"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 14 giugno 2011

Settimo Capitolo

Questi anni non me li ridarà nessuno

Decisi che non sarei ritornato indietro in nessun caso. Non perché mi sarei sentito sconfitto, ma perché non avrei potuto rimanere in pace con me stesso sapendo che mi ero rassegnato a un certo tipo di vita. Io volevo di più, volevo le stelle, l’universo, e non c’era niente e nessuno che potesse darmeli. Di questo soffrivo: un terribile delirio di onnipotenza.
Non tanto per cattiveria volevo possedere le cose, o per far di loro ciò che più mi premeva, ma più che altro per esser certo che ci fossero, che potessero essere toccate, raggiunte. Volevo esser certo che non ci fosse alcun traguardo alla mia immaginazione; così come quando scrivevo ero preso dalla frenesia di metter per iscritto la mia mente intera e non solo poche righe.
Quella notte che avrei dovuto riposare, mentre Chris e Julia dormivano silenziosi, il respiro calmo e regolare, io scrissi fino all’alba, scrissi e scrissi, frasi sconnesse fra loro, periodi senza senso e insiemi di parole raccapriccianti, nemici di un ordine che non sopportavo. Scrissi anche dopo che il sole fu sorto, perché i miei amici non davano segno di voler destarsi e io non avevo ancora esaurito la vena creativa.
– Che fai?
Quando la voce di Chris risuonò chiara e netta, io ebbi un lieve balzo, ma poi ripresi a far scorrere la biro sulla carta.
– Non vedi?
– Lo vedo. Hai dormito?
Scossi la testa.
Egli sospirò. – Vorrà dire che guiderò io, oggi.
Alzai gli occhi dal foglio. – Non andremo da nessuna parte, siamo arrivati ieri sera.
– Pensavo volessi già tornare.
– Pensavi male.
Allora, forse, comprese che facevo sul serio, che non scherzavo. Non poteva riportarmi indietro, perché io sarei andato avanti, e in quel momento credetti – e lo credo ancora – ch’egli avesse avuto paura.
Mi chiese per quanto tempo saremmo rimasti lì e io risposi che non lo sapevo. Avevo intenzione di provare a fare il cameriere nello stesso hotel in cui alloggiavamo, dato che, all’ingresso, stava un cartello con scritto che si cercava personale, e io avevo avuto modo di appurarmene la sera prima a cena. Chris si trovò d’accordo con me e disse che anche lui si sarebbe proposto per quel ruolo, ma che lo stesso non credeva saggio rimanere lì per molto, così vicino a casa.
Julia aprì gli occhi e chiese: – È giorno?
– C’è il sole! – dissi io.
– La mia era rassegnazione – rispose lei con un sorriso.

San Diego era una città non troppo grande all’epoca, ma per me era enorme. Le luci alla sera illuminavano ogni angolo, rendevano visibile quella vita notturna che a casa era impossibile scorgere, e sebbene io non apprezzassi il troppo divertimento, all’inizio ne fui piacevolmente sorpreso, tant’è che io, Chris e Julia passammo fuori le prime due sere, durante le quali il mio amico s’impegnò anche per trovarmi una ragazza, senza ovviamente alcun successo.
Io ancora non capivo alcuni dei perché della vita di San Diego, e dunque non potevo decidere di partire. Quando non ero in servizio all’hotel osservavo la gente, e mi sforzavo davvero, fino a farmi dolere la testa, di comprendere la ragione che stava dietro a quei gesti tanto più frenetici ai quali ero così abituato.
Non giunsi a nessuna conclusione se non quella secondo cui non esistevano conclusioni. La gente era così e basta. Era più veloce e meno dedita all’ozio perché non aveva tempo, la società era più grande e la gente vi si adattava, forse senza nemmeno rendersi conto. C’era sempre festa il venerdì e il sabato sera, soprattutto il venerdì. Mi sembrava che le persone s’accendessero una sigaretta sentendosi sole e sperando in un sabato migliore. Io, dal canto mio, iniziai seriamente a temere per il mio fegato e per quello dei miei amici, perché, non es-sendo ora soggetti a restrizioni di qualsivoglia tipo, ci davamo alla pazza gioia. Buona cosa alla nostra età, ma imporsi dei limiti è un bene in ogni caso.
La mia vita a San Diego subì una svolta fondamentale quando conobbi un tale di nome David Taylor, un ragazzo sui venticinque anni che faceva il facchino all’hotel. Egli si dimostrò fin da subito troppo ciarliero con me, e ciò mi indusse a pensare ch’egli volesse gabbarmi in qualche modo.
Chris la doveva pensare allo stesso modo, perché non appena si accorse della troppa confidenza che David aveva con me, mi disse: – Stai attento, Charlie! Non ti fidare di nessuno, sei giovane e gli altri potrebbero pensare che tu sia ingenuo.
Se avesse ragione o meno ancora non lo sapevo, intanto strinsi amicizia con David, e lui prese ad uscire regolarmente con me, Chris e Julia. Il Natale lo passammo noi tre nella nostra stanza d’albergo, e fu un Natale felice, ma Wendy mi mancava da star male. Arrivò Capodanno, e bevemmo così tanto che il giorno dopo fummo costretti a letto tutto il giorno, mentre non ricordavamo proprio niente di ciò che era successo la sera prima. Gennaio volò e giunse febbraio. A quel punto David sapeva di me anche più di quel che avrebbe dovuto sapere, mentre io, credendo di saper tutto di lui, in realtà sapevo ben poco.
Era questo un motivo in più per Chris di rimproverarmi, ma io non gli diedi molto ascolto. Quel David aveva come unico scopo quello di diventare più importante all’intero della gerarchia dell’hotel. Egli voleva divenire maggiordomo, ma come potesse fare non immaginavo davvero.
Una sera, apparecchiando per la cena, egli fece cadere con un gomito un’intera fila di bicchieri, ma, anche semi parve che l’avesse fatto di proposito, non mossi obiezioni quando mi disse di iniziare a pulire mentre nell’attesa correva a prendere un sacchetto per nascondervi tutti quei vetri. Così rimasi sbigottito nel momento in cui si presentò in sala con il responsabile dell’albero che alla vista del disastro divenne paonazzo.
– Charlie è impazzito, signore, ha buttato giù tutti i bicchieri in un attacco di nervi, davvero non so che gli abbia preso!
– Sei un fottuto figlio di puttana!
Credo che mai come in quel momento mi ero sentito così pieno d’ira. Ero sicuro che avrei facilmente spaccato la faccia a quel buffone se ne avessi avuto l’opportunità.
Ma le mie parole avevano solo confermato quelle di lui, e io venni licenziato subito e mi si disse che avrei dovuto lasciare l’hotel la mattina dopo, mentre i miei amici, se volevano, potevano restare. David Taylor fu fatto maggiordomo per il servizio di denuncia svolto.
Naturalmente i miei amici fecero i bagagli con me, e si scusarono anche per quel che m’avevano detto su David, poiché erano sicuri che nemmeno loro avrebbero capito cosa egli avesse in mente prima che avesse avuto l’opportunità di metterlo in atto.
Decidemmo all’unanimità che era giunto il momento di lasciare San Diego e raggiungere Los Angeles, ma prima scrissi un’altra lettera ai miei avvertendoli che tutto andava bene e che non passava giorno, anzi, ora o minuto, senza che pensassi a loro. Dedicai anche due righe ad Alan e gli dissi che gli volevo bene e che non ero stato un fratello tanto buono andandomene. Poi, mentre Chris e Julia facevano lo stesso con le loro famiglie, io scrissi un’altra lettera e la indirizzai a Wendy, e le dissi che il mio amore per lei rimaneva immutato, e che se l’avevo resa triste, il renderla triste aveva reso me ancora più triste di quando lei non fosse già.
Così partimmo per Los Angeles.

lunedì 13 giugno 2011

Sesto Capitolo

Non esistono addii

Molte volte mi ero chiesto se avessi qualcosa che non andava. Tipo qualche rotella fuori posto. Ma l’unica volta che mi ero sentito pazzo nel senso stretto della parola risaliva a un anno prima, quando io e Chris ci eravamo fatti di LSD prima di una festa. Niente da dire, gli altri ci beccarono subito. Non penso che l’avrei rifatto nemmeno sotto pagamento.
A parte questo, non sapevo cosa potesse essere. Forse ero solo triste. Un sacco di persone nascono e crescono più malinconiche di altre. Tanti preferiscono l’inverno all’estate; se ne stanno appartati, col fiato sospeso, non parlano, trattengono il respiro per quella che sembra un’eternità. Perché amano il freddo, il silenzio.
Come me.

Perché scelsi quel sabato per andarmene?
C’era una festa a casa di un mio compagno di classe. Il tipo viveva in un posto enorme, ed era risaputo che i suoi genitori non fossero gente da intromettersi nelle feste dei ragazzi. Sarei andato in macchina (la vecchia Ford di mio padre), alla festa. E nel bel mezzo mi sarei allontanato con una scusa, poi sarei scomparso. Avevo preso dai miei abbastanza soldi da non farli arrabbiare e allo stesso tempo da non farmi morire di fame prima che avessi trovato un lavoro da qualche altra parte, per poi spostarmi ancora.
A quella festa bevvi poco, e cercai di fare ubriacare Chris. Decisi che era giunto il momento quando lui e Julia mi sembravano completamente partiti e gli altri invitati erano sufficientemente impallati per le canne che si stavano fumando.
Non li vidi muoversi quando dissi che sarei andato in bagno e invece pensavo di uscire dal retro. Perciò quando fui fuori, essi mi si affiancarono senza che io li vedessi e mi presero a braccetto e dissero in coro: – Dov’è che andiamo di bello?
Al che io rimasi sbalordito, e senza lasciarmi tempo per pensare, mi presero le chiavi e aprirono la macchina, quindi Julia si sedette dietro e Chris davanti, facendomi segno di mettermi al posto di guida.
– Voi… voi siete matti. Non possiamo… non possiamo! Cosa diranno i vostri genitori quando scopriranno cos’avete fatto, cosa… è già difficile per me senza che vi ci mettiate anche voi!
Chris rimase impassibile. – Charlie, dopo qualche giorno ti sarai stufato, e torneremo qui. Lo sai meglio di me. E ora sali, prima partiamo e prima torniamo.
– Non ho intenzione di tornare così presto – sibilai.
Il mio amico si fece ancora più serio. – E io non ho intenzione di lasciarti andare da solo. Julia ha deciso di seguirmi. Quindi andiamo tutti e tre.
Non mi rimase altro che salire in macchina, a metà tra l’intontito e l’emozionato, girare le chiavi e mettere in moto. Quando partii, Chris chiese:
– Dove ci porti?
A fanculo, avrei voluto rispondere. Invece dissi solo: – San Diego. Poi Los Angeles e dopo ancora New York.
Chris fece un fischio e Julia scoppiò a ridere. – Sembri tu quello che ha bevuto! – esclamò il mio amico.
In quel momento dovetti pensare che la vita fosse tutta una grande risata triste e felice allo stesso tempo, perché mi misi a ridere anch’io mentre guidavo fuori dalla città dove avevo vissuto i primi diciassette anni della mia vita.

Quando Chris decise di darmi il cambio alla guida, e m’addormentai, sognai che mio padre e mia madre s’erano messi nel mezzo della strada e io li avevo investiti e non ero potuto andarmene.
Mi svegliai piangendo e pieno di tristezza come non mai. Poi vidi il mio amico al mio fianco e la tristezza si dileguò, quasi fosse una nuvola e lui il sole. Una volta usciti dalla zona abitata viaggiammo per una decina di miglia verso nord per la strada deserta e ci fermammo che erano le quattro del mattino. Accostammo di poco fuori dalla corsia e dormimmo in macchina. Chris andò dietro e dormì abbracciato a Julia.
Io, avendo già dormito prima, non seguii il loro esempio, ma tirai fuori un blocco di fogli e una torcia elettrica e iniziai a scrivere. Scrissi fino all’alba, finché sorse il sole; quando, illuminando le facce dei miei amici, li svegliò. Poi proseguimmo per qualche ora fino a fermarci in una cittadina dove comprammo dei panini per pranzo.
Secondo Chris saremmo arrivati a San Diego verso sera, quindi evitammo altre soste per non dover dormire ancora una volta in mezzo alla strada.
Quando la città apparve, al tramonto, in lontananza sull’orizzonte, preceduta da un cartello malmesso che ne indicava la distanza, il mio cuore fece un balzo. A quell’ora i miei genitori si erano sicuramente accorti della mia assenza, e così anche quelli di Chris e di Julia. Era brutto dover rendere triste qualcuno. In quel caso però era anche necessario.
Mentre guidavo per le prime vie di San Diego, e i palazzi si avvicinavano sempre di più, il cielo era terso e il sole mi nascondeva la malinconia negli occhi, pensavo che ero fortunato ad essere vivo, a poter guidare, sentire il caldo, e il vento quando aprivo il finestrino, sentire Chris e Julia che parlavano, scambiandosi parole dolci, soffocate, ridenti.
Entrammo in città e il caos della metropoli ci avvolse in una stretta letale. Eppure sentivo su di me il peso – se di peso si può parlare – della libertà.
– Chris, – dissi, – grazie per essere venuto. E scusami se ti ho mentito. Sai che non avevo altra scelta.
Lui rise, e io fui felice.
Julia disse: – Io mi immagino quanto stiano urlando i miei genitori in questo momento. Però è bello essere qui. Insomma, quanto dureremo?
E rise anche lei.

Lasciammo la macchina fuori da un hotel e lì prendemmo una camera. La notte si avvicinava, ed eravamo stanchissimi. Quando fummo sistemati chiesi carta e penna e scrissi una lettera ai miei genitori:

Cara mamma e caro papà,
vi voglio bene. Forse dovrei chiudere qui, tutto quello che c’era da dire l’ho detto. Vi sto uccidendo, in un certo senso, lo so. Immaginarvi piangere di fronte a queste parole è devastante. Mi distrugge dentro. Vorrei che mi capiste, ma so che è impossibile. Ci tengo però a dirvi che io capisco voi, il vostro dolore. È quello che provo da qualche mese. Provo dolore per tutti e troppo poco per me. Io soffoco, gli altri sono felici, e questo me li fa compatire. Penserete che sia pazzo, ma è difficile da spiegare. Il mondo è triste, le persone anche, eppure le vedo nascondersi dietro maschere di felicità, di passività. Non si muovono, non si mettono in gioco. Perché? Io voglio provare, anche a costo di farvi del male. Voglio che sappiate che così lo faccio anche a me, non ne sono immune. Ma devo provare a vivere. A vivere veramente. E lì a casa non posso, così come non posso aspettare di essere più grande. Devo capire adesso, o non capirò mai più.
Chris e Julia sono con me, nel caso non l’aveste capito. Mi hanno accompagnato di loro spontanea volontà, io non volevo. È bello però essere circondati da persone così, davvero. Questa è una delle cose per cui mi piace vivere. L’altra più bella, credo, è lo scrivere. Continuerò a scrivere e a scrivervi, perché mi tiene vivo, e di morire non ho nessuna voglia.
Chiudo come ho aperto: vi voglio bene.



Un abbraccio,
Charlie.

sabato 4 giugno 2011

Quinto Capitolo

Dimmi come ti chiami

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano. Come ti è venuta? – mi chiese il signor Johnson.
– In nessun modo, è venuta e basta.
– Ne riparliamo dopo la lezione, Charlie. Oggi avevo intenzione di spiegarvi i logaritmi, e…
E io caddi in catalessi, come in ogni lezione di matematica. Il lato positivo era che proprio in quelle ore nascevano le migliori idee. Ciò a cui avevo iniziato a lavorare si prospettava essere un lavoro lungo e serio, e ciò che lo spingeva, il motore che lo mandava avanti lentamente, era la mia inquietudine, l’agitazione che mi prendeva quando non mi sentivo al posto giusto.
Spesso mi chiedevo cosa avrei fatto se avessi amato una persona lontana miglia e miglia, cosa avrei fatto se la mia famiglia mi avesse odiato, cosa avrei fatto se non avessi avuto Chris, se non avessi avuto Wendy, se non avessi avuto nessuno, nessuno a cui voler bene, nessuno da amare. Mi chiedevo cosa avrei fatto se, alla fine della mia vita, mi fossi accorto di non averla vissuta. Quante persone arrivano all’ultimo giorno della loro vita senza più capelli da strapparsi?
Guardavo il signor Johnson e mi ripetevo le stesse domande, rimanevano i dubbi, e poi tutto quello che gli adulti sapevano dire era «sono ragazzi», ti cantavano come un pappagallo che saresti cresciuto, che avresti capito. Ciò che io mi chiedevo in quei giorni era se loro avessero veramente capito, crescendo. Ma mi bastava guardarli per capire qual era la risposta.
I ragazzi odiano la scuola, pensavo, ma è lì che imparano tutto, nel bene e nel male. Lì imparano a sentirsi prigionieri e lì imparano a sentirsi liberi, quando ne escono. Non era forse anche questa una legge universale, inevitabile?
Il signor Johnson mi chiamò fuori dalla classe quando suonò la campanella. Mi disse che in poche righe ero riuscito ad esprimere ciò che i miei compagni non erano riusciti a fare in pagine e pagine di compito. Sarebbe stato troppo facile, disse, prendere il mio compito per una prova di pigrizia, ma piuttosto gli sembrava mettesse in risalto la mia grande capacità di sintesi e comunicatività letteraria.
– È questo il problema, – gli risposi, – so comunicare solo attraverso le parole scritte. A parlare sono bravi tutti. Io no.
Rispose: – A scrivere non è buono quasi nessuno. Tu sì.
Non risposi.
Mi chiese: – Ti piace l’America?
– No.
– Lo immaginavo. Ma l’America è enorme, non è la California.
– Come faceva ad immaginarlo?
Il signor Johnson mi fissò dritto negli occhi. – Te lo si legge sul volto, Charlie, che tu qui stai soffocando. Non ne puoi più. Devi trovare il tuo posto nel mondo. Ad alcuni viene naturale, un giorno si svegliano e si accorgono di essere cambiati. Per te è più difficile. Tu devi alzarti e muoverti, non cambi da solo. Devi vedere il mondo e cercare di capire perché sei qui. Sono sicuro che non ti demoralizzerò se ti dico che una risposta a una ricerca del genere è quasi impossibile da trovare, vero?
– Sì, signore.
– E allora cosa farai?
– Non glielo posso dire, signore. Cercherebbe di impedirmelo. Buona giornata, signore.
Lo lasciai lì così, immobile a guardarmi mentre me ne andavo per il corridoio della scuola, ormai deserto.

– Cosa stai leggendo? – chiesi a Wendy.
Lei chiuse il libro tenendo il segno con l’indice. – Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, e tu, caro cugino? O sei troppo impegnato a scrivere per leggere un buon romanzo?
Ridacchiai. – Grandi Speranze, Dickens.
– Ah! Bene, bene.
L’avevo raggiunta sulla veranda di casa mia. Mi sedetti su una delle sedie a dondolo e mi misi a scribacchiare qualche ap-punto sul mio blocco di fogli.
Dopo qualche minuti m’interruppi e le dissi: – Posso fidarmi di te?
Lei alzò gli occhi. – Certo che puoi.
– Sabato prossimo me ne vado da qui. Non posso dirti né come né perché, ma volevo che tu lo sapessi. Mi dispiace abbandonarti e non passare con te il Natale, ma devo farlo.
Poi scoppiai a piangere perché non riuscivo a capacitarmi che avevo veramente pronunciato quelle parole. Ero pazzo, pazzo, pazzo.
E invece mia cugina mi abbracciò e mi tenne stretto stretto, e io le volli bene come non mai, e la strinsi anch’io, e le dissi che l’adoravo, che sapevo di poter contare su di lei, e ancora che mi dispiaceva tantissimo doverla lasciare proprio ora che era arrivata, e le chiesi di perdonarmi, ma di non dimenticarmi mai e poi mai, perché io non avrei mai smesso di volerle bene, e lei lo sapeva.
Poi si staccò da me e disse: – Su una cosa sono sicura al cento per cento, Charlie: che la vita ti può apparire bella un momento e triste il momento dopo, ma che è una cosa unica, che al suo termine niente la sostituirà, né le preghiere che hai recitato in vita, né il fatto di non rassegnarsi a diventare parte della terra.
– Cosa devo fare?
– Quello che ti senti di fare. Cerca solo di non fare troppo male agli altri con la tua assenza. Può non sembrarti così, ma in questo posto è pieno di gente che ti vuole bene. E tra questa gente potrebbe esserci anche chi non ci penserebbe due volte a morire per te.

Chris mi aspettava per un giro in libreria quella sera. Il mio amico non leggeva molto, più che altro solo i libri che ci dava da leggere Johnson, però non gli dispiaceva accompagnarmi a fare un giro per cercare nuove letture.
Quella sera aveva lo sguardo torvo e mi guardava di sfuggita, scuro in volto. Se pensavo a cosa avevo intenzione di fare, avrei voluto inginocchiarmi sul posto e chiedergli scusa, e rimangiarmi tutti i miei propositi.
Io sapevo che lui avrebbe voluto aiutarmi, ma il fatto che io rifiutassi il suo aiuto e blaterassi riguardo a una prossima partenza, lo rendeva furioso con sé stesso, come se avesse fallito in qualche cosa.
Tuttavia, l’unico che avesse fallito, ero io. Avevo fallito a vivere. Potevano dirmi che non era vero, che in realtà stavo soltanto attraversando una crisi. Ma cos’era la mia vita se non un alternarsi di idee e giornate apatiche? Qualcuno avrebbe detto che scrivere fosse l’unica cosa che sapessi fare, e io avrei confermato. Sapevo solo scrivere, e mi sentivo inutile. Terribilmente inutile. Come avrei potuto spiegare questo a un amico?
– Chris.
Girò leggermente la testa verso di me.
– Sì?
– Mi dispiace per quello che ho detto l’altro giorno. Non partirò, non intendo farlo. Mi dispiace.
Il suo viso si rilassò, e io mi sentii uno schifo assurdo.
– Non che mi fidi tanto delle tue parole, ma è già qualcosa. Potresti consigliarmi qualcosa da leggere prima che ti prenda a pugni?
Alla fine uscimmo dalla libreria con un sacchetto pieno. Io avevo comprato Tenera è la notte di Fitzgerald, Il Giovane Holden di Salinger e un libro di poesie di Emily Dickinson. A Chris consigliai I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, visto che gli piaceva parlare delle rivoluzioni.
– Senti, – mi disse Chris, – mi è avanzata una terza bottiglia di vodka dopo l’ultima volta. Che ne dici di andare a scuola da fatti, domattina?
Io scoppiai a ridere fino alle lacrime, e per un attimo dimenticai tutto.
– Dio, tu sei completamente matto! Ma ci sto, cazzo, ci sto!

lunedì 30 maggio 2011

Quarto Capitolo

Viviamo di giornate sempre più corte

Il mattino dopo avevo un mal di testa assurdo. Ero crollato sul letto poco prima che i miei genitori tornassero. Ricordavo vagamente che mio fratello e Chris mi avevano trasportato di peso al secondo piano di casa mia, dove c’era la mia camera, e lì mi avevano lasciato. Chris e Julia si erano poi defilati giusto in tempo, e Alan era andato in camera sua a leggere.
Quella notte sognai pianure verdi sterminate, ma pur sapendo che esistevano, non riuscivo a ricordare dove avrebbero potuto trovarsi. Sapevo però che c’erano, e questo era tutto ciò che contava.
Era sabato e pioveva, guardai fuori dalla finestra appena sveglio e rimasi a fissare la pioggia, le goccioline che scendevano delicatamente per il vetro, divertito e felice che la natura fosse viva, che io fossi vivo, che tutto si muovesse e scorresse senza sosta, i giorni, le parole, gli sguardi. Quanta bellezza invisibile. Eravamo la luce che rischiarava il mondo, figli delle stelle e stelle a nostra volta, splendenti, vibranti di gioia.
Iniziai a pensare a quale follia fosse andarsene. Sentirsi straniero da qualche altra parte, non vivere nei posti in cui si è cresciuti, con le persone che si amano e che ci amano, non piangere con loro, non ridere con loro e non condividerne le lunghe giornate d’estate che sembrano non finire mai, le gite nei verdi prati della California e le notti in spiaggia.
E allora perché la mia idea non se ne voleva andare?
Presi un blocco di fogli, una biro, e iniziai a scrivere:

Caro Amico,
non so darti un nome, perché in realtà io sto scrivendo a me stesso, ma mi piacerebbe poterti chiamare amico, e che tu chiamassi amico me, in modo tale che possiamo raccontarci ciò che gli amici di solito si raccontano. E magari anche qualcosa di più, come quelle sensazioni che si raccontano solo a se stessi e che poi nemmeno si ammettono.

Posai la biro.
Quando scesi di sotto per la colazione, i miei genitori l’avevano già fatta ed erano in veranda a leggere su sedie a dondolo, mia madre un romanzo di Dostoevskij e mio padre il giornale del mattino. Nonostante il freddo e la pioggia, non si scoraggiavano dal prendere un po’ d’aria alla mattina, magari con un paio di coperte di lana.
Alan aveva quasi finito, e una volta che mi fui seduto mi chiese:
– Dov’è che vuoi andare?
– Via.
– Via dove?
– Il più lontano possibile da qui. Così lontano che dovrò sentire la mancanza di questo cazzo di posto. E allora, forse, tornerò.

La mia strada era lì davanti a me. Io la vedevo, ma era come se qualcosa mi ostacolasse il cammino. Quel qualcosa era me stesso. Dovevo scrivere per ricordare alle persone intorno chi ero, che eravamo tutti umani, tutti uguali, anche se tendevamo a chiedere il mondo intero per noi.
Passai la giornata a scrivere, instancabile come sempre. Chris venne da me verso pranzo a salutarmi, ma quando vide che non alzavo nemmeno gli occhi dal foglio, sorrise e mi disse che preferiva non disturbarmi, così se ne andò. Era bello avere un amico così. Era bellissimo.
Scrissi il tema per il signor Johnson, ma escogitai una piccola scorciatoia:

Come evitare le rivoluzioni.

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano.

Non smise di piovere, e io non smisi di scrivere. Decisi che quella era una legge e io agivo secondo quella legge, ero prevedibile, producevo quando c’era più tristezza. In primavera ed estate la mia città era troppo felice per i miei gusti, ora capivo che non potevo vivere lì per sempre se volevo fare lo scrittore.
Facevo alcune pause in cui smettevo di scrivere e andavo sotto la pioggia per sentire l’acqua bagnare il mio viso, chiudere le mie palpebre e inzupparmi i capelli.
Ero matto, ma ero vivo.

Scrissi talmente tanto e talmente intensamente che dimenticai che giorno fosse. Mancavano dieci giorni a Natale, e quello era il giorno fissato da mio padre e mia madre per attendere mia zia e mia cugina.
Quest’ultima, Wendy, godeva della mia massima stima. Aveva vent’anni e studiava legge a San Francisco. Mia zia era una donna molto fredda e distante, ma non per questo una cattiva persona; anzi, spesso, da piccolo, facevo ricorso ai suoi consigli.
Arrivarono verso sera, mentre io ero sul divano a scrivere e sul giradischi andava Que sera sera di Doris Day. Nel caminetto ardeva un piacevole fuocherello. Dato che mia zia era la sorella di mio padre, egli andò in strada, con l’ombrello, per scortare lei e mia cugina fino alla porta di casa.
Wendy, capelli castani e occhi marrone chiaro, mi sorrise e corse ad abbracciarmi (dopo aver fatto la stessa cosa con mio padre, naturalmente). Nonostante fosse più grande, io la sovrastavo di parecchi centimetri in altezza, e quindi dovette alzarsi in punta di piedi per scoccarmi gli usuali bacetti sulle guance.
– Come stai, carissimo cugino?
– Bene, e tu sei bella come sempre!
– Oh, mi piacerebbe contraddirti con qualche insulto, ma i nostri genitori sono qui, purtroppo.
Risi e l’abbracciai ancora. – Ce ne libereremo presto, tranquilla. Sono contento che tu sia qui!
– Anche io sono contenta di essere qui, Charlie.
Mia madre cambiò musica e subito la voce di Elvis Presley risuonò in salotto.
– Ecco perché mi mancava questa casa – disse mia cugina.
Adocchiò il blocco degli appunti su cui stavo scrivendo e chiese: – Una nuova storia?
Risposi: – Una nuova vita.
– Piccolo cugino mio, – disse Wendy, – non sei cambiato di una virgola dallo scorso anno, eppure mi sembra di vedere una luce diversa nei tuoi occhi.
– Wendy…
– Che c’è?
– Sto piangendo.

Il giorno dopo era domenica, e il sole splendeva alto nel cielo, illuminava le gocce di pioggia rimaste sulle foglie degli alberi, faceva sembrare i fiori ancora più belli, perché adesso era bagnati, ed erano vivi o piangevano. Io, Charlie Collins, amavo i fiori, perché essi erano vita, e ciò che era vita prendeva forma nelle pagine sulle quali la mia biro si posava.
Andai da Chris e mi portai dietro Wendy. Il mio amico stava cercando di venire a capo del tema che per causa sua il signor Johnson ci aveva affibbiato.
Mia cugina mi chiese cos’avessi scritto io.
Feci spallucce. – Dev’essere una sorpresa.
– Odio quando fa così – ammise Chris mangiucchiando la biro.
– Prova a scrivere che le rivoluzioni sono evitabili con un buon governo che tiene in conto gli interessi delle classi più disagiate, dev’essere quello che il tuo insegnante si aspetta – disse Wendy mentre Mary ci raggiungeva e salutava timidamente mia cugina.
– È proprio questo il problema – replicò Chris. – Devo scrivere qualcosa che il signor Johnson non si aspetti, ma di solito ci riesce solo Charlie.
– Ma tu non puoi scrivere quello che ha scritto Charlie. Devi scrivere quello che senti tu.
– Non riesco – disse Chris.
– Perché? – chiesi io.
– Per quello che hai detto l’altra sera, per il fatto che vuoi andartene. Non puoi farmi questo.
Rimasi in silenzio, e Wendy mi guardò con aria interrogativa, mentre la piccola Mary, percependo un velo di disagio, preferì allontanarsi e tornare dai suoi genitori.
– Non ho detto che me ne andrò, ho detto solo che voglio andarmene.
– Charlie, – disse Chris, – sai meglio di me che quando dici una cosa, poi la fai. Era da un po’ che ti comportavi in modo strano, e ora che so cosa ti passa per la testa, so anche che manterrai fede a ciò che hai detto e lascerai questa città. Forse non domani, ma presto lo farai.
– Chris, di cosa hai paura?
– Ho paura di te. Ho paura che tu non tornerai.

venerdì 27 maggio 2011

Terzo Capitolo

Bombardano dentro

Uno dei camerieri del ristorante che gestiva mio padre (e di cui era lo chef), Lucas, venne a casa nostra poco prima di cena per dirmi che Michael, l’altro cameriere, non si era sentito molto bene, e che io avrei dovuto sostituirlo. Era già successo altre volte, così presi la bici e seguii Lucas fino al ristorante.
Quella sera servii ai tavoli e ascoltai svariati discorsi.
Una donna anziana che cenava da sola mi fece i complimenti per i miei occhi verdi e si lanciò in un appassionato monologo sull’importanza del capitalismo; ella riusciva a dirmi un sacco di cose nel solo intervallo di tempo in cui le portavo i piatti.
– I comunisti ci vogliono tutti uguali! E poi…
E poi mi allontanavo, ma lei ritornava all’attacco non appena ero nuovamente nei paraggi.
Una ricca copia veniva da New York e litigava sul fatto che quella vacanza fosse una “vaccata” (testuali parole) e che lì non ci fosse niente da fare, né la vita era molto movimentata come quella cui erano abituati. Erano allergici alla quiete.
George, mio padre, mi diede il permesso di andare a casa solo alle dieci. Vi arrivai sfinito e, dopo aver mangiato controvoglia una fetta della torta avanzata, mi buttai sul letto e mi ad-dormentai immediatamente.

La mattina dopo, il signor Johnson, neanche a farlo apposta, tenne una lezione sulla Rivoluzione d’Ottobre e sull’ideologia comunista. Secondo lui il comunismo in sé era qualcosa di molto nobile, solo che era utopico e impossibile da realizzare. Questo aveva portato a milioni di morti. Fui sorpreso della condizione in cui si trovavano i cittadini russi prima di quell’ottobre.
Chris fece uno dei suoi logorroici ma stimolanti interventi sull’importanza dei diritti umani e della distribuzione equilibrata delle ricchezze.
– Io ritengo che ogni rivoluzione abbia i suoi perché.
Il signor Johnson sospirò esasperato. – Su questo punto concordiamo tutti, Christopher.
– Certo, ma i russi non avevano la cultura necessaria per tenere in piedi un nuovo ordine, giusto? La rivoluzione la fanno i poveri, gli operai, quelli la cui dignità viene calpestata ogni giorno. Facile lamentarsi quando si ha tutto.
Calò il silenzio.
Nessuno osava commentare.
Il signor Johnson si alzò e andò alla lavagna. – Tema per settimana prossima: come evitare le rivoluzioni.

Al pomeriggio avevo un’importante partita di tennis al campo della scuola. Chris venne a vedermi insieme a una ragazza del liceo femminile che non avevo mai visto. Era carina e sorridente, ma l’avrei conosciuta meglio dopo aver giocato. Chris sembrava un po’ imbarazzato, e ciò mi mise di buon umore a causa dell’affetto che provavo nei suoi confronti.
Era una giornata soleggiata ma molto fredda, Natale era vicino, quindi c’erano poche persone ad assistere, e riuscii a trattenere meglio il nervosismo.
Vinsi facilmente e andai a stringere la mano all’avversario, un ragazzetto bruno e basso che non se la prese minimamente per la sconfitta.
Chris venne a congratularsi con me dandomi un’amichevole pacca sulla spalla.
– Domani è sabato, quindi stasera si festeggia! Ho una cosina speciale per divertirci.
Mi fece l’occhiolino.
– Ah, e questa è Julia.
Le strinsi la mano. – Piacere Julia, io sono Charlie.
– Ciao, Charlie, begli occhi.
Le sorrisi. – Grazie.
– Ti aspettiamo all’uscita da scuola, vai a lavarti che puzzi! – concluse Chris.
Salutai e andai negli spogliatoi per farmi la doccia. Insieme al sudore cercai di lavar via anche il senso di smarrimento che mi opprimeva, ma non ci riuscii.

Quella sera i miei andarono a teatro, e non sarebbero stati di ritorno prima dell’una di notte. Chris colse l’occasione al volo e mi chiese se lui e Julia sarebbero potuti venire da me per svagarsi un po’. Alan non avrebbe dato fastidio, senza contare che tra lui e Chris c’era un particolare rapporto basato su battutine a sfondo culturale, e Chris si divertiva tantissimo, nonostante la maggior parte delle volte ne uscisse sconfitto.
La sorpresina di cui mi parlava alla partita non era altro che tre bottigliette di vodka ancora chiuse.
– Ho pensato, – mi disse, – che se non hai niente da nascondere ti darai alla pazza gioia.
– Chris, non so…
Mi mise una mano sulla spalla. – Charlie, amico mio, quando i tuoi genitori saranno tornati, noi saremo già a casa nostra e tu a dormire come un sasso.
Alla fine mi convinse, e nonostante mio fratello iniziò a fare storie non appena vide la vodka, presto Chris lo fece tranquillizzare, iniziando così il loro consueto battibecco.
Io ne bevvi un sorso e poi iniziai a parlare con Julia.
– Come hai conosciuto Chris? – le chiesi.
– Oh, dev’essere successo in qualche piazza mentre teneva un comizio.
Strabuzzai gli occhi.
– Sto scherzando, scemo – rise lei.
Bevvi un altro sorso e un altro ancora. Avendo finito il bicchiere, chiesi a Chris di riempirmelo. Lui non se lo fece ripetere due volte.
Alan e il mio amico misero su il disco con il primo album di Little Richard e ciò mi indusse a scolarmi anche il secondo bicchiere di vodka.
– Ehi, vacci piano.
– Ma non ho niente da nascondere, come dice Chris.
– Chaaarlie, tuo fratello non sa qual è la capitale della Mongolia!
Scoppiai a ridere rumorosamente. – Ma nemmeno tu, Chris!
Venne vicino a me e mi versò altra vodka. – Questa sera non mi sfuggi, devi dirmi cos’hai che non va! Fattelo dire tu, Julia! Fatti dire da Charlie cos’ha che non va!
La ragazza mi guardò con aria interrogativa. – Che intende dire?
– Niente.
Bevvi anche il terzo bicchiere.
Chris me ne versò subito uno nuovo.
– Intendo dire – disse – che Charlie è molto chiuso negli ultimi tempi. E soprattutto non scrive più. Te l’avevo detto che scriveva? Sì, insomma, dovresti vedere le poesie e i racconti, sono molto belli, e ne ha scritti tantissimi! Solo che ora dice che ha smesso.
Sorseggiai il quarto bicchiere. – Non riesco più a scrivere perché vorrei scrivere troppe cose – mormorai.
– Questo a me l’hai già detto, amico – rispose Chris. – Quello che non mi hai detto è cosa vorresti scrivere. Sono sicuro che nella confusione della tua testa tu abbia delle idee ben fisse.
Alan ascoltava, in silenzio. Little Richard copriva i pensieri.
Mi versai da solo altra vodka. La testa mi girava ma ero in estasi, e a un passo dal rivelare le mie intenzioni.
– Voglio andarmene.
In quel momento si concluse la canzone di Little Richard.

mercoledì 25 maggio 2011

Secondo Capitolo

Si spegne il sole

A casa trovai Alan che leggeva Guerra e Pace sul divano. Senza alzare la testa disse – Ciao, Charlie –, come tutte i giorni. Mamma stava ancora finendo la sua lezione di piano con una ragazzina di quattro o cinque anni più piccola di me. Mi salutò allo stesso modo di mio fratello e mi chiese cosa volessi per cena.
– Chris mi ha invitato da lui, è un problema?
– No, tesoro, vai pure. Ci vediamo stasera. Clara, attenta al si bemolle, non devi dimenticarlo! Avanti, riprova.
– Ti dispiace se gli porto qualche fetta della torta che hai fatto?
– Cosa tesoro? La torta? Sì… no, no, assolutamente, portagliela pure, poi fatti dire come l’hanno trovata! Il si bemolle, Clara!
– Dove sei arrivato? – chiesi a Alan.
– Hai fumato?
– Che te frega? Dove sei arrivato?
– A metà, più o meno.
Ci rinunciai, mi mossi in direzione della cucina e lì tagliai la torta a metà con un coltello che avevo preso da un cassetto. La avvolsi in un sacchetto di plastica e tornai fuori. L’aria gelida mi riavvolse dolcemente, e per qualche secondo mi sentii a casa.

***

Chris stava apparecchiando quando arrivai. A casa non c’era nessuno tranne la sorella più piccola, Mary, che aveva otto anni.
– Charlie!
– Ciao, piccolina – dissi, dandole un bacio sulla fronte. – Tutto bene?
– Mangi con noi, Charlie?
– Certo! Cosa ci ha fatto tuo fratello di buono?
Lei alzò le spalle e disse: – Boh!
Charlie era ai fornelli che canticchiava una canzone di Sinatra di qualche anno addietro.
Don’t like goodbyes, tears or sighs, I’m not good at leaving time, I got no taste for grieving time, no, no, not meee!
– Chris?
Lanciò un mezzo urlo e quasi mandò all’aria la padella e la carne. – Oh, Charlie, non ti avevo sentito. Sai, stavo…
– Cantando. Hai la stessa voce di Sinatra.
Rise. – Ah ah! Tu ti prendi gioco di me, amico mio! In ogni caso la carne è quasi pronta, vai pure a sederti insieme a Mary.
– Hai bisogno di aiuto?
– No, no, tranquillo, me la sbrigo da solo. Distraiti un po’ con mia sorella, non dev’essere difficile.
In sala da pranzo mi sedetti accanto a Mary. Era una bambina graziosa, con i capelli biondi e ricci come quelli di suo fratello, gli occhi scuri e calmi. Aveva un viso rotondo, le guance rosse con una fossetta su quella destra.
– Come fai a tenere i capelli così ordinati?
Mi riscossi. – Come?
– I capelli… li pettini tanto per averceli così?
Era una domanda che mi avevano già fatto più volte. Io tenevo i miei capelli neri sempre lisci e pettinati con la piega a sinistra, e molta gente si era sorpresa di questa cosa; infatti non c’è mai stato un giorno in cui li avessi in disordine o spettinati.
– Mi piace tenerli così – risposi.
– Ti piace e basta?
Annuii.

Dopo mangiato, io e Chris uscimmo a fare un giro in bicicletta senza una meta precisa. Pensavo che facesse così solo perché pensava di riuscire a strapparmi il mio “segreto” se avesse continuato a pressarmi.
Avevo sempre pensato che saremmo cresciuti insieme ancora per molti anni e che avremmo condiviso i nostri problemi fino a che ci fosse stato possibile. Ma quel problema Chris non l’avrebbe capito, non l’avrebbe voluto ascoltare nuovamente dalle mie labbra, avrebbe voluto cancellarmi dalla testa quella idea tanto folle. E io non potevo permettermelo.
Quando sarebbe venuto il momento, gli avrei detto che me ne sarei andato, e un minuto dopo mi avrebbe guardato andarmene, io e una valigia, per una qualche strada verso nord, senza sapere cosa stessi facendo e soprattutto perché, lo stessi facendo.
Lasciammo le bici poco prima della spiaggia legate al palo di un vecchio cartellone pubblicitario che ritraeva un’immagine semidistrutta di Marilyn Monroe.
Il vento soffiava più forte in prossimità del mare. Fischiava nelle orecchie, liberava la mente. L’inverno era il momento migliore per scrivere.
Chris mi chiese: – Cosa scrivi ultimamente?
– Cosa intendi dire?
– Intendo dire che so che non puoi stare un giorno senza mettere giù qualcosa, fosse anche un’idea del cazzo che abbandoni dopo poche righe. Quindi, ripeto la domanda, che stai scrivendo negli ultimi tempi?
Non risposi. Mossi qualche passo verso la riva.
– Allora?
– Non scrivo più niente – dissi infine.
– Come? Non scrivi più niente?
– No.
– E perché?
– Perché ho troppe cose dentro di me che vorrei scrivere, e so che se ci provassi scoppierei senza riuscire a scrivere nulla.
– Non ti capisco.
– Non devi capirmi.
– Ma io sono tuo amico. Io voglio capirti.
Lo abbracciai. – Grazie.
– Non c’è bisogno di ringraziarmi.
– Perché mai?
– È questo che fanno gli amici. Si capiscono, si aiutano. Se non è così significa che non sono amici; e noi lo siamo da tanto tempo. Proprio ora, nel momento in cui mi sembra che tu abbia più bisogno d’aiuto, rifiuti di confidarti con me?
– Forse non è il momento di essere aiutati, Chris.
Non disse niente, ma prese a raccogliere sassi per la spiaggia deserta e a lanciarli in mare facendo cerchi nell’acqua. Essi nascevano e morivano con la stessa velocità delle mie idee, bruciate ancor prima di prendere fuoco.
– Se cambi idea, – riprese dopo un po’ – dimmelo.
– Un giorno capirai – gli dissi.
Ma mi guardò triste. – Quando capirò sarà comunque troppo tardi, vero?

Restammo in spiaggia fino al tramonto, dimentichi dei compiti scolastici per l’indomani. Stemmo in silenzio, onorando le parole del signor Johnson di quella mattina, perché non c’era niente da dirsi ma tanto da tacere che a parole non si poteva certo esprimere.
Quando il sole si spense oltre il mare e la luce iniziò a sbiadire, allora ci alzammo, recuperammo le bici e ognuno pedalò verso la propria casa, lui con la certezza di trovarne una, io con tutto tranne che quella certezza.

lunedì 23 maggio 2011

Saltando nelle pozzanghere - Prologo e Primo Capitolo


Prologo

Scrivere era l’unica cosa che sapesse fare. Lui lo sapeva, la sua famiglia anche, e persino i suoi amici lo sapevano. La scuola, la sua città, il mondo fisico, esistevano solo in piccola parte nella sua vita; era come se si trovasse in una nuvola enorme e solo raramente riuscisse ad uscirne per vedere il cielo. Eppure aveva solo diciassette anni, non era brutto e nemmeno antipatico. Anzi, tutto il contrario a voler essere onesti. Il problema era che non riusciva a trovare il suo posto nel mondo. Voleva viaggiare e girarlo tutto solo nella speranza che un giorno avrebbe trovato un posto dove stare. Un posto che lo volesse, che lo chiamasse con il suo aspetto, che gli dicesse «tu devi vivere qui».
Viveva in una perenne crisi esistenziale, non sapeva dare un significato alla vita, alla sua casa, ai suoi sentimenti. Provava amore e odio come tutti gli esseri umani, si consumava in essi ma non riusciva ad abbracciarli. Non urlava, come succede spesso a tutti, perché ardeva di rabbia, né smetteva di mangiare perché era innamorato.
Semplicemente leggeva.
E scriveva.

Quando aveva dodici anni, Charlie era diverso. Scriveva già, ma non aveva ancora raggiunto la piena consapevolezza che lo avrebbe portato a sentirsi un adulto nel corpo di un ragazzo.
Da quando era nato, la sua famiglia aveva vissuto in una cittadina di qualche migliaia di abitanti sulla costa occidentale della California. Due anni dopo di lui era nato suo fratello Alan. Erano cresciuti insieme, né troppo affezionati l’uno all’altro né troppo distaccati: formavano insomma una normalissima coppia di fratelli. Il padre di Charlie era il direttore di un ristorante, mentre la madre dava lezioni private di piano.
Charlie andava bene a scuola, giocava discretamente a tennis e aveva una buona compagnia di amici. Prendeva voti più che sufficienti, nessuno si lamentava di lui e tutti in città erano sicuri che sarebbe diventato una brava persona, e che sarebbe vissuto lì per sempre con la sua famiglia. Fu quando aveva sui quindici anni che qualcosa dentro di lui si ruppe.
Una mattina Charlie si svegliò con la terribile sensazione di essere una persona sbagliata. Allo psicologo che l’avrebbe seguito per qualche tempo disse che era come soffocare, come se un peso insopportabile gli gravasse addosso e lo schiacciasse giù, sempre più giù, fino a farlo rimanere attaccato a quel paesino per il resto della sua vita.
Da quel momento maturò l’idea di andarsene. Prendere e sparire, senza sapere bene dove. Dentro di lui germogliò la convinzione che niente avesse senso al mondo, che la vita fosse la cosa più noiosa e triste mai esistita; e poiché niente poteva esistere senza la vita, arrivò alla conclusione che essa fosse la causa di tutta la tristezza che le persone provavano.



Capitolo 1: Un mondo nuovo e impazzito



– Perché, non vi chiedete mai perché, ragazzi miei, la chiamano Rivoluzione Americana e non “rivoluzione inglese”? Pensate, gli europei sono venuti qui, quattrocento anni fa, e hanno sterminato tutte le popolazioni indigene. E noi, tempo dopo, abbiamo avuto il coraggio di chiamare americana la nostra rivoluzione. Gli americani, ragazzi, sono morti. Noi non siamo americani, né europei. Noi siamo cittadini del mondo. Questo dovete ricordare, che molti ancora lo dimenticheranno negli anni a venire, e ripeteranno, consapevoli, gli stessi identici errori.
Christopher, il mio miglior amico, alzò la mano.
Il signor Johnson gli fece cenno di parlare.
– Signore, la rivoluzione ci ha reso il paese più bello del mondo.
– Il paese più bello del mondo? Non c’è un paese più bello del mondo. È il mondo ad essere bello, Christopher. Con quale diritto chiamammo – e chiamiamo – nostra questa terra? Sappi che non è di nessuno, né tua, né mia, né nostra.
Mentre mangiucchiavo la biro riflettei su quelle parole che mi sembravano tanto vuote quanto lo era la mia testa ogni mattina alle sette. Ma non riuscii a pensare a nulla che già Chris stava ribattendo al signor Johnson:
– Signore, io sono orgoglioso di essere americano, oggi. E sono orgoglioso che degli uomini abbiano combattuto per l’indipendenza delle colonie tanti anni fa. Non vorrei sembrare maleducato, signore, ma sembra che lei non apprezzi questo fatto.
Addentai la biro con maggior vigore.
– Mi fraintendi, Christopher. Io sono ancora più orgoglioso di te. Ma vedi, una quindicina di anni fa si è chiusa la peggiore guerra che il mondo abbia mai visto. Tu eri appena nato, non te la ricordi, e qui in America non è stata sentita come in Europa. Sappi che una guerra del genere, benché nessuno la voglia, potrebbe ripetersi. Quello che sto cercando di farti capire, a te e ai tuoi compagni, è che non bisogna mai, mai, considerare qualcuno uno straniero. E se considerate una persona dai suoi costumi, ed essi sono rozzi e volgari, allora cercate di modificarli, di aiutarla, di mostrarle l’universalità dei diritti. Mi capite?
– No – rispose Chris sorridendo amareggiato. – Non completamente, almeno.
Io scrissi due versetti improvvisati sul quaderno e il signor Johnson sorrise a Chris.
– È questo, Christopher, il problema della gente. Non si capisce mai a parole. Di questo non dovete aver paura: di rimanere a corto di cose da dire. Credetemi, ci sono altri modi, più veri, più diretti, per parlare a qualcuno. Le parole possono essere cambiate, un po’ di qua e un po’ di là e il significato è stravolto. Non ho idea, né voglio saperlo, di quante persone abbiano sofferto a causa delle parole.
Chris disse: – Le sue lezioni sono sempre molto interessanti, signor Johnson. Certo, non so quante persone qui dentro condividano il suo pensiero, ma apprezzo il fatto che ci faccia riflet-tere su temi di indubbia importanza.
Un ragazzo dall’altro capo della classe rise. – Sei un cretino, Chris. Non saranno certo queste leccate a salvarti il culo, quest’anno!
La classe scoppiò a ridere e il signor Johnson, anch’egli ridacchiando, disse: – Vai fuori, James.
Il ragazzo che aveva parlato uscì tutt’altro che risentito.
– Bene, – sospirò il signor Johnson, – mancano cinque minuti, avete qualcosa da chiedermi?
Alzai la mano. – Signore, e se fossi io a sentirmi straniero a casa mia?
Mi guardò attentamente. – Tu ti senti straniero a casa tua, Charlie?
Non risposi. Lasciai che il silenzio lo facesse al mio posto.
– Be’, – riprese il signor Johnson, – se è così potresti non appartenere a questo paese.
– Come dice lei, signore, io appartengo al mondo – dissi.
Chris diede un colpo di tosse.
– Va bene ragazzi, potete andare. –
Parlato che ebbe Johnson, tutti si alzarono e presero i loro zaini.
Chris mi afferrò il braccio e, mentre gli altri uscivano dalla classe, si piantò di fronte al signor Johnson e disse:
– Naturalmente, signore, non faccia caso alle parole del mio amico, ultimamente ha sempre la testa fra le nuvole. –
– Ho notato. –
Stemmo un attimo zitti, poi Johnson riprese: – Be’, Charlie… se hai bisogno di parlarmi non farti problemi, va bene? E ora andate a casa.
– Arrivederci, signor Johnson – disse Chris sempre trascinandomi per il braccio.
– Arrivederci, ragazzi.
Una volta fuori dall’edificio, Chris tirò fuori un nuovo pacchetto di Marlboro dalla tasca dei pantaloni.
– Sigaretta? – mi chiese.
Annuii assente.
– Eddai, Charlie! – esclamò porgendomela. – Che hai? Non ti sarai mica innamorato, vero?
– No – dissi.
– Qualunque cosa sia potresti dirmela.
Mi accese la sigaretta.
– Vieni a mangiare da me?
Feci spallucce. – Devo avvisare a casa.
– E allora muoviti, ti ho appena invitato. Ci vediamo fra un’ora, mi raccomando. A dopo!
Ritirò l’accendino in tasca e si allontanò fischiettando.
Io presi la strada opposta. Mi sentivo la testa occupata da mille pensieri. Le parole del signor Johnson non avevano un solo significato, ma potevano voler dire tante cose allo stesso tempo. Era forse possibile che ciò che provavo fosse il non sentirmi a casa dove, dopotutto, la mia casa c’era? E cos’era quella paura che sentivo, il timore di non riuscire a trovare il mio posto o la convinzione che quel posto non esistesse?
Ai fianchi del viale che stavo percorrendo gli alberi erano spogli, e il fumo della sigaretta si confondeva con la condensa del mio respiro. L’inverno aveva la capacità di spegnermi fuori e accendermi dentro. Ribollivo d’ispirazione. Sentivo crescere dentro di me migliaia di nuove storie, decine di migliaia di vite e di amori, morti, delusioni, e gioie. La mia vita non mi bastava, esplodevo dal desiderio di viverle tutte. Non potendolo realizzare, scrivevo, scrivevo senza mai fermarmi, componendo una parola e pensandone cento. Questa situazione mi consumava e mi cambiava, quasi il mondo fosse all’improvviso impazzito.