
Li resi felici, con quella storia.
Mi dissero:
– Charlie, è bellissima.
E lo dissero con sincerità.
Questo mi rese libero.
Non mi resero libero i fiori che timidi tornavano a costellare i prati, gli alberi che riconquistavano il loro verde, il vento fresco del cambio di stagione sul viso e il sole piacevole. Mi resero libero quelle tre parole. La certezza di aver fatto qualcosa di buono, di aver reso felice qualcuno con il proprio lavoro.
La cosa bella della vita è che spesso, tra tante azioni sbagliate, si fa qualcosa di giusto.
Un giorno io e Chris camminavamo per strada, in centro, e gli dissi:
– Chris, secondo te quante di queste persone credono di non essere brave a far niente?
– Quante?
– Sì, quante? Una? Tre? Dieci? Cento? Forse tutte. Forse siamo tutti degli incapaci. Ci illudiamo di essere capaci a far qualcosa, ma non è vero.
– Tutte è un gran numero.
– Tutte non è niente.
– Come non è niente? – chiese, perplesso.
– Non è niente finché in quel tutte non ci sei dentro anche tu. In quel caso sì che diventa davvero tanto.
Chris sospirò perché ci era abituato. Alla mia pazzia ci si faceva l’abitudine, soprattutto se si era miei amici.

Quando cambiammo appartamento, quello nuovo aveva due stanze in più dell’altro. In una, molto piccola, ci misi il giradischi in modo tale che la musica uscisse dalla porta e si riversasse negli altri locali. Le giornate passavamo al ritmo di rock n’ roll e, ogni tanto, un po’ di musica classica.
Nei giorni in cui Chopin rilasciava la sue note, l’atmosfera era di totale rilasso. Si poteva parlare senza mai alzare la voce, fischiettare, dormire, studiare o cucinare, qualsiasi cosa, e Chopin t’accompagnava, dolce come i baci che si scambiavano i miei amici e che anche io avrei voluto scambiare con qualcuno, un qualcuno che temevo non sarebbe mai arrivato.
Fu quando suonava Chopin che io ricevetti una lettera di Wendy.
– Le hai dato l’indirizzo! – esclamò Chris quando glielo dissi. Julia rimase in silenzio a fissare il soffitto, sdraiata sul divano del soggiorno.
– Solo a lei – risposi.
– Dio santo, sai se…
– Non l’ha fatto – lo rassicurai io mentre l’aprivo.
Non la lessi ad alta voce, prima volevo leggere da me cosa mia cugina mi avesse scritto:


28 Aprile 1961


Caro cugino,
ho ricevuto le tue lettere, e quando finalmente, insieme ad esse, mi hai inviato anche il tuo indirizzo, non ho potuto trattenere le lacrime.
Non ho passato esattamente un periodo felice dopo che te ne sei andato. Non che sia colpa tua, ci mancherebbe altro. Rispondo io per i tuoi genitori, dato che loro non possono. Essi ti amano come non mai, Charlie. Dopo tutto questo tempo hanno capito che te ne sei andato per trovare te stesso, ma questo non li aiuta ad accettare il fatto.
Capiscono, ma non accettano. È davvero possibile accettare che il proprio figlio se ne sia andato perché non si trovava bene dove viveva? Non capisci? Lo prendono come un loro fallimento.
Ad Alan manchi. Tantissimo. Poco prima che me ne tornassi a casa con tua zia, l’ho beccato piangere in camera sua. Piangeva per te. Te ne rendi conto? Piangeva per te. Per te. Tuo fratello.
E quante volte ho pianto io, lo immagini? Cosa devo fare, Charlie? Io so che non l’hai fatto con cattiveria, che in un certo senso
dovevi farlo, ma cosa devo fare, io? Pur vedendoti una volta all’anno, io ti voglio tantissimo bene. Forse è proprio per questo che piango. Perché sapendoti lontano, temo che salterai l’appuntamento del prossimo Natale. O di quello dopo ancora. Ho paura. Non hai paura anche tu, così lontano dalla tua famiglia? Tutti hanno paura, lo sai, persino le formiche che scampano al piede dell’uomo. Io ne ho tantissima. Soprattutto per te.
Quando
troppe righe sopra mi riferivo a un periodo poco felice della mia vita, parlavo di un ragazzo. Credevo fosse buono, credevo che mi amasse. E, forse, a modo suo mi amava veramente. Ma stare con lui era un inferno. Il suo parere era che dovessi tagliare via dal mondo tutte le persone, perché per lui esistevo solo io e per me doveva esistere solo lui. Non potevo nemmeno dire che un attore mi piaceva! Nel suo amore non sapeva abbracciarmi, mi allontanava. Ci ho perso tre mesi, ma ora sto meglio. Tra poco avrò un esame, e a meno che tu non cambi indirizzo, ti farò avere gli esiti.
Davvero non saprei che altro dirti, Charlie. Ho come l’impressione che prima o poi te ne andrai anche da Los Angeles. Sempre più lontano. Ad est, dove sorge il sole. Ma non troverai una nuova vita. Ci saranno altre città, altre persone. Però il mondo è uno solo. Come te. Come me. Siamo tutti unici. Anche i ladri, gli assassini e gli stupratori cercano qualcosa che non c’è. Giudica le persone, non le azioni. Così farò anch’io.
Ti mando una carezza, sperando che ti arrivi.



Tua, Wendy.


La passai a Chris, che si sedette vicino a Julia sul divano. Alla fine non dissero nulla, me la porsero e io andai a custodirla nel cassetto del mio comodino, ripiegandola con cura come se fosse d’oro. Anzi, qualcosa di più prezioso. L’affetto di una persona che ci vuole bene vale più di ogni altra cosa, più di ogni gioiello. Se si capisse questo, il mondo non sarebbe un brutto posto.

martedì 21 giugno 2011

Ottavo Capitolo

Parole che assomigliano troppo a coltelli

– Perché non guidare subito verso est? – mi chiese Chris.
Feci spallucce. – Mi interessa vedere Los Angeles, fa pur sempre parte del mio paese.
Non c’era una ragione precisa, e lo sapevo bene anch’io. Desideravo conoscere Los Angeles e osservare l’ingrandirsi della città, l’oscuramento dell’individuo per far spazio alla massa e alle trovate pubblicitarie.
Mi sembrava poi che l’uomo avesse bisogno di dar vita a società sempre più grandi, quasi si sentisse solo, o stupido. Avevo il timore che tali società potessero essere, un giorno neanche troppo lontano, il motivo stesso della caduta dell’umanità. Da ciò dedussi che tutti abbiamo l’apocalisse nel cuore in forme diverse; ad alcuni si presenta sotto forma di amore, ad altri sotto forma di odio, ad altri ancora non si presenta, ma ce l’hanno, e li consuma.
Ci fermammo a metà strada per versare nuova benzina nel serbatoio, poi ripartimmo con l’intenzione di evitare ulteriori soste.
Fu una sorpresa per me ritrovarmi sotto i fili e i cavi di Los Angeles che oscuravano il cielo e lo deturpavano. Ed ecco che mi rendevo conto di cos’era capace l’uomo se insieme ad altri uomini. Aveva la distruzione di tutto come obiettivo nascosto, invisibile anche a lui stesso.
Che belle che m’apparivano quelle città, che belle e terribili ai miei occhi!
Chris disse: – È grande.
Julia assentì con un «uhm» indeciso.
Ad ogni angolo cartelloni pubblicitari spuntavamo come funghi promuovendo ora questo ora quel prodotto. Le parole disegnate con colori vivaci dicevano «compra! compra! compra!» anche se non esplicitamente, e pesavano su di me come coltelli, perché io quasi mi sentivo obbligato a comprare, per far piacere a tutte quelle facce ritoccate, a quei sorrisi che sapevano di plastica, al semplice fatto che io in realtà non volevo comprare niente; ma forse pensavo che, comprando, quei volti sarebbero scomparsi, e i coltelli non mi avrebbero più sibilato attorno alle orecchie.
Chiesi a Chris di guidare.
– Perché?
– Non ce la faccio.
– Ma che hai? Sei pallido.
– Non ce la faccio.
– A fare che? Charlie!
– A guidare, non ce la faccio. Sono stanco.
Come potevo parlare mentre dentro la mia testa s’aggiravano farmaci, cosmetici, alimenti e Dio sa quant’altro?
Quando ci renderemo conto che il mondo che lasciamo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli sarà solo pietra e cemento, cosa diremo? Cosa penseranno di noi? Come giustificheremo i grattacieli, le case, il grigio? E quando il cielo sarà così inquinato che i bambini dovranno uscire dagli edifici con le maschere antigas, allora cosa diremo? Quando non crescerà più un filo d’erba e le persone saranno solo tristi, non sorrideranno più, ammetteremo forse i nostri sbagli o negheremo tutto? Che mondo stiamo lasciando ai giovani, se non un mondo morto?
– Charlie, tutto bene? – mi chiese Julia.
– Questa è una domanda a cui è facile mentire e far credere agli altri che si è detta la verità. – risposi, tetro.
– Devi riposarti. – replicò lei.
Chris guidò la Ford per i viali trafficati di Los Angeles e dopo qualche minuto mi chiese dove di preciso stessimo andando.
– Direi che con quel poco che abbiamo guadagnato a San Diego possiamo permetterci un appartamento in periferia. E poi ho un’idea.
– Che idea?
– Potrei lavorare per un giornale.
Chris non rispose subito.
– Non torneremo presto a casa, vero?
– Io non ho intenzione di tornarci affatto, per ora. Siete liberi di tornare indietro, se volete. Vi lascio la macchina.
Il mio amico scosse la testa. – Sto provando in tutti i modi a capirti. Spero che un giorno qualcuno mi ricompenserà.
Mio malgrado, risi.
– Non faceva ridere! – protestò lui.
– Chris.
– Che c’è?
– Ti voglio bene. E ora cerca quell’appartamento.

Con pochi dollari riuscimmo ad affittare un appartamento di quattro stanze: due camere, un bagno e una cucina. La grandezza di queste stanze è inutile menzionarla.
Dopo aver cenato, mentre Julia, spossata dal viaggio, dormiva su uno dei tre letti, io e Chris andammo dal padrone di casa a chiedergli consigli per lavorare. Egli era un ometto basso e piegato su se stesso, nonostante non dimostrasse più di cinquant’anni. Ma era giovale e ci sorrideva con cordialità.
Io gli chiesi se c’era qualche giornale che avrebbe accettato persone giovani e gli assicurai che ero bravo a scrivere.
– Di questi tempi i giornali seguono le ideologie. Ti interessi di politica, ragazzo?
– Sono anarchico.
Chris mi guardò male e l’ometto si mise a ridere.
– Ah ah! Anarchico dici? C’è un giornale di quel tipo, un editore piccolo piccolo, ma che fa bene il suo lavoro. Potresti provare lì, di solito sono ben disposti verso menti giovani e creative.
Mi feci dare l’indirizzo e lo ringraziai, poi Chris mi disse che lui non sapeva cosa potesse fare, e che voleva pensarci ancora un po’.
Tornati nell’appartamento trovammo Julia seduta davanti alla finestra, con i gomiti appoggiato al davanzale che sostenevano la testa stanca. Era tutta tesa nell’ascoltare un pianoforte che veniva da fuori, da qualche altra casa.
– Già mi manca – disse, sentendoci entrare.
Guardai Chris con aria interrogativa ed egli mormorò che a casa Julia suonava il piano tutti i giorni da quando aveva sette anni, e che era bravissima.
Fui fulminato da un’idea, ma per il momento la tenni per me, anche perché richiedeva un certo tempo per essere attuata. Dissi a Julia che se avessi potuto le avrei fatto avere un pianoforte in quello stesso momento, ma lei scosse la testa e, dopo averci dato la buonanotte, tornò a letto.
– Sono stanco anch’io – dissi a Chris.
Egli annuì e mi chiese se gentilmente gli prestavo il mio blocco di appunti e una matita. Non capii perché me lo chiedesse, ma lo accontentai con piacere, poi andai a dormire.

La mattina mi svegliai all’alba e non riuscii più a riaddormentarmi, così mi alzai dal letto e andai in cucina. Trovai Chris addormentato sul mio blocco di fogli, così non potei vedere cosa ci aveva scritto.
Presi qualche dollaro e uscii a cercare un panificio per prendere alcune brioche e un po’ di latte per fare colazione. Quando fui di ritorno Chris era sveglio e si stava lavando faccia e denti in bagno.
Mi cadde l’occhio sul blocco di appunti e rimasi sbalordito: Chris non aveva scritto. Aveva disegnato. Sul foglio c’era raffigurata Julia stesa sul letto che dormiva beatamente. Ma il disegno era talmente reale e talmente bello, anche per essere stato opera di una sola matita, che il mio stupore fu moltiplicato per mille. E così ebbi la seconda idea.
Mi accostai alla porta del bagno e dissi a Chris che uscivo ancora a prendere una cosa. Mi recai dal padrone di casa e gli chiesi dove si potevano comprare dei pastelli a olio e un paio di tele per dipingere a buon prezzo. Egli m’indicò il negozio e ci andai praticamente di corsa.
Quando rientrai in casa con i pastelli e le tele, Julia e Chris stavano bevendo latte da due tazze fumanti, e Julia aveva gli occhi lucidi.
– Che cos’hai? – le chiesi.
Lei fece un cenno verso il disegno e subito compresi che era solo commossa.
– Lo so, è bellissimo – dissi.
Chris arrossì fino alla punta delle orecchie. Gli mostrai i pastelli e le tele.
– Non dovresti usare così i soldi – mi rimproverò, sebbene si vedesse lontano un miglio che era colmo di gratitudine.
– Dimentichi forse – risposi – che domani è il tuo compleanno?
Si alzò dalla sedia e mi abbracciò, poi Julia scoppiò in lacrime dalla commozione.

martedì 14 giugno 2011

Settimo Capitolo

Questi anni non me li ridarà nessuno

Decisi che non sarei ritornato indietro in nessun caso. Non perché mi sarei sentito sconfitto, ma perché non avrei potuto rimanere in pace con me stesso sapendo che mi ero rassegnato a un certo tipo di vita. Io volevo di più, volevo le stelle, l’universo, e non c’era niente e nessuno che potesse darmeli. Di questo soffrivo: un terribile delirio di onnipotenza.
Non tanto per cattiveria volevo possedere le cose, o per far di loro ciò che più mi premeva, ma più che altro per esser certo che ci fossero, che potessero essere toccate, raggiunte. Volevo esser certo che non ci fosse alcun traguardo alla mia immaginazione; così come quando scrivevo ero preso dalla frenesia di metter per iscritto la mia mente intera e non solo poche righe.
Quella notte che avrei dovuto riposare, mentre Chris e Julia dormivano silenziosi, il respiro calmo e regolare, io scrissi fino all’alba, scrissi e scrissi, frasi sconnesse fra loro, periodi senza senso e insiemi di parole raccapriccianti, nemici di un ordine che non sopportavo. Scrissi anche dopo che il sole fu sorto, perché i miei amici non davano segno di voler destarsi e io non avevo ancora esaurito la vena creativa.
– Che fai?
Quando la voce di Chris risuonò chiara e netta, io ebbi un lieve balzo, ma poi ripresi a far scorrere la biro sulla carta.
– Non vedi?
– Lo vedo. Hai dormito?
Scossi la testa.
Egli sospirò. – Vorrà dire che guiderò io, oggi.
Alzai gli occhi dal foglio. – Non andremo da nessuna parte, siamo arrivati ieri sera.
– Pensavo volessi già tornare.
– Pensavi male.
Allora, forse, comprese che facevo sul serio, che non scherzavo. Non poteva riportarmi indietro, perché io sarei andato avanti, e in quel momento credetti – e lo credo ancora – ch’egli avesse avuto paura.
Mi chiese per quanto tempo saremmo rimasti lì e io risposi che non lo sapevo. Avevo intenzione di provare a fare il cameriere nello stesso hotel in cui alloggiavamo, dato che, all’ingresso, stava un cartello con scritto che si cercava personale, e io avevo avuto modo di appurarmene la sera prima a cena. Chris si trovò d’accordo con me e disse che anche lui si sarebbe proposto per quel ruolo, ma che lo stesso non credeva saggio rimanere lì per molto, così vicino a casa.
Julia aprì gli occhi e chiese: – È giorno?
– C’è il sole! – dissi io.
– La mia era rassegnazione – rispose lei con un sorriso.

San Diego era una città non troppo grande all’epoca, ma per me era enorme. Le luci alla sera illuminavano ogni angolo, rendevano visibile quella vita notturna che a casa era impossibile scorgere, e sebbene io non apprezzassi il troppo divertimento, all’inizio ne fui piacevolmente sorpreso, tant’è che io, Chris e Julia passammo fuori le prime due sere, durante le quali il mio amico s’impegnò anche per trovarmi una ragazza, senza ovviamente alcun successo.
Io ancora non capivo alcuni dei perché della vita di San Diego, e dunque non potevo decidere di partire. Quando non ero in servizio all’hotel osservavo la gente, e mi sforzavo davvero, fino a farmi dolere la testa, di comprendere la ragione che stava dietro a quei gesti tanto più frenetici ai quali ero così abituato.
Non giunsi a nessuna conclusione se non quella secondo cui non esistevano conclusioni. La gente era così e basta. Era più veloce e meno dedita all’ozio perché non aveva tempo, la società era più grande e la gente vi si adattava, forse senza nemmeno rendersi conto. C’era sempre festa il venerdì e il sabato sera, soprattutto il venerdì. Mi sembrava che le persone s’accendessero una sigaretta sentendosi sole e sperando in un sabato migliore. Io, dal canto mio, iniziai seriamente a temere per il mio fegato e per quello dei miei amici, perché, non es-sendo ora soggetti a restrizioni di qualsivoglia tipo, ci davamo alla pazza gioia. Buona cosa alla nostra età, ma imporsi dei limiti è un bene in ogni caso.
La mia vita a San Diego subì una svolta fondamentale quando conobbi un tale di nome David Taylor, un ragazzo sui venticinque anni che faceva il facchino all’hotel. Egli si dimostrò fin da subito troppo ciarliero con me, e ciò mi indusse a pensare ch’egli volesse gabbarmi in qualche modo.
Chris la doveva pensare allo stesso modo, perché non appena si accorse della troppa confidenza che David aveva con me, mi disse: – Stai attento, Charlie! Non ti fidare di nessuno, sei giovane e gli altri potrebbero pensare che tu sia ingenuo.
Se avesse ragione o meno ancora non lo sapevo, intanto strinsi amicizia con David, e lui prese ad uscire regolarmente con me, Chris e Julia. Il Natale lo passammo noi tre nella nostra stanza d’albergo, e fu un Natale felice, ma Wendy mi mancava da star male. Arrivò Capodanno, e bevemmo così tanto che il giorno dopo fummo costretti a letto tutto il giorno, mentre non ricordavamo proprio niente di ciò che era successo la sera prima. Gennaio volò e giunse febbraio. A quel punto David sapeva di me anche più di quel che avrebbe dovuto sapere, mentre io, credendo di saper tutto di lui, in realtà sapevo ben poco.
Era questo un motivo in più per Chris di rimproverarmi, ma io non gli diedi molto ascolto. Quel David aveva come unico scopo quello di diventare più importante all’intero della gerarchia dell’hotel. Egli voleva divenire maggiordomo, ma come potesse fare non immaginavo davvero.
Una sera, apparecchiando per la cena, egli fece cadere con un gomito un’intera fila di bicchieri, ma, anche semi parve che l’avesse fatto di proposito, non mossi obiezioni quando mi disse di iniziare a pulire mentre nell’attesa correva a prendere un sacchetto per nascondervi tutti quei vetri. Così rimasi sbigottito nel momento in cui si presentò in sala con il responsabile dell’albero che alla vista del disastro divenne paonazzo.
– Charlie è impazzito, signore, ha buttato giù tutti i bicchieri in un attacco di nervi, davvero non so che gli abbia preso!
– Sei un fottuto figlio di puttana!
Credo che mai come in quel momento mi ero sentito così pieno d’ira. Ero sicuro che avrei facilmente spaccato la faccia a quel buffone se ne avessi avuto l’opportunità.
Ma le mie parole avevano solo confermato quelle di lui, e io venni licenziato subito e mi si disse che avrei dovuto lasciare l’hotel la mattina dopo, mentre i miei amici, se volevano, potevano restare. David Taylor fu fatto maggiordomo per il servizio di denuncia svolto.
Naturalmente i miei amici fecero i bagagli con me, e si scusarono anche per quel che m’avevano detto su David, poiché erano sicuri che nemmeno loro avrebbero capito cosa egli avesse in mente prima che avesse avuto l’opportunità di metterlo in atto.
Decidemmo all’unanimità che era giunto il momento di lasciare San Diego e raggiungere Los Angeles, ma prima scrissi un’altra lettera ai miei avvertendoli che tutto andava bene e che non passava giorno, anzi, ora o minuto, senza che pensassi a loro. Dedicai anche due righe ad Alan e gli dissi che gli volevo bene e che non ero stato un fratello tanto buono andandomene. Poi, mentre Chris e Julia facevano lo stesso con le loro famiglie, io scrissi un’altra lettera e la indirizzai a Wendy, e le dissi che il mio amore per lei rimaneva immutato, e che se l’avevo resa triste, il renderla triste aveva reso me ancora più triste di quando lei non fosse già.
Così partimmo per Los Angeles.

lunedì 13 giugno 2011

Sesto Capitolo

Non esistono addii

Molte volte mi ero chiesto se avessi qualcosa che non andava. Tipo qualche rotella fuori posto. Ma l’unica volta che mi ero sentito pazzo nel senso stretto della parola risaliva a un anno prima, quando io e Chris ci eravamo fatti di LSD prima di una festa. Niente da dire, gli altri ci beccarono subito. Non penso che l’avrei rifatto nemmeno sotto pagamento.
A parte questo, non sapevo cosa potesse essere. Forse ero solo triste. Un sacco di persone nascono e crescono più malinconiche di altre. Tanti preferiscono l’inverno all’estate; se ne stanno appartati, col fiato sospeso, non parlano, trattengono il respiro per quella che sembra un’eternità. Perché amano il freddo, il silenzio.
Come me.

Perché scelsi quel sabato per andarmene?
C’era una festa a casa di un mio compagno di classe. Il tipo viveva in un posto enorme, ed era risaputo che i suoi genitori non fossero gente da intromettersi nelle feste dei ragazzi. Sarei andato in macchina (la vecchia Ford di mio padre), alla festa. E nel bel mezzo mi sarei allontanato con una scusa, poi sarei scomparso. Avevo preso dai miei abbastanza soldi da non farli arrabbiare e allo stesso tempo da non farmi morire di fame prima che avessi trovato un lavoro da qualche altra parte, per poi spostarmi ancora.
A quella festa bevvi poco, e cercai di fare ubriacare Chris. Decisi che era giunto il momento quando lui e Julia mi sembravano completamente partiti e gli altri invitati erano sufficientemente impallati per le canne che si stavano fumando.
Non li vidi muoversi quando dissi che sarei andato in bagno e invece pensavo di uscire dal retro. Perciò quando fui fuori, essi mi si affiancarono senza che io li vedessi e mi presero a braccetto e dissero in coro: – Dov’è che andiamo di bello?
Al che io rimasi sbalordito, e senza lasciarmi tempo per pensare, mi presero le chiavi e aprirono la macchina, quindi Julia si sedette dietro e Chris davanti, facendomi segno di mettermi al posto di guida.
– Voi… voi siete matti. Non possiamo… non possiamo! Cosa diranno i vostri genitori quando scopriranno cos’avete fatto, cosa… è già difficile per me senza che vi ci mettiate anche voi!
Chris rimase impassibile. – Charlie, dopo qualche giorno ti sarai stufato, e torneremo qui. Lo sai meglio di me. E ora sali, prima partiamo e prima torniamo.
– Non ho intenzione di tornare così presto – sibilai.
Il mio amico si fece ancora più serio. – E io non ho intenzione di lasciarti andare da solo. Julia ha deciso di seguirmi. Quindi andiamo tutti e tre.
Non mi rimase altro che salire in macchina, a metà tra l’intontito e l’emozionato, girare le chiavi e mettere in moto. Quando partii, Chris chiese:
– Dove ci porti?
A fanculo, avrei voluto rispondere. Invece dissi solo: – San Diego. Poi Los Angeles e dopo ancora New York.
Chris fece un fischio e Julia scoppiò a ridere. – Sembri tu quello che ha bevuto! – esclamò il mio amico.
In quel momento dovetti pensare che la vita fosse tutta una grande risata triste e felice allo stesso tempo, perché mi misi a ridere anch’io mentre guidavo fuori dalla città dove avevo vissuto i primi diciassette anni della mia vita.

Quando Chris decise di darmi il cambio alla guida, e m’addormentai, sognai che mio padre e mia madre s’erano messi nel mezzo della strada e io li avevo investiti e non ero potuto andarmene.
Mi svegliai piangendo e pieno di tristezza come non mai. Poi vidi il mio amico al mio fianco e la tristezza si dileguò, quasi fosse una nuvola e lui il sole. Una volta usciti dalla zona abitata viaggiammo per una decina di miglia verso nord per la strada deserta e ci fermammo che erano le quattro del mattino. Accostammo di poco fuori dalla corsia e dormimmo in macchina. Chris andò dietro e dormì abbracciato a Julia.
Io, avendo già dormito prima, non seguii il loro esempio, ma tirai fuori un blocco di fogli e una torcia elettrica e iniziai a scrivere. Scrissi fino all’alba, finché sorse il sole; quando, illuminando le facce dei miei amici, li svegliò. Poi proseguimmo per qualche ora fino a fermarci in una cittadina dove comprammo dei panini per pranzo.
Secondo Chris saremmo arrivati a San Diego verso sera, quindi evitammo altre soste per non dover dormire ancora una volta in mezzo alla strada.
Quando la città apparve, al tramonto, in lontananza sull’orizzonte, preceduta da un cartello malmesso che ne indicava la distanza, il mio cuore fece un balzo. A quell’ora i miei genitori si erano sicuramente accorti della mia assenza, e così anche quelli di Chris e di Julia. Era brutto dover rendere triste qualcuno. In quel caso però era anche necessario.
Mentre guidavo per le prime vie di San Diego, e i palazzi si avvicinavano sempre di più, il cielo era terso e il sole mi nascondeva la malinconia negli occhi, pensavo che ero fortunato ad essere vivo, a poter guidare, sentire il caldo, e il vento quando aprivo il finestrino, sentire Chris e Julia che parlavano, scambiandosi parole dolci, soffocate, ridenti.
Entrammo in città e il caos della metropoli ci avvolse in una stretta letale. Eppure sentivo su di me il peso – se di peso si può parlare – della libertà.
– Chris, – dissi, – grazie per essere venuto. E scusami se ti ho mentito. Sai che non avevo altra scelta.
Lui rise, e io fui felice.
Julia disse: – Io mi immagino quanto stiano urlando i miei genitori in questo momento. Però è bello essere qui. Insomma, quanto dureremo?
E rise anche lei.

Lasciammo la macchina fuori da un hotel e lì prendemmo una camera. La notte si avvicinava, ed eravamo stanchissimi. Quando fummo sistemati chiesi carta e penna e scrissi una lettera ai miei genitori:

Cara mamma e caro papà,
vi voglio bene. Forse dovrei chiudere qui, tutto quello che c’era da dire l’ho detto. Vi sto uccidendo, in un certo senso, lo so. Immaginarvi piangere di fronte a queste parole è devastante. Mi distrugge dentro. Vorrei che mi capiste, ma so che è impossibile. Ci tengo però a dirvi che io capisco voi, il vostro dolore. È quello che provo da qualche mese. Provo dolore per tutti e troppo poco per me. Io soffoco, gli altri sono felici, e questo me li fa compatire. Penserete che sia pazzo, ma è difficile da spiegare. Il mondo è triste, le persone anche, eppure le vedo nascondersi dietro maschere di felicità, di passività. Non si muovono, non si mettono in gioco. Perché? Io voglio provare, anche a costo di farvi del male. Voglio che sappiate che così lo faccio anche a me, non ne sono immune. Ma devo provare a vivere. A vivere veramente. E lì a casa non posso, così come non posso aspettare di essere più grande. Devo capire adesso, o non capirò mai più.
Chris e Julia sono con me, nel caso non l’aveste capito. Mi hanno accompagnato di loro spontanea volontà, io non volevo. È bello però essere circondati da persone così, davvero. Questa è una delle cose per cui mi piace vivere. L’altra più bella, credo, è lo scrivere. Continuerò a scrivere e a scrivervi, perché mi tiene vivo, e di morire non ho nessuna voglia.
Chiudo come ho aperto: vi voglio bene.



Un abbraccio,
Charlie.

sabato 4 giugno 2011

Quinto Capitolo

Dimmi come ti chiami

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano. Come ti è venuta? – mi chiese il signor Johnson.
– In nessun modo, è venuta e basta.
– Ne riparliamo dopo la lezione, Charlie. Oggi avevo intenzione di spiegarvi i logaritmi, e…
E io caddi in catalessi, come in ogni lezione di matematica. Il lato positivo era che proprio in quelle ore nascevano le migliori idee. Ciò a cui avevo iniziato a lavorare si prospettava essere un lavoro lungo e serio, e ciò che lo spingeva, il motore che lo mandava avanti lentamente, era la mia inquietudine, l’agitazione che mi prendeva quando non mi sentivo al posto giusto.
Spesso mi chiedevo cosa avrei fatto se avessi amato una persona lontana miglia e miglia, cosa avrei fatto se la mia famiglia mi avesse odiato, cosa avrei fatto se non avessi avuto Chris, se non avessi avuto Wendy, se non avessi avuto nessuno, nessuno a cui voler bene, nessuno da amare. Mi chiedevo cosa avrei fatto se, alla fine della mia vita, mi fossi accorto di non averla vissuta. Quante persone arrivano all’ultimo giorno della loro vita senza più capelli da strapparsi?
Guardavo il signor Johnson e mi ripetevo le stesse domande, rimanevano i dubbi, e poi tutto quello che gli adulti sapevano dire era «sono ragazzi», ti cantavano come un pappagallo che saresti cresciuto, che avresti capito. Ciò che io mi chiedevo in quei giorni era se loro avessero veramente capito, crescendo. Ma mi bastava guardarli per capire qual era la risposta.
I ragazzi odiano la scuola, pensavo, ma è lì che imparano tutto, nel bene e nel male. Lì imparano a sentirsi prigionieri e lì imparano a sentirsi liberi, quando ne escono. Non era forse anche questa una legge universale, inevitabile?
Il signor Johnson mi chiamò fuori dalla classe quando suonò la campanella. Mi disse che in poche righe ero riuscito ad esprimere ciò che i miei compagni non erano riusciti a fare in pagine e pagine di compito. Sarebbe stato troppo facile, disse, prendere il mio compito per una prova di pigrizia, ma piuttosto gli sembrava mettesse in risalto la mia grande capacità di sintesi e comunicatività letteraria.
– È questo il problema, – gli risposi, – so comunicare solo attraverso le parole scritte. A parlare sono bravi tutti. Io no.
Rispose: – A scrivere non è buono quasi nessuno. Tu sì.
Non risposi.
Mi chiese: – Ti piace l’America?
– No.
– Lo immaginavo. Ma l’America è enorme, non è la California.
– Come faceva ad immaginarlo?
Il signor Johnson mi fissò dritto negli occhi. – Te lo si legge sul volto, Charlie, che tu qui stai soffocando. Non ne puoi più. Devi trovare il tuo posto nel mondo. Ad alcuni viene naturale, un giorno si svegliano e si accorgono di essere cambiati. Per te è più difficile. Tu devi alzarti e muoverti, non cambi da solo. Devi vedere il mondo e cercare di capire perché sei qui. Sono sicuro che non ti demoralizzerò se ti dico che una risposta a una ricerca del genere è quasi impossibile da trovare, vero?
– Sì, signore.
– E allora cosa farai?
– Non glielo posso dire, signore. Cercherebbe di impedirmelo. Buona giornata, signore.
Lo lasciai lì così, immobile a guardarmi mentre me ne andavo per il corridoio della scuola, ormai deserto.

– Cosa stai leggendo? – chiesi a Wendy.
Lei chiuse il libro tenendo il segno con l’indice. – Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, e tu, caro cugino? O sei troppo impegnato a scrivere per leggere un buon romanzo?
Ridacchiai. – Grandi Speranze, Dickens.
– Ah! Bene, bene.
L’avevo raggiunta sulla veranda di casa mia. Mi sedetti su una delle sedie a dondolo e mi misi a scribacchiare qualche ap-punto sul mio blocco di fogli.
Dopo qualche minuti m’interruppi e le dissi: – Posso fidarmi di te?
Lei alzò gli occhi. – Certo che puoi.
– Sabato prossimo me ne vado da qui. Non posso dirti né come né perché, ma volevo che tu lo sapessi. Mi dispiace abbandonarti e non passare con te il Natale, ma devo farlo.
Poi scoppiai a piangere perché non riuscivo a capacitarmi che avevo veramente pronunciato quelle parole. Ero pazzo, pazzo, pazzo.
E invece mia cugina mi abbracciò e mi tenne stretto stretto, e io le volli bene come non mai, e la strinsi anch’io, e le dissi che l’adoravo, che sapevo di poter contare su di lei, e ancora che mi dispiaceva tantissimo doverla lasciare proprio ora che era arrivata, e le chiesi di perdonarmi, ma di non dimenticarmi mai e poi mai, perché io non avrei mai smesso di volerle bene, e lei lo sapeva.
Poi si staccò da me e disse: – Su una cosa sono sicura al cento per cento, Charlie: che la vita ti può apparire bella un momento e triste il momento dopo, ma che è una cosa unica, che al suo termine niente la sostituirà, né le preghiere che hai recitato in vita, né il fatto di non rassegnarsi a diventare parte della terra.
– Cosa devo fare?
– Quello che ti senti di fare. Cerca solo di non fare troppo male agli altri con la tua assenza. Può non sembrarti così, ma in questo posto è pieno di gente che ti vuole bene. E tra questa gente potrebbe esserci anche chi non ci penserebbe due volte a morire per te.

Chris mi aspettava per un giro in libreria quella sera. Il mio amico non leggeva molto, più che altro solo i libri che ci dava da leggere Johnson, però non gli dispiaceva accompagnarmi a fare un giro per cercare nuove letture.
Quella sera aveva lo sguardo torvo e mi guardava di sfuggita, scuro in volto. Se pensavo a cosa avevo intenzione di fare, avrei voluto inginocchiarmi sul posto e chiedergli scusa, e rimangiarmi tutti i miei propositi.
Io sapevo che lui avrebbe voluto aiutarmi, ma il fatto che io rifiutassi il suo aiuto e blaterassi riguardo a una prossima partenza, lo rendeva furioso con sé stesso, come se avesse fallito in qualche cosa.
Tuttavia, l’unico che avesse fallito, ero io. Avevo fallito a vivere. Potevano dirmi che non era vero, che in realtà stavo soltanto attraversando una crisi. Ma cos’era la mia vita se non un alternarsi di idee e giornate apatiche? Qualcuno avrebbe detto che scrivere fosse l’unica cosa che sapessi fare, e io avrei confermato. Sapevo solo scrivere, e mi sentivo inutile. Terribilmente inutile. Come avrei potuto spiegare questo a un amico?
– Chris.
Girò leggermente la testa verso di me.
– Sì?
– Mi dispiace per quello che ho detto l’altro giorno. Non partirò, non intendo farlo. Mi dispiace.
Il suo viso si rilassò, e io mi sentii uno schifo assurdo.
– Non che mi fidi tanto delle tue parole, ma è già qualcosa. Potresti consigliarmi qualcosa da leggere prima che ti prenda a pugni?
Alla fine uscimmo dalla libreria con un sacchetto pieno. Io avevo comprato Tenera è la notte di Fitzgerald, Il Giovane Holden di Salinger e un libro di poesie di Emily Dickinson. A Chris consigliai I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, visto che gli piaceva parlare delle rivoluzioni.
– Senti, – mi disse Chris, – mi è avanzata una terza bottiglia di vodka dopo l’ultima volta. Che ne dici di andare a scuola da fatti, domattina?
Io scoppiai a ridere fino alle lacrime, e per un attimo dimenticai tutto.
– Dio, tu sei completamente matto! Ma ci sto, cazzo, ci sto!