"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 23 agosto 2011

30° Capitolo

Una conversazione

D’un tratto provai una pietà assoluta per quella donna che a suo modo mi aveva tanto amato e che io non ero stato capace di ricambiare appieno. Ero un essere ripugnante, e probabilmente in quel momento lo pensava anche Chris.
– Io non…
– Tu sei strano, Charlie. Non so se in senso buono o no. Il fatto è che nessuno può capire cosa c’è dentro la tua testa se prima non lo capisci tu. Devi farci i conti, devi affrontarlo.
Anche Chris si accese una sigaretta, ma io rifiutai.
– Non sono più ricca come una volta, Charlie. Ho a malapena i soldi per pagare Thomas. Mi sono messa a giocare d’azzardo dopo che te ne sei andato, ma non ho avuto molta fortuna. Chi è il tuo amico?
– Mi chiamo Christopher, signora Anderson – disse Chris porgendole le mano.
Lei gliela strinse senza troppo entusiasmo. – Cosa ci fate a New York?
Chris non rispose e guardò me.
– Oh, – fece Bianca, – il nostro Charlie ha ripreso a viaggiare per trovare la sua ragione di vita. Non è così? Entrambe le volte sei finito dritto da me, non è buffo? Ma adesso non è più come l’altra volta. Adesso io sono stanca e tanto, tanto arrabbiata con te. Se non urlo è perché ho perso anche la forza di urlare, Charlie. Ho perso la speranza. Tu che viaggi dovresti saperlo meglio di me. Senza speranza non siamo niente.
Vidi quello che mai mi sarei aspettato di vedere: una lacrima nell’angolino del suo occhio sinistro. Quella lacrima urlava molto di più di quanto lei avrebbe immaginato.
– Io volevo chiederti scusa – dissi infine.
Bianca ridacchiò, ma non c’era la minima traccia di felicità nella sua risata. – A volte si fanno cose che non potranno mai essere perdonate, nemmeno se vivessimo cento vite. Lo sai cos’ho pensato quando hanno ucciso Kennedy? Ho pensato che nonostante non me ne fregasse nulla di lui, avrei voluto essere con te in quel momento. Viverlo con te. Oppure quando c’era il rischio dei missili nucleari. Avevo un disperato bisogno di spettinarti i capelli, Charlie. Ma tu non c’eri. E io ero sola. L’amore porta a esseri soli.
– Io sono sempre stato solo – sussurrai quasi impercettibilmente. – Anche se Chris c’è sempre stato, e non solo lui, io sono sempre stato solo. Ancora non so se è una cosa normale per noi adolescenti, ma ho il sospetto che anche tantissimi adulti si sentano così. Soli anche in mezzo alla gente che ci vuole bene. Prova a pensare a una persona ubriaca. Se ci pensi bene ti renderai conto che dopotutto è triste, e anche un po’ deprimente. E adesso pensa a una persona normale, una qualsiasi; di quelle che incontri quando vai a fare la spesa o prendi il treno. A me mettono tristezza entrambe, non so cosa farci. Se devo essere sincero è proprio la gente che mi deprime.
Ci un momento di silenzio mentre mi accorsi che la luce stava diminuendo e presto sarebbe stata sera. Non c’erano luci accese nel salotto. Solo le sigarette di Bianca e Chris risaltavano nella penombra.
– Forse è il destino dei cuori spezzati continuare a spezzarsi – disse Bianca. – Tu non sai niente del mio passato, né mi hai mai chiesto qualcosa. E hai fatto bene, perché non te l’avrei detto allora e non te lo dirò nemmeno adesso. Sappi però che quando te ne sei andato mi hai spezzata per sempre e dubito che qualcuno potrà mai riaggiustarmi.
Fui sul punto di piangere anch’io. Quant’ero debole di fronte a lei! Quanto l’amavo! L’avrei sempre amata, non importa cosa sarebbe successo. Il mondo avrebbe potuto capovolgersi, avremmo camminato sul cielo e osservato la terra sopra le nostre teste, ma io l’avrei sempre amata. E non avrei amato il suo ricordo, avrei amato lei e solo lei.
– Non volevo – dissi solo.
– Nessuno vuole mai ferire, Charlie. Ma succede lo stesso.
– Ha fatto male a me tanto quanto ne ha fatto a te – provai a replicare.
Lei scosse la testa. – Io sono chiaramente caduta in disgrazia, Charlie. Tu no, hai solo vent’anni e sei ancora in tempo per dimenticare tutto.
– Non posso dimenticare.
– Ma lo farai. Per il mio e per il tuo bene.
– Come puoi dire che dimenticare è un bene?
– Perché ricordare ci porterà solo sofferenza. Vuoi essere triste per tutta la vita, Charlie? È evidente che tu non sei mai stato felice, che anche quando ti sei ritenuto tale non lo sei stato veramente.
– Io sognavo l’Islanda, una volta. Credevo che lì mi sarei sentito a casa.
Mi guardò sorpresa. – Non capisco.
– Nemmeno io, è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi.
– Io credo – e infuse una tale serietà a quelle parole che non potei fare a meno di pendere dalle sue labbra – che sia finalmente ora per te di cambiare strada, di smetterla di fuggire da casa, da chi ti ama e ti vuole bene. Io non so se Dio esiste, né mi interessa saperlo. Non penso ci sia solo un essere umano su questo pianeta degno di finire in paradiso. Però sono sicuro che se esiste Dio non è perfetto, perché il mondo fa schifo, e non lo dico a causa delle mie delusioni, lo dico perché è chiaro che vivere qui, più che vivere e basta, è la cosa più difficile della nostra vita. Diffida di chi ti dice di sognare, Charlie. Non esiste seguire i propri sogni, non esistono sogni. Essere buono non ti porterà felicità. Essere te stesso invece sì, essere l’insieme di odio, amore, speranza e tristezza che c’è in ognuno di noi, quello potrà farti essere felice. Tutti noi siamo capaci di odiare. E se c’è da odiare, ben venga. L’errore sarebbe sopprimere l’odio. Lasciandolo uscire diventiamo più noi stessi di quanto tu possa renderti conto.
Non sapevo cosa risponderle.
– Thomas, – disse Bianca, – potete lasciarci un attimo soli?
Io lanciai un’occhiata a Chris. Il mio amico mi annuì e se ne andò insieme alla guardia del corpo.
Bianca si alzò dalla sua poltrona e venne sul divanetto di fianco a me. Mi appoggiò la testa alla spalla e chiuse gli occhi.
– Lasciami così per dieci minuti – mormorò. – Non chiedo altro.

***
Quando si scostò mi prese il mento con la mano destra e mi guardò negli occhi. E questa volta fu lei a baciarmi. Fu il primo bacio tra di noi in cui lei non si comportò com’era suo solito. Mi baciò lentamente, quasi con paura di farmi del male, quasi scusandosi di quello che stava facendo.
Ma come potevo scusarla se era l’unica persona che potesse darmi quei pochi istanti di felicità che per tre anni non avevo avuto?
– Vieni via con me – le dissi.
– Non posso.
– Vieni via lo stesso.
– Non posso.
– Neanche io posso lasciarti ancora una volta. Neanche io posso.
La abbracciai piangendo, e lei rispose all’abbraccio. Mi strinse come se fosse mia madre e non la donna che amavo.

29° Capitolo

Giovani per sempre

Se ci fosse stato un qualche modo per sostituire la mia vita con qualcuno che è morto giovanissimo, magari con un viso dolce di quelli che piacciono alla gente, probabilmente l’avrei fatto. Non è che mi considerassi meno importante degli altri o che ne so, ma avevo sempre avuto l’impressione che io facessi più fatica di tutti a vivere.
Ho provato tante volte a dirmi che anch’io valgo qualcosa. Ma poi vedo la gente felice, ma felice per davvero, e mi chiedo come sia possibile divertirsi così tanto a questo mondo. Io non ci riesco. Ho fatto del mio meglio per riuscirci, ho sorriso quando non volevo e fatto complimenti che non avevo nessuna voglia di fare. Ma ho solo peggiorato le cose.
Vorrei solo combattere per qualcosa. È questo che fanno i giovani. Dedicano la loro forza, che è fresca ed estranea all’influenza delle vecchie generazioni, alla lotta per una causa. Se però non ci sono cause per le quali combattere, cosa fare? Il fuoco arde nei rivoluzionari, non nei codardi. Mi consideravo un codardo? Difficile a dirsi. Di certo non ero coraggioso. Mi chiedevo come qualcuno potesse esserlo, coraggioso.
Era forse per codardia che avevo detto a Chris che intendevo ripartire?
– Vuoi parlare di qualcosa, Charlie? – mi chiese dopo due ore di viaggio.
– Arrivati a questo punto – risposi piano – non c’è rimasto molto da dire.
– Non pensi che se tutto fosse diverso, saremmo più felici? Intendo, se fossimo più liberi. Ti ricordi due o tre anni fa, quando pioveva, e siamo usciti e ci siamo coperti di fango, saltando nelle pozzanghere?
Annuii.
– Bisognerebbe sempre sentirsi come quella notte. Io ero felice, e adesso essere felice è un lusso che non posso permettermi.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Cercavo di essere felice.
Come tutti?
C’è qualcos’altro che possiamo fare, oltre a provare ad essere felici?

Dopo due giorni eravamo a New York. La grande mela ci apparve bianca, coperta di neve, ma immensa come solo le grandi città sanno essere. Grandi città per persone tutte piccole. Alti grattacieli per osservarci in miniatura durante il quotidiano movimento che ci porta a scuola, al lavoro, a casa o da un amico. Era questa la grande America, l’incredibile America. Un posto bello e stupido, costruito male, sul sangue e sull’ipocrisia. Ma sia noi che gli stranieri avremmo continuato a vederla come un idilliaco paradiso.
Quando avevo nove anni, mio padre mi disse che non bisogna vedere le città come la riuscita impresa dell’uomo di convivere con altri uomini civilmente, ma come la necessità di compagnia dettata da un istinto animale e dalla solitudine.
Spendemmo qualche dollaro per un albergo non proprio eccellente e aspettammo in silenzio. Cosa, non lo sapevamo nemmeno noi. Credo che nessuno lo sapesse.
Quando mi chiamarono nella hall per dirmi che c’era una biglietto per me, inizialmente immaginai che fosse dei miei genitori. Invece non il nome non v’era scritto, non fuori almeno. Recava solo un «Per Charlie Collins». La aprii perplesso e iniziai a leggere.

Charlie, mi sei mancato.

Bianca.

Quelle quattro parole messe in croce seguite da un indirizzo. Quindi lei viveva a New York, quindi lei mi aveva visto. In un attimo mi si aprirono davanti miliardi di possibilità, di immagini. Fu come rinascere un’altra volta. Sapere che lei c’era. Che non se n’era andata per sempre dalla mia vita. La certezza di una mancanza riempita con le parole. La voglia di altro suo bacio. Tutto ciò che una sinfonia di Schumann avrebbe potuto dirmi, l’avrebbe detto Bianca spezzando a metà la sinfonia, e ne avremmo poi osservati insieme, tenendoci la mano, i pezzi rotti sparsi per il mondo. Lo scopo era concepire, ammirare, sognare Bianca, amarla più di ogni cosa esistente e inesistente nell’universo, più del concetto stesso di amore. Amare l’essere innamorati è fin troppo semplice. Ci fa sentire bene. Tuttavia amare la persona e non il sentimento, questo mi prefiggevo io, alla vista di quelle parole che erano forse un invito ad andare da lei, forse un consiglio di starle lontano, ma che esprimevano perfettamente quanto fossero stati vuoti quegli anni senza di lei, senza i suoi capelli biondi e le sue labbra a volte laccate a volte no, il vestito rosso e l’appartamento infernale, le sfuriate che in fondo in fondo concedevano dolcezza nascosta e soppressa, il tormento che mi prendeva quando c’era lei. E lei c’era sempre.
– Vacci – sentii la voce di Chris alle mie spalle. – Forse è per questo che sei venuto qui, anche se non lo sapevi.
– Vieni con me – gli dissi.

Fu Thomas ad aprirci la porta. Mi sembrava passata un’eternità da quelle ultime mattine a Denver in cui andavamo insieme a prendere il Times per Bianca.
– Lei dov’è? – chiesi, senza preamboli.
Ci condusse in salotto.
Bianca era lì, seduta su una poltrona a gambe accavallate che fumava una sigaretta. La prima cosa che pensai fu che il salotto non era rosso, ma grigio, e terribilmente triste. Poi incrociai il suo sguardo. Lo vidi accesso, furioso, trattenuto a stento. Gli occhi di lei si posarono su Chris e si calmarono un poco. Con un movimento quasi impercettibile della testa ci indicò un divanetto di fronte a lei.
Sebbene lei fosse la solita donna rossa che avevo conosciuto, c’era qualcosa nel suo aspetto che mostrava decadenza, fallimento. Nei suoi occhi verdi c’era un luccichio d’interesse, forse a causa mia, ma anche un velo opaco, quasi di muta rassegnazione.
– Un giorno, – cominciò a dire, fissando nel vuoto, – quando ero molto piccola, mio nonno mi disse che un formicaio è come una città. Che gli esseri umani e le formiche sono la stessa cosa. Tu le vedi lì, piccole, quasi minuscole, indaffarate a costruire, a raccogliere pane, o anche solo a muoversi, si muovono sempre, lo sai? Poi arriva qualcuno e distrugge il formicaio. Ma alcune scappano e ne creano un altro da un’altra parte. Forse uno più grande, così quando verrà distrutto anche quello, ne moriranno di più. Allora ho risposto a mio nonno che gli esseri umani possono schiacciare le formiche ma le formiche non possono schiacciare gli esseri umani. Mi ha detto che è proprio questo il problema. Le formiche si limitano a creare, noi il più delle volte vogliamo solo distruggere. Noi distruggiamo per poi dare vita a qualcosa di ancora più immenso. È vero che senza le rovine non si può ricostruire, ma a volte mi chiedo se non ci piacciano di più proprio le rovine. E la vita è una rovina. Non c’è niente da costruire. C’è solo da distruggere.
Fece una paura durante la quale tentai di guardarla negli occhi.
– Tu mi hai distrutto, Charlie. Mi hai distrutto e te ne sei andato, proprio come si fa con una formica.

giovedì 18 agosto 2011

28° Capitolo

Come una candela

L’estate andò lentamente scemando. Le sue ultime giornate furono torride, afose. Cominciarono a smorzarsi le risate, la spiaggia si riempì come se i giovani volessero sfruttarla al meglio prima di tornare a scuola, i negozi riaprirono uno dopo l’altro. Le feste diminuirono drasticamente, si riprese a stare in casa a leggere o a sentire musica. La televisione la evitavo ancora, non volevo saperne. Le nuove generazioni sarebbero cresciute solo con quella, temevo, e una cosa così potente era capace di influenzare la mentalità di un numero incalcolabile di persone. Era ancora possibile leggere un libro senza pensare a una pubblicità, nel frattempo?
Nessuno sospettava cosa sarebbe successo quell’anno. Il 22 novembre a mezzogiorno ero a scuola. Con me in classe c’era Chris. Non avevamo più il signor Johnson ed eravamo con ra-gazzi di due anni più piccoli. Quando all’una uscimmo da scuola, ancora nessuno ci aveva detto niente. Quel giorno ero già d’accordo coi miei che avrei mangiato da Chris, quindi facemmo la insieme la strada verso casa sua.
Ci aprì la piccola Mary. Sembrava agitata, scossa. Il mio amico capì subito che c’era qualcosa che non andava.
– Chris! – fece la bambina. – Hanno ammazzato il presidente!

Alla televisione non c’era altro. Si vedeva Kennedy vestito per la visita ufficiale a Dallas ricevere le pallottole nel petto e accasciarsi. Lo vedevamo, lo sentivamo, e continuava a morire. Nelle nostre menti non smetteva un solo attimo.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy? Chiedeva la gente. Ero a scuola, ero al lavoro. Ero a casa a bere un thè caldo, a leggere un libro. Stavo ascoltando Schubert sdraiato sul letto. Stavo pensando.
Ma Kennedy l’avevano ucciso lo stesso, non importava che cosa la gente stesse facendo in quel momento.
Continuarono a ucciderlo per settimane intere. Rivedevamo la scena come se fosse la prima volta. Si frantumavano le nostre speranze di una buona America.
Quando divenne presidente Johnson, Chris festeggiò la notizia ubriacandosi e vomitando.
– Che schifo – fu il suo commento. – Questo è un guerrafondaio del cazzo.
– È un repubblicano – replicai.
– Non cambia niente. Ha fatto la guerra da soldato e la farà anche da presidente.
Venne un altro Natale e un altro Capodanno. Mia cugina scese da San Francisco e ancora una volta andammo in Texas per passare le vacanze nella casa di zia Molly. Wendy guidava, io ero davanti con lei e Alan dietro. Chris e Julia nell’auto del signor Matthew.
– Se hanno ucciso il presidente possono uccidere tutti – mi disse quando fummo in viaggio. – Non gliene frega niente della gente a quelli là, vedrai se non ho ragione.
Sperai che non ce l’avesse, ma non avevo molta fiducia nella mia speranza. Non ne avevo mai avuta molta.
– Quand’è che te la trovi una ragazza? – mi chiese poi.
Non risposi. Avrei dovuto dire che dopo Bianca, non sarei più riuscito a innamorarmi di nessun'altra. Ancora speravo di rivederla, nelle notti che la luna era piena e la sua luce filtrava dalle persiane di camera mia. Quella donna aveva rubato la mia capacità d’amare, se n’era impossessata. E ora io ero con lei e sempre con lei, tradirla era impensabile.
– Come non detto, non te la trovi.
Desiderai che fossimo tutti muti. Le parole rovinavano sempre ogni cosa.

Passammo il Capodanno a Houston. La città era gremita di gente e coperta di neve. I bambini giocavano a palle di neve nelle piazze, nelle strade e nei parchi. Dagli appartamenti dei palazzi usciva una luce calda, soffusa. Mi immaginavo le famiglie riunite a mangiare, alcune avrebbero detto una preghiera per il cibo, altre avrebbero aspettato l’arrivo dei parenti più lontani, si sarebbero abbracciati, stretti le mani. Avrebbero raccontato barzellette, cercando di dimenticare Kennedy.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Festeggiavo Capodanno. Hanno ucciso Kennedy?
Quanti Capodanni festeggi?
Sembrava che gli americani avessero tanto da dirsi. Le risate passavano attraverso i vetri, riscaldando persino le vie innevate. Nessuno avrebbe mai detto che, pur con quell’apparente felicità e tutta quella voglia di parlare, gli americani in realtà non stessero dicendo proprio nulla.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Ero in bagno. Vomitavo.
Perché vomitavi?
Perché avevo schifo, schifo, schifo.
L’albergo dove stavamo stappò decine di spumanti, a mezzanotte. Anche noi stappammo la nostra.
Ma che cosa stavamo festeggiando? Il nuovo anno? Iniziai a pensare che portasse male fare festa all’inizio di ogni anno. Pensai questo soprattutto dopo aver visto quello che sarebbe accaduto di lì in avanti. La gente però continuava a voler far festa, a voler divertirsi.
Due giorni dopo, quando tornammo sulla costa, presi Chris in disparte e gli dissi:
– Io riparto. Nel ’61, prima che venisse a prendermi Wendy, prima ancora che incontrassi Bianca… stavo andando a New York. È ora di riprendere. Io non ce la faccio più a stare qua. Mi sembra tutto maledettamente triste e uguale… a Los Angeles feci l’errore di non dirti che partivo, oggi sto rimediando. Se vuoi venire con me, vieni. Mi dispiace abbandonare tutto ancora una volta… ora che avevamo ripreso la scuola, i contatti, ora che stavamo crescendo… ma davvero io non ce la faccio. Sto soffocando, Chris.
Chris mi prese la mano e la appoggiò dove si trovava il mio cuore. – Non capisci, Charlie, che è questa la tua casa?
Poi, sempre la mia stessa mano, la mise sul suo, di cuore. – E questa è la mia. In tutte e due c’è abbastanza posto per non esser costretti a partire.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi, ma le trattenni. – Io devo partire, Chris.

Julia sapeva che ero io l’artefice della partenza di Chris. Il mio amico non aveva intenzione di lasciarmi, ma non voleva che la sua ragazza rinunciasse agli studi del college per lui.
– Tornerò, come sono sempre tornato – le disse.
Wendy, non commentò, si limitò ad abbracciarmi e ad augurarmi buona fortuna.
Alan mi disse: – Papà e mamma ti ammazzerebbero, se potessero. Però ti vogliono bene lo stesso.
E anche lui mi voleva bene, anche se non lo avrebbe mai ammesso di fronte a me.
Partimmo alla sera, in mezzo a una nevicata.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
A giocare con la neve.
– Non staremo via come la prima volta – dissi a Chris mentre accendeva il motore. – Sento che sono vicino a ciò che cerco. Il tempo mi darà la risposta.
Lui non rispose.
– Forse non dovevo dirtelo che partivo – mormorai.
Si voltò verso di me e fece un sorriso stanco. – Anche se stiamo crescendo, anche se… – s’interruppe e bestemmiò. – Vaffanculo. La vita ti toglie tutto, anche i legami più stretti.
Poi, come se fosse una cosa normale, disse: – È veramente tutto uno schifo.

mercoledì 17 agosto 2011

27° Capitolo

Fragile

Dopo quell’episodio, che mi sconvolse più di quanto osavo ammettere a me stesso, non sapevo se tornare alla casa con zia Molly. E neanche Chris lo sapeva. Decisi di passare il natale e il capodanno coi miei e di provare a rivivere con serenità la mia cittadina, tornando nei luoghi dove ero solito giocare da bambino.
Feci visita al signor Johnson, che fu di poche parole. M’accolse con un sorriso tirato e parlammo solo per un’oretta.
Si congedò con un:
– Ti auguro ogni fortuna, Charlie Collins. Ne avrai bisogno.
Cercai di non ascoltare le radio e le televisioni. Non volevo sapere cosa succedeva nel mondo e se stavano mandando altri soldati in Vietnam. Per un po’ sembrò ritornare l’allegria. Wendy e zia Molly vennero a Natale e tutto pareva essere tornato alla normalità.
Julia avrebbe di lì a qualche mese terminato gli studi e avrebbe dovuto scegliere un college. In quei giorni niente turbava la quiete, se non i pensieri nascosti nel profondo di ognuno di noi, pensieri inespressi che avrebbero solamente rovinato l’atmosfera di parziale gioia che si era instaurata.
A Capodanno Chris si ubriacò esageratamente, nonostante fossimo in famiglia (io, i miei genitori e Alan eravamo ospiti del signor Matthew). Quando chiese di scusarlo che doveva andare a prendere una boccata d’aria, io lo seguii. In giardino rovesciò la cena sulla neve. Io gli tenni la testa.
– Tutto a posto? – gli chiesi.
– No. Tutto a posto un cazzo, Charlie. Un cazzo.
– Cosa c’è che non va?
Mi chiese se avessi un fazzoletto per ripulirsi. Rovistai nella tasca della giaccia e ne trovai uno po’ stropicciato.
Mentre glielo porgevo, ripetei la domanda.
– È tutto uno schifo – rispose.
– Cosa è uno schifo?
– Tutto.
Cadde in ginocchio e vomitò ancora.
– Perché ti riduci in questo stato?
Quando si fu ripreso disse: – È una questione di rispetto, Charlie.
– Rispetto per chi?
– Te li ricordi tutti quei discorsi di Johnson sulla rivoluzione americana e sulla guerra?
Risposi che sì, me li ricordavo.
– Quel’imbecille aveva ragione. L’abbiamo chiusa noi la guerra, le abbiamo sganciate noi quelle due bombe. Ho letto la testimonianza di una bambina che è sopravvissuta a Hiroshima…
Vomitò ancora, questa volta solo schiuma.
Lo aiutai a rialzarsi. Non riusciva a guardarmi negli occhi.
– Lo stavamo per rifare, Charlie – disse infine. – Stavamo per rifarlo. Johnson ce l’aveva detto solo tre anni fa… e noi le volevamo sganciare ancora quelle bombe. Gli americani! Adesso capisco come ti sentivi… non si può essere qualcuno in questo paese. Per essere qualcuno bisogna anche essere orgogliosi. Ma io ho schifo, solo schifo di quello che vedo.
– Per questo ti ubriachi sempre, Chris?
Avevo il cuore colmo di tristezza. Io che pensavo sempre, in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che alle parole del mio amico.
Lui annuì. – Ho troppo schifo.
– Chris, guardami negli occhi.
Lo fece. Aveva delle vene rotte, e sembrava inquietante alla debole luce del lampione della strada che fiancheggiava la casa.
– Ho schifo anch’io – dissi.
– È il minimo.
– Ascoltami, Chris… guardami! Siamo condannati alla guerra da quando esistiamo… non puoi lasciarti andare perché pensi che non ci sia scampo. Devi fare qualcosa, qualunque cosa. Tieniti occupato. Hai Julia, è una bellissima ragazza. Hai me… spero di valere qualcosa come amico. Non è facile se penso a quanto vali tu… guardami, Chris!
– Ho schifo – ripeté.
Lo lasciai andare e rientrai in casa. Nessuno mi chiese perché non fosse con me. Dopo qualche minuto rientrò anche lui. Cinque minuti dopo la mezzanotte, mentre l’intera città festeggiava ingenuamente il 1963, Chris venne da me e mi chiese scusa.
– Non è niente – risposi.

Dopo Capodanno io tornai a scuola, e Chris con me. Avevamo perso due anni, ma non ne facevamo un grande problema. Ora che eravamo entrambi diciottenni, e anche registrati per la leva obbligatoria.
Julia veniva spesso a casa mia, anche senza Chris. Mia madre le lasciava usare il pianoforte, e lei si metteva lì a suonare mentre aspettava che il suo fidanzato arrivasse.
Come ogni anno arrivò la primavera. Si colorarono gli alberi, i prati. Iniziò a far caldo. Le giacche si appendevano negli armadi e lì le si lasciavano fino a che non fosse tornato l’autunno. Si usciva in strada a giocare a calcio, si andava in bici a scuola. Chris passava a casa di Julia, le dava un bacio e lei montava sulla sua bici, poi passavano da me e insieme andavamo a scuola.
Tornando ci fermavamo a prendere dolci nei negozi. Andavamo a mangiarli nei giardini pubblici, dove passavamo il pomeriggio a parlare e a studiare. Poi arrivò l’estate e ricomincia-rono le feste. Ogni tanto mentre cenavamo i miei mi dicevano che stavano mandando altre centinaia di soldati in Vietnam, ma io scrollavo le spalle e mi concentravo sul presente.
Non era facile. Ancora germogliava in me l’idea di partire, e questa volta per sempre. Poi capivo che non era il momento, ma che presto sarebbe venuto.
Con le feste e l’estate si stava fuori anche tutta notte, e si rientrava di mattina. Poi si dormiva fino a sera o non si dormiva affatto, un amico o un’amica venivano a svegliarti alle nove o alle dieci e si andava a prendere un caffè e a fumare qualche sigaretta. A volte venivano dei gruppi rock a suonare vicino alla spiaggia e c’erano ancora volte in cui Chris esagerava col bere, anche se piano piano andò migliorando.
– Stagli dietro – mi disse Julia una sera, in privato. – Certe volte non sa quello che fa.
– Forse lo sa meglio di me e te – risposi.
Dopo mezzanotte si usciva di casa e proprio in quell’ora si iniziavano a sentire le risate invadere le vie di tutta la città, i ragazzi e le ragazze si rincorrevano, c’era un via vai unico di biciclette, a volte modo, raramente macchine. Alla spiaggia c’era sempre qualcuno, certuni ci dormivano come facevamo noi in Texas, ma dormire era una parola grossa. Anche se eri stanco, alle cinque o alle sei del mattino, non potevi dire che andavi a dormire, perché nessuno o quasi vi andava, e saresti rimasto escluso. Persino quando non c’era niente da fare, si faceva qualcosa. C’erano stelle da guardare, discorsi da fare, bocche da baciare, amicizie che andavano consolidate con pacche sulla spalla e lievi buffetti sulle guancie, c’era da ridere e scherzare, in attesa che il mondo crollasse.
E invece stavamo solo crescendo. Si creava una distanza, ancora poco tangibile, tra di noi. Ognuno si concentrava più sui propri pensieri, sul proprio futuro. Stavamo maturando insieme ai frutti che più tardavano, insieme agli amori estivi e deboli, con il sorriso sul volto e la tristezza nel cuore.

martedì 16 agosto 2011

26° Capitolo

Sono solo ragazzi

Qui finisce il periodo movimentato della mia adolescenza, il periodo dell’amore e del viaggio, della tristezza e della felicità. Inizia il periodo più oscuro, quello in cui le cose iniziarono a precipitare; il periodo durante il quale non avevo tempo per pensare all’Islanda né ai miei genitori. A me e ai miei amici successero le peggiori cose che potrebbero succedere a dei ragazzi. E solo perché eravamo ragazzi.

Quando nella villa al mare rimanemmo solo io, Chris e Wendy, le giornate presero a passare più calme, tranquille. Scrissi tanto, in quei giorni. Wendy si concentrò sullo studio e Chris sulla pittura.
Il mondo sembrava essersi fermato, sembrava essere arrivata la pace interiore e esteriore che tanto agognavo. Non mi resi conto che era solo il silenzio antecedente alla tempesta.
Quando venne dicembre, Wendy tornò a San Francisco per dare l’esame. Chris rimase con me, ma restò sottinteso che per Natale avremmo dovuto fare qualcosa. I suoi genitori l’avrebbero voluto a casa, ma lui mi disse che non si sarebbe mosso senza di me.
– So che non vuoi tornare. Piuttosto stiamo qui io e te da soli. Il Natale è solo una festa.
Il Natale sarà stato anche solo una festa, ma intanto si avvicinava il 1962 e per me erano quasi sei mesi ch’ero lì senza muovermi, senza decidere cosa fare.
– Non c’è fretta, Charlie – mi diceva Chris. – Non ci corre dietro nessuno. Abbiamo tutto il tempo del mondo… pensa bene a ciò che vuoi fare.
Sbagliava, il tempo non c’era. Non c’era mai stato, ma negli anni sessanta mancava particolarmente. Ancora non ce ne rendevamo conto.
Passò Natale; io e Chris fummo gli unici abitanti nella villa al mare. Parlammo tanto e ridemmo di vecchi ricordi, proprio come due amici dovrebbero fare. Non ricordo un solo litigio con lui, in quel periodo. Ora che ci penso, l’ultimo era stato quando eravamo entrambi ancora a casa e gli avevo detto che volevo andarmene.
Dopo Natale, Wendy Julia e Alan vennero a passare una settimana con noi, approfittando delle vacanze. Chris e Julia furono introvabili in quella settimana. Se ne stavano sempre soli, appartati, vicini. Si baciavano, a occhi chiusi, in silenzio, lui il mondo di lei e lei il mondo di lui, unici sopravvissuti – così credevano – in un universo senza più amore.
Trascorremmo un capodanno felice, tutto sommato. Se si esclude quello del ’63, che andò così e così, fu l’ultimo capodanno felice che passammo tutti insieme. Allora non lo sapevo, o avrei cercato di divertirmi di più, di fare altro.
Vivevamo grazie ai soldi che ci mandavano i nostri genitori e ai quadri che Chris riusciva a vendere a Houston. Tuttavia comprendevamo alla perfezione che non si poteva continuare così per sempre.
Chris tornò a casa. Lo convinsi io a farlo. Lui e Wendy si alternarono per un anno a farmi compagnia, tranne l’estate. Lì c’eravamo tutti e cinque ancora una volta, ma fu comunque un’estate diversa, sotto certi punti di vista. Un’estate più triste.
Alan venne a dirmi che mio padre e mia madre quasi avevano dimenticato chi fossi. Gli mancavo ancora, ma non faceva più male. Stavo diventando un estraneo a me stesso e agli altri. Dalla radio apprendemmo che il numero di militari in Vietnam era salito a 12.000.
Seguirono giorni in cui qualcuno, alla mattina, si recava sempre a Houston per fare incetta di giornali. Ogni dettaglio mi sembrava lontano, confuso, mentre gli altri erano chiaramente più preoccupati.
Come già detto, quell’estate fu cupa. Non mancarono certo le notti in spiaggia e i giorni felici che tanto avevano caratterizzato la precedente, ma si sentiva nell’aria che qualcosa stava cambiando, e non in bene.
– Non preoccupatevi, – ci diceva mia cugina, – Non succederà niente. Vedrete che Kennedy sistemerà le cose. Non ci sarà un’altra guerra.
Quando iniziò la crisi di Cuba, il Vietnam passò in secondo piano. Chris si trovava in California, il quindici ottobre. Appena la crisi cominciò, corse da me. Wendy mi scrisse una lettera. Non riusciva a studiare, era terrorizzata. Mi pensava tanto e mi abbracciava con tutto il cuore, qualunque cosa sarebbe successa.
Alan preferì telefonarmi e io parlai con i miei genitori, entrambi in lacrime. Mi implorarono di tornare, di farlo per loro. Non volevano correre il rischio di morire senza mai più rivedermi. Le loro parole mischiate al pianto, e Chris, che insistette fermamente, mi convinsero. Sarei tornato a casa finché la crisi non fosse cessata.
Il mio amico, per tutto il tragitto, non fece altro che ripetere, cupo: – Qui ci ammazzano tutti, Charlie. Tutti.
Fu un viaggio senza soste, perché i missili potevano venir lanciati da un momento all’altro. Il venti ottobre ero a casa.
Abbracciai i miei genitori, cercando di rimanere freddo, distaccato, ma non ci riuscii. Mi si sciolse il cuore, e prima che me ne rendessi conto, dentro di me seppi che ero finalmente tornato a casa. Avrebbe dovuto saperlo il mondo intero. Pensavo che fosse un evento incredibile, da zittire tutti per la sorpresa. E invece non fu così, a momenti dimenticavo che la gente temeva di star vivendo i suoi ultimi giorni.
Andai anche a casa di Chris, e salutai con gioia la piccola Mary.
– Sono sempre più belli i tuoi capelli – disse la bambina, con un velo di tristezza negli occhi. – Ma anche tu sei bello, Charlie. Sono felice che tu sia tornato.
E piccola, tenera com’era, mi abbracciò stretto senza dare a intendere che volesse lasciarmi.
Mi chiesi come fosse possibile che chi avrebbe deciso delle nostre vite non tenesse in considerazione le bambine come la piccola Mary? Con che coraggio avrebbero lanciato i missili, avendo in mente la piccola Mary? Come avrebbero potuto guardarsi allo specchio con la coscienza a posto, prima di andare a dormire?
Gli otto giorni che trascorsi a casa durante la crisi, li passai un po’ con i miei genitori e mio fratello e un po’ con Chris. Soprattutto con Chris. Passavamo le ore davanti alla televisione ad aspettare che ci dicessero che saremmo morti. Vedevamo Kennedy, e avremmo voluto che ci dicesse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene. Ci dicono sempre che andrà tutto bene anche quando sanno benissimo che è la più grande delle bugie.
Il giorno più tremendo, il penultimo giorno di crisi, vidi Chris abbracciato a Julia che piangeva di rabbia, adirato come non l’avevo mai visto. Si mangiava le unghie, aveva le occhiaie, non dormiva quasi niente. Quando l’aereo di ricognizione statunitense venne abbattuto su Cuba, tutti trattennero il respiro. In quei minuti mi chiesi per cosa vivessi. Se dopotutto ci fosse veramente qualcosa per cui vivessi. Pensavo a Bianca, alle sue labbra, al suo vestito, al suo appartamento, ai suoi scatti d’ira. Pensavo: non c’è donna nel mondo con lo stesso fascino. Non c’è donna che sia più donna di lei.
Il ventisette ottobre fu la giornata più lunga della vita di molti americani. Ognuno non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. C’era da domandarsi perché mai qualcuno avesse permesso la costruzioni di armi nucleari. È così facile preparare armi che uccideranno intere masse di persone?
– Non capisco – continuava a ripetere Chris.
– Cosa non capisci? – chiedevo, con voce atona.
– Il motivo. Cristo santo, datemi un motivo – disperato, chiedeva una ragione al possibile massacro.
Tesi com’eravamo, quasi non ci rendemmo conto che il giorno dopo la crisi era finita. Non ci furono sospiri liberatori né abbracci, come se il fatto di trovarsi ancora lì, di essere ancora vivi, fosse di per sé più che sufficiente.

lunedì 15 agosto 2011

25° Capitolo

Altri giorni felici

Ai primi di settembre, quando ancora mancavano un paio di settimane alla partenza di Alan e Julia, piovve per qualche giorno.
Ciò non contaminò la nostra spensieratezza, e proseguimmo nell’organizzare attività all’interno della villa. Io e Wendy proponemmo il mostro metodo per giocare a scacchi, quello con il whisky. La proposta fu accolta all’unanimità.
Fu un torneo di scacchi molto pittoresco. Arrivai io in finale con mio fratello; lui cercava di stare concentrato nonostante la testa gli girasse parecchio, infatti gocce di sudore freddo gli colavano dalla fronte. Alla fine vinse lui.
Il resto di quella serata la passammo a raccontarci aneddoti, stravaccati sui divani a fumare. La pioggia martellava incessantemente sul tetto. Io ero l’unico a non parlare, quella sera. Ero in uno di quei momenti in cui avrei voluto dire troppe cose, e non sarei riuscito a spiccare parola. Mi concentrai sulla pioggia. Mi dissi che non era così terribile. Era acqua, dopotutto. Lo ripetei ad alta voce.
– Come? – fece Chris.
– Niente.
La discussione riprese normale, come se non avessi detto niente. Era acqua, dopotutto. Non stavamo forse crescendo? Non erano i bambini quelli che si divertivano a uscire anche con la pioggia, a saltare nelle pozzanghere? Avevamo noi perso quella voglia, la voglia di giocare, la voglia di correre e rincorrersi, una voglia così grande che il cielo potrebbe sparire e noi non ce ne accorgeremmo? Cos’era radicato in noi mentre giocavamo a scacchi? Forse la rinuncia al gioco vero, al gioco pulito, senza alcolici e senza forzature. Mancava quello al mondo. Mancava il gioco. Ancora mi dissi: e se corressimo fuori? E se saltassimo nelle pozzanghere? Il bisogno del divertimento non va distorto col bisogno disperato di compagnia. Io avrei potuto benissimo correre fuori da solo se nessuno avesse voluto seguirmi. E pensavo che le decisioni più importanti non possiamo far altro che prenderle da soli, è inevitabile mentire all’altro, dirgli una mezza verità che accontenta lui e accontenta noi, mentre dentro coviamo il desiderio, l’azione.
Forse se mi fossi alzato Chris mi avrebbe chiesto dove andavo, o forse me l’avrebbe chiesto Julia, o mia cugina, o mio fratello. Wendy avrebbe potuto alzarsi un momento prima per andare in bagno o magari sarebbe stato Alan ad alzarsi, per andare a prendere un maglione perché aveva freddo o a farsi un caffè con limone per attenuare la nausea. Mi arrovellavo sulle decine di migliaia di ipotesi che avrebbero potuto interferire tra me e il giocare – il correre – sotto la pioggia. Ma pensare al forse, alla possibilità remota, non fa altro che nutrire l’idea che in noi dice: non accadrà, non è plausibile.
Mi alzai con un balzo e corsi verso la porta.
Chris esclamò: – Ehi, ma che fai?
– Non si vede? – risposi, già messo fuori casa.
L’acqua mi arrivò addosso con una scarica gelida, che mi inzuppò immediatamente. Solo le luci della casa illuminavano i miei passi.
Quella notte, sotto la pioggia, saltai nelle pozzanghere, felice di aver ritrovato la voglia di giocare. E non feci caso ai miei amici che mi guardavano straniti e che dopo qualche minuto, imbarazzati, decisero di fare lo stesso. Non parlai, nessuno parlò, perché tutti provavano le stesse identiche cose. Le cose non dette sono universali. Non viviamo per rivelare i nostri segreti, ma per custodirli come fossero figli speciali da tenere con noi fino alla fine del nostro mondo.
– Tu sei pazzo – mi disse Chris quando rientrammo, coperti di fango da capo a piedi. Poi però scoppiò a ridere. – Cristo, non mi divertivo così da anni!
Smaltita la sbronza, nelle prime ore del mattino, eravamo ancora sui divani, coperte addosso, a parlare di qualunque cosa ci passasse per la testa.
– Cosa diamine ti passava per la testa? – mi chiese mia cugina per l’ennesima volta.
– Volevo giocare.
– L’ho notato.
– Ho creduto di aver perso la voglia di giocare come giocano i bambini, quando non importa niente se non il gioco. Se ci pensi è triste il periodo in cui pensiamo solo alle ragazze o ai ragazzi. Siamo tristi, noiosi.
Nel debole chiarore del primo mattino vidi qualcuno accen-dersi una sigaretta. Era Chris.
– Tornerai con noi a trovare i tuoi? – mi chiese.
– No – risposi secco.
– Non ho ancora intenzione di tornare.
– Perché?
– Perché sarebbe come un fallimento. E non ho ancora trovato quello che cerco da quando sono partito.
– E cosa cerchi? – intervenne mia cugina.
– La pace. Ma non esiste, temo. Tutti cerchiamo un po’ di pace nella vita, anche senza accorgercene. Prima di averne un po’ dovranno crollare le istituzioni. Dovrà crollare la chiesa e la sua religione, dovrà crollare lo stato capitalista e sfruttatore, dovrà crollare la famiglia, la scuola… tutto ciò che limita il pensiero, la libertà di scelta. Quando non ci sarà più nemmeno una di queste cose, allora potremmo dare un senso alle parole pace e libertà. Quando nessun insegnante imporrà il proprio pensiero, quando non un genitore farà battezzare suo figlio nell’età in cui ancora non capisce niente, quando la gente smetterà di essere succube dei vestiti firmati, delle grandi comodità. Allora, forse, allargheremo le braccia, alzeremo gli occhi al cielo, vedremo per la prima volta che è blu e il blu è bellissimo, e chiudendo gli occhi urleremo: siamo liberi!
– Si sta facendo giorno… – commentò Julia.
– Si fa giorno ogni mattina, si fa giorno anche in altri paesi. Non è una cosa nuova, il fatto che si stia facendo giorno – risposi.
Wendy si alzò. – Faccio un thè caldo.
Qualche minuto dopo ero in piedi davanti alla finestra a guardare l’alba, la coperta sulle spalle, la tazza di thè fumante in mano.
Le nuvole si erano un po’ diradate e si vedeva qualche raggio di sole filtrare nella pioggia sempre più debole.
Pensavo a che avrei fatto a dicembre. Pensavo al mio com-pleanno imminente, a ottobre, che avrei festeggiato con Chris e Wendy. Sentivo i miei diciassette – quasi diciotto – anni pe-sarmi addosso come un macigno, e mi chiedevo, stupito, se ogni ragazzo della mia età si sentisse come me: incapace di tornare e terrorizzato di partire.
Il mondo avrebbe dovuto essere governato e abitato da soli ragazzi e ragazze. Loro non sono ancora contaminati dall’ambizione come gli adulti, e nemmeno hanno in testa solo il gioco come i bambini. Gli adolescenti, con i loro problemi che esistono da quando il mondo ha avuto inizio, sono perfetti per costruire un nuovo ordine sociale dove la persone finalmente si rispettano fra di loro. Sono i giovani, ti dicono i politici, che cambieranno il mondo. Ma erano forse giovani anche loro, un tempo? Credevo che crescendo si sarebbe rotto qualcosa di molto importante, di irreparabile. Si rompeva il sorriso, la gioia. Si rompevano le difficoltà che tanto imparavamo ad amare. Senza malinconia i ragazzi non saprebbero vivere, non saprebbero amare né lottare. La tristezza diventa il loro scudo nel momento in cui serve.
Al mondo serviva questo. Servivano giovani che rimanessero per sempre giovani.

sabato 13 agosto 2011

24° Capitolo

Giorni felici

Alan lesse parecchi libri in quei due mesi che trascorse con noi. Lui e Wendy erano quelli che maggiormente dedicavano qualche ora alla lettura. Io, Chris e Julia, invece, passavamo giornate intere sulla spiaggia. Le notti più calde e limpide dormivamo lì tutti e cinque, avvolti in coperte di cotone e illuminati da un fuoco piacevole.
Passavamo la notte in bianco a raccontarci storie (ero soprattutto io a raccontare) e a giocare a scacchi o a fare bagni improvvisati.
Una notte che avevamo bevuto un po’ ed eravamo allegri, raccontai finalmente a Chris di Bianca. Non solo a lui, ovviamente, perché fino a quel momento l’unica che sapeva cos’avevo fatto dopo aver lasciato Los Angeles era Wendy.
– È una donna fuori dal comune – dissi. – Non si può starle vicino senza innamorarsene. Solo che… è un po’ pazza. E credo che prima o poi tornerà a cercarmi e non si darà pace finché non mi avrà trovato.
– Affascinante – biascicò mezzo addormentato mio fratello da sotto un berretto.
– Be’, almeno ti sei svegliato – commentò Chris, sorridendo. – Wendy, passami la birra per favore.
Julia sospirò. – Un’estate così non si dimenticherà in fretta.
Sarebbe stato assolutamente vero, se tutte le estati a venire non fossero state una peggio dell’altra. Avremmo visto le pre-occupazioni del signor Johnson farsi realtà. Il mondo non di-mentica le guerre. Le ripete.
– Mi sembra di poter fare tutto – disse Alan. – Questo posto è bellissimo. È matta zia Molly a non viverci. Cos’è San Francisco in confronto a questo? Cos’è tutto in confronto a questo? Hey, sentite qua – si alzò di scatto. – Lo facciamo a chi arriva primo al mare partendo dalla casa? E poi ci si tuffa.
Chris sbuffò. – Alan, sono mezzo ubriaco.
– E chi se ne frega.
Facemmo la gara e nonostante tutto vinse Chris. In acqua ci schizzammo per un po’, ridendo, poi uscimmo e ci avvolgemmo negli asciugamani. Davanti al fuoco tirai fuori Il Diavolo in corpo di Raymond Radiguet e iniziai a leggere ad alta voce.

Più tardi non riuscivo a dormire. Chris si era appena alzato per vomitare. Poi si sedette sulla riva con la coperta sulle spalle. Mi alzai ben avvolto nella mia e lo raggiunsi.
Mi disse: – Ti rendi conto che da qualche altra parte nel mondo c’è sicuramente qualcuno che sta vomitando perché ubriaco? Altri staranno litigando, quasi riesco a sentirli. Altri ancora facendo l’amore, e forse sono felici. Ma è così ovunque. Mi mette addosso una tristezza enorme.
Chris parlava sotto l’effetto dell’alcol, ma mi preoccupò lo stesso.
– Cosa vuoi dire? – gli chiesi.
– Voglio dire che è terribile come viviamo, se ci pensi. Aspettiamo di morire nella noia più totale, e nel frattempo ammazziamo il tempo con un sacco di cose che vanno dall’ubriacarsi all’avvelenarci con parole di odio quasi mai d’amore. Anche chi si ama finisce spesso per odiarsi, magari senza nemmeno accorgersene. Non è triste?
– Lo è – confermai.
– A volte mi chiedo come è possibile che nel mondo ci siano oltre centinaia di persone che amano nel mio stesso modo. Forse non proprio nello stesso identico preciso modo, ma sicuramente qualcosa di simile, non credi? Poi mi chiedo come fac-ciano quelli come te, quelli che si rendono conto che fa tutto schifo e che cercano lo stesso un pretesto per vivere, se ne vanno… cosa ti dici alla mattina per alzarti, Charlie, per cosa credi che valga la pena di restare qui, su questa terra?
Allargai le braccia. – Tutto questo. A volte mi dico che vale la pena vivere anche solo per sapere che c’è un amico come te che mi aspetta.
Ridacchiò. – Vorrei non crescere, non invecchiare, non dimenticare… ci diciamo che una volta cresciuti non dimenticheremo di quando siamo stati giovani, ma è una bugia. Dimentichiamo eccome, dimentichiamo tutto. Dimenticare è all’origine delle guerre. Dovremmo chiedere scusa ai morti non facendone più, e invece ne facciamo ancora, ancora e ancora, non ci fermiamo mai di farne, c’è da chiedersi se in fondo non ci piaccia. C’è da aver paura.
– Io so cos’è la paura – dissi.
Scosse la testa. – Non credo, Charlie, che tu sappia cos’è la paura. Credo piuttosto che la paura di perdere qualcuno che si ama è forse la più grande e incomprensibile delle paure.
Sentii dei passi avvicinarsi.
– Amore, hai bevuto troppo, vieni a dormire.
Era Julia.
Chris alzò gli occhi. – Non ho sonno – disse, brusco.
Allora Julia, senza rispondere, gli si sedette accanto e gli poggiò la testa sulla spalla.
Insieme rimanemmo a guardare il mare nella notte e la debole luce che la luna proiettava su di esso. Nel silenzio proferimmo più parole di quanto avrei mai potuto immaginare.

L’alba ci colse assonnati, stanchi. Il sole che spunta e ti sveglia quando non sei in casa, coglie sempre impreparati. Piano piano ci svegliammo tutti, e con gli occhi stropicciati e ancora semichiusi restammo a guardare il cielo, sdraiati, cullati dal debole sciabordio delle onde.
Senza dire niente a nessuno mi alzai e andai in casa. Scrissi una lettera a Bianca, ma poi la stracciai a metà. Ci riprovai per dieci volte e sempre finivo col stracciarla. Allora lasciai perdere e andai nella libreria a prendere un disco di classica. Scelsi Chopin. Così, quando gli altri rientrarono, il piano del mio compositore preferito raggiungeva ogni angolo della villa.
– Tu, – mi disse Alan, – faresti tutto mentre suona Chopin.
– Non è difficile fare tutto mentre si ascolta Chopin. Basta chiudere gli occhi.
Si parò di andare a Houston a ballare in qualche sala. L’estate era ancora lunga e le idee erano molte. Tutti e cinque schiacciati nell’auto di zia Molly andammo in città la sera di un sabato sul finire di luglio.
Finimmo come previsto in una sala da ballo a bere qualche bicchiere di vino. Io feci ballare Wendy sulle note di The Swim di Bobby Freeman, mentre Chris lasciava ballare Alan con Julia e ci guardava spanciadosi dal ridere.

Come on, all you swimmers
I'll show you the way
The number one dance in the USA

The name of the dance you did before
Now I'm back to swim some more
Let's swim again

Diedi il cambio a Chris che ballò stupendamente con mia cugina mentre mio fratello continuava a gasarsi di stare ballando in una sala da ballo con una bella ragazza come Julia.
Riscaldati dal vino uscimmo dalla sala e ci vedemmo un film al cinema, film che proprio non ricordo per niente, nemmeno il titolo. Deve essere stata proprio una bella serata, immagino.
Infine corremmo fin fuori Houston e ci stendemmo sui prati deserti a guardare le stelle. Non c’era sera in cui non guardassimo le stelle, quell’estate.