"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

domenica 28 agosto 2011

Nessuno tocchi Freddie - Prologo




– Provi a spostare il cavallo, signorino Friedrich – gli sussurrò il maggiordomo all’orecchio.
Il bambino alzò gli occhi dalla scacchiera e fissò per un istante sua nonna, che non batté ciglio. Pochi riuscivano a sostenere quello sguardo che, seppur giovane, incuteva timore a causa delle iridi di un azzurro chiarissimo. Sua nonna, che lo conosceva da sempre, era una di quei pochi.
– Non suggerire, Jeeves – disse la nonna al maggiordomo. – Freddie è ben capace di vincere da sé.
Tuttavia il bambino accolse il consiglio e spostò il cavallo verso destra, in avanti.
– Scacco matto – sussurrò, impassibile.
La nonna ridacchiò allegramente. Non rideva spesso, di solito era molto severa. Il bambino le voleva bene, e così anche lei; ed essendo entrambe persone austere e serie, per quanto austero possa essere un bambino, insieme riuscivano a divertirsi, sebbene nessun abitante della Città avrebbe condiviso quel particolare tipo di divertimento.
– È quasi ora che tornino i tuoi genitori – commentò l’anziana donna guardando il suo orologio da polso. – Non mi piace che ritardino.
Le rughe sulla sua fronte s’increspavano sempre quando i genitori di Friedrich erano in ritardo. Aveva capelli radi e bianchi, occhi a mandorla e una voce sottile, limpida.
– Un’altra partita? – chiese il bambino.
La nonna scosse la testa. – Devo andare a preparare la cena. Jeeves, pensa tu a Freddie. Se volete giocare voi due, fate pure.
Il maggiordomo, un uomo allampanato sulla cinquantina, si sedette sul divanetto dove un istante prima c’era seduta la nonna e si mise a riposizionare i pezzi sulla scacchiera. Il bambino sedeva su un altro divanetto.
– Ultimamente la nonna è nervosa – disse il bambino con la sua voce atona.
Jeeves sospirò. – A dirle la verità, signorino Friedrich, anche a me sembra nervosa.
Fecero una partita e il bambino vinse ancora. L’espressione sul viso del maggiordomo era eloquente; si sarebbe detto che era palese la vittoria del bambino ancor prima che iniziassero a giocare.
Si trovavano in un salotto arredato sfarzosamente, c’erano mobili d’antiquariato, un pianoforte a coda, vasi e oggetti di cristallo, un grande tappeto in pelle, un grandissimo orologio di vetro appeso a una parete e un tavolino – su cui posava la scacchiera – al centro dei due divanetti. Poltrone imbottite, scaffali stracolmi di libri e il tutto perfettamente in ordine e pulito.
Prima che potessero iniziare la rivincita, si sentì una chiave girare in una serratura qualche stanza più in là, e udirono la voce della nonna dire: – Eccoli, finalmente.
Il cigolio della porta che si apriva li raggiunse e si alzarono per andare ad accogliere i padroni di casa.
Jeeves si fiondò all’ingresso senza aspettare il bambino. I genitori di questo erano in piedi poco oltre la porta mentre il maggiordomo si impegnava a togliergli le giacche di dosso e metterli sull’appendiabiti.
La madre del bambino gli andò incontro, lo baciò sulla fronte e gli disse: – Tutto bene, Freddie?
Lui annuì gelido. Suo padre gli fece un cenno col capo.
Cenarono in religioso silenzio. Jeeves portava i piatti e poi si sedeva a mangiare qualcosa anche lui. Il bambino intuiva che c’era qualcosa d’importante di cui i suoi genitori avrebbero dovuto discutere con la nonna, ma non erano chiaramente intenzionati a farlo in sua presenza.
Terminato di mangiare, i suoi sospetti furono confermati. Sua madre gli chiese gentilmente se poteva andarsene di là a leggere.
Senza rispondere si alzò e mosse i suoi passi fuori dalla sala da pranzo, ma ciò non servi a niente. Voleva sentire, e avrebbe sentito.
Era fuori dalla porta socchiusa e si preparava a origliare quando udì dei lievi passi accanto a lui.
Jeeves lo guardò serio. – Non dovrebbe, signorino Friedrich.
– Anche tu sei qui per ascoltare – disse semplicemente il bambino. – Allora ascolta con me.
La prima voce che si udì fu quella del padre, e chiaramente si stava rivolgendo alla nonna: – Ciò che avevi sentito è vero, Miranda. I pozzi sono esauriti o avvelenati. Abbiamo ancora due, massimo tre mesi, prima che tutti lo vengano a sapere. Sarà il finimondo. I proprietari dei pozzi se ne andranno in altri paesi con le scorte più massicce, lasciando noi cittadini ad ammazzarci tra di noi finché l’ultima goccia d’acqua non sarà stata bevuta. Noi, non possiamo scappare, Miranda, lo sai bene. Ci vuole almeno un mese di viaggio prima di raggiungere un luogo abitato, e non possiamo comprare scorte per un tempo così lungo senza destare sospetti. E anche se riuscissimo, andarsene sarebbe un’impresa.
Il bambino udì sua madre scoppiare a piangere.
– Ma perché i pozzi si sono esauriti? – chiese la nonna.
– Una malattia, un virus, chi lo sa. Il mare da solo non può soddisfare i bisogni della Città. I proprietari riusciranno a fingere per qualche settimana depurando l’acqua salata, ma poi risulterà chiaro a tutti che non c’è più niente da bere.
Il bambino guardò Jeeves e vide che l’uomo era pallido e tremava visibilmente.
La nonna fece un’altra domanda: – Hai idee?
Dal tono della voce si sarebbe detto che la questione non la toccasse minimamente.
– Sì. Sono già d’accordo con Henry di chiuderci nella sua cantina per tutto il tempo necessario. Almeno finché nella Città non sarà rimasto quasi nessuno. Giorno per giorno accumuleremo più scorte d’acqua possibili.
– Non portarle a casa sua.
– Perché, Miranda?
– Henry è un uomo che, come te, ama la sua famiglia, ma è anche senza onore. Non fidarti di lui, portagli alcune delle scorte e il resto lasciale a casa nostra. Avrai tempo di trasferirle all’ultimo momento.
La madre del bambino parlò tra i singhiozzi: – Freddie non deve vedere niente di quello che succederà. È già così… serio. Non ho idea di che effetto potrebbe fare su di lui vedere le persone uccidersi per un po’ d’acqua. La Città era destinata a questo orribile destino da quando è stata costruita… troppo lontana dal resto del mondo.
– Friedrich non vedrà nulla – rispose convinto il padre del bambino. – Nessuno di noi vedrà nulla.
E intanto il bambino pensava che invece avrebbe voluto vedere tutto.
– Risparmia più acqua che puoi, Miranda – concluse il padre. Si udì il rumore di una sedia che si spostava: si era alzato. – Ne avremo bisogno.
– Via, signorino Friedrich – mormorò Jeeves tirandolo per il braccio.

Il bambino contò i giorni e si accorse che suo padre aveva ragione: i proprietari dei pozzi non riuscirono a fingere per più di due mesi e mezzo. Un pomeriggio di fine primavera c’era già gente che tornava a casa carica di bottiglie d’acqua senza darsi pensa di nasconderle. Alcuni se la ridevano e dicevano che era tutta una farsa, era impossibile che l’acqua fosse finita.
Poi i venditori annunciarono che avevano tagliato i rifornimenti e non ne avevano più da vendere.
Quel giorno, il bambino, la nonna e il maggiordomo chiusero tutte le imposte e si barricarono in casa. Le strade stavano già diventando un inferno.
– Abbi fiducia nei tuoi genitori, Freddie – gli disse la nonna. Non gli diceva mai di pregare. La preghiera era per i deboli, ripeteva spesso.
Alle nove di sera, in ritardo di due ore, suo padre e sua madre fecero ritorno.
Il bambino notò subito, dall’espressione sui loro volti, che c’era qualcosa che non andava.
– Henry se n’è andato! – sbottò suo padre. – Anche con la scorte d’acqua che gli avevo portato! Maledetto figlio di puttana! Avrei dovuto darti più ascolto di quello che tu pretendevi da me, Miranda.
La nonna gli rispose dolcemente: – Non importa, ce la faremo ugualmente.
– No, serve più acqua. Io torno fuori.
A nulla valsero le suppliche della moglie e dell’anziana donna.
– Alfred! Per carità torna dentro, Alfred! – urlò la prima.
Lo videro fare cinquanta metri nella via affollata. La gente sembrava impazzita, correva da tutte le parti urlando.
– ALFRED!
Il padre del bambino adocchiò una bottiglia d’acqua in un angolo e vi si gettò sopra. Non fece in tempo a rialzarsi che si udì uno sparo. Un uomo vestito di stracci con in mano una pistola gli si avvicinò e diede un calcio al corpo già senza vita.
– Chantal! – gridò la nonna. – No!
La madre di Friedrich si gettò nella mischia. – Alfred! Alfred!
L’uomo la vide correre verso di lui e sparò anche a lei.
Il bambino osservò il tutto in silenzio. Sentì lontanamente la mano forte di sua nonna che lo tirava indietro e gli gridava di non guardare. Le ultime immagini che ebbe del mondo di fuori furono sua madre che veniva calpestata dalla folla in fuga e l’uomo coperto di stracci che sparava a chiunque avesse con sé dell’acqua.
Giurò a se stesso che l’avrebbe ucciso. Giurò che non uno di coloro che aveva osato calpestare il corpo di sua madre sarebbe morto da solo. Li avrebbe uccisi tutti lui. Si impresse nella mente ogni singolo volto, ogni dettaglio che potesse farglieli riconoscere anche anni più tardi.
Lui, Friedrich Evans, un bambino di soli undici anni, giurò che per mano sua quella città sarebbe stata epurata. L’odio con cui era vissuto fin dalla nascita gli si riversò fuori in quel momento. Odiava l’essere deboli delle persone, il panico che si impadroniva di loro nell’ipotesi della morte. Odiava la gente, e l’avrebbe punita per questo.

martedì 23 agosto 2011

31° Capitolo e Note Finali

Sensazioni

– Chris, aiutami perché mi sento morire.
Furono le uniche parole che dissi dopo aver lasciato Bianca sola in quel salotto senza luce.
Quando il mio amico mi aveva detto che forse ero venuto a New York per lei, non ci credevo granché. Poi invece divenne l’unica cosa di cui ero assolutamente certo.
– Torniamo a casa? – mi chiese.
Risposi con un cenno affermativo del capo. Non era forse stato lui a dirmi che la casa ce la portiamo dentro? Forse l’Islanda significava solo che avrei potuto richiamarla alla mente in qualsiasi momento. E ciò mi avrebbe fatto sentire meglio.
Il regalo migliore che il mio amico potesse farmi fu di dipingere un ritratto di Bianca. Per quanto facesse male, lo tenni sempre con me. Nonostante lei mi avesse avvertito che avrei dovuto dimenticarla, io non lo feci. Non avrei potuto farlo in nessun caso.

Non è mia intenzione di stare qui a spiegare che piega prese la mia vita quando tornai in California. Nel luglio del ’64 i militari in Vietnam erano saliti a 21.000, e un mese dopo ricevetti una lettera in cui mi diceva che di lì a breve avrei avuto la visita per vedere se ero idoneo alla leva. La ricevettero anche Chris e Alan.
Wendy venne a farci visita a settembre e io la pregai di andarsene in Canada con mio fratello.
– Lui è come te. Legge sempre. Se va in Vietnam lo ammazzano.
Allora lei, Alan e zia Molly si trasferirono in Canada. Mia zia vendette anche l’appartamento di San Francisco, dicendo che se mai fosse tornata negli Stati Uniti, l’avrebbe fatto andando a vivere in Texas in quella villa che aveva tanto trascurato.
Sia io che Chris non cercammo scappatoie. Per una questione di rispetto, come avrebbe detto lui. Andare a morire per dei tronfi politici americani lo faceva incazzare, ma poi mi disse che come ci andavano gli altri, ci saremmo andati anche noi. Per rispetto.
Nel ’65 venimmo spediti in Vietnam senza tante cerimonie. Nel ’68 Chris perse una gamba e venne congedato. Io persi l’utilizzo della mano destra tre mesi dopo, e non potendo più premere un grilletto, venni rispedito a casa. Quando nel ’75 la guerra finì, gli americani morti erano 58.226.
A quel punto Chris non vomitò neppure, si limitò a dire: – Succederà ancora e ancora, finché l’uomo abiterà la terra.



Le storie che mi piace raccontare sono quelle che non racconta nessuno



Questo libro non vuole atteggiarsi a romanzo adolescenziale. Non vuole essere una brutta copia di argomenti già trattati a partire dall’Holden di Salinger. Ritengo che le storie più belle degli ultimi anni siano quelle che dicono cose già dette in un modo migliore, o quelle che dicono cose nuove che nessuno ancora aveva ascoltato. Saltando nelle pozzanghere vuole appartenere a questa seconda categoria. Dico «vuole» perché non ho idea di come gli altri vedranno questo libro. Quello che io ho cercato di fare è stato di ritrarre gli adolescenti per quello che sono, non per quello che gli adulti vorrebbero che fossero. Vengono pubblicati libri con ragazzi per protagonisti, senza fare nomi, che sono un insulto al nostro modo di pensare. Noi non siamo deficienti bisognosi di aiuto. Non abbiamo bisogno di un insegnante che ci indichi la strada né di rappresentazioni distorte della nostra realtà. Ci capiamo a vicenda, e questo è tutto. Se il narratore e gli altri personaggi di questo libro hanno un comportamento che alcuni definirebbero immorale o sbagliato (mi riferisco al bere, al fumare), è perché sono dei ragazzi veri. Non sono caricature messe in atto per farci sembrare tutti dei santi che cercano l’amore e la felicità. Noi non vogliamo inseguire i nostri sogni, siamo stanchi di sentircelo dire. A quest’età nessuno sa cosa vuole. Quindi, per favore, basta scrivere libri che ritraggono i ragazzi come persone quali non sono. Anche se sono ritratti più “buoni” di noi, non ce ne frega. Vogliamo che si dica la verità. Vogliamo che ci mettano in bocca i nostri discorsi, non una filosofia spiccia da quattro soldi e frasi da baci perugina.
Il protagonista del libro ha, almeno nella prima parte, diciassette anni. Perché diciassette anni? Perché è anche la mia età. Charlie è un self-insert, non ho problemi ad ammetterlo. Proprio per questo credo che la sua figura sia diversa dai protagonisti di altri romanzi adolescenziali. Perché Charlie è un tipo di ragazzo come ne nascono ogni diecimila. O forse è solo una mia cattiva impressione, e nel mondo ci sono più Charlie di quanto pensi. So già in anticipo che molti non capiranno il personaggio. Lo odieranno, probabilmente. Ma non ho scritto questa storia perché tutti potessero immedesimarsi in un ragazzo alle prese con i classici problemi dell’adolescenza. I problemi di Charlie sono ben più particolari, sono problemi che la maggior parte dei ragazzi non si pone né sa che esistono. Questo lo affermo secondo esperienza personale. I problemi come il fumo o le droghe sono secondari, giocano un aspetto di sfondo nella mia storia. E qui torniamo a Charlie. Non potevo renderlo bene come l’ho reso in prima persona se l’avessi scritto in terza. Per questo motivo ho deciso che non scriverò più in prima persona per un po’ di tempo. O almeno non scriverò cose che farò leggere a qualcuno. Perché Charlie ha già detto tutto quello che volevo dire io. Lui e gli altri personaggi. Ma soprattutto lui.

Marco Tamborrino,
23 agosto 2011, Busto Arsizio.

30° Capitolo

Una conversazione

D’un tratto provai una pietà assoluta per quella donna che a suo modo mi aveva tanto amato e che io non ero stato capace di ricambiare appieno. Ero un essere ripugnante, e probabilmente in quel momento lo pensava anche Chris.
– Io non…
– Tu sei strano, Charlie. Non so se in senso buono o no. Il fatto è che nessuno può capire cosa c’è dentro la tua testa se prima non lo capisci tu. Devi farci i conti, devi affrontarlo.
Anche Chris si accese una sigaretta, ma io rifiutai.
– Non sono più ricca come una volta, Charlie. Ho a malapena i soldi per pagare Thomas. Mi sono messa a giocare d’azzardo dopo che te ne sei andato, ma non ho avuto molta fortuna. Chi è il tuo amico?
– Mi chiamo Christopher, signora Anderson – disse Chris porgendole le mano.
Lei gliela strinse senza troppo entusiasmo. – Cosa ci fate a New York?
Chris non rispose e guardò me.
– Oh, – fece Bianca, – il nostro Charlie ha ripreso a viaggiare per trovare la sua ragione di vita. Non è così? Entrambe le volte sei finito dritto da me, non è buffo? Ma adesso non è più come l’altra volta. Adesso io sono stanca e tanto, tanto arrabbiata con te. Se non urlo è perché ho perso anche la forza di urlare, Charlie. Ho perso la speranza. Tu che viaggi dovresti saperlo meglio di me. Senza speranza non siamo niente.
Vidi quello che mai mi sarei aspettato di vedere: una lacrima nell’angolino del suo occhio sinistro. Quella lacrima urlava molto di più di quanto lei avrebbe immaginato.
– Io volevo chiederti scusa – dissi infine.
Bianca ridacchiò, ma non c’era la minima traccia di felicità nella sua risata. – A volte si fanno cose che non potranno mai essere perdonate, nemmeno se vivessimo cento vite. Lo sai cos’ho pensato quando hanno ucciso Kennedy? Ho pensato che nonostante non me ne fregasse nulla di lui, avrei voluto essere con te in quel momento. Viverlo con te. Oppure quando c’era il rischio dei missili nucleari. Avevo un disperato bisogno di spettinarti i capelli, Charlie. Ma tu non c’eri. E io ero sola. L’amore porta a esseri soli.
– Io sono sempre stato solo – sussurrai quasi impercettibilmente. – Anche se Chris c’è sempre stato, e non solo lui, io sono sempre stato solo. Ancora non so se è una cosa normale per noi adolescenti, ma ho il sospetto che anche tantissimi adulti si sentano così. Soli anche in mezzo alla gente che ci vuole bene. Prova a pensare a una persona ubriaca. Se ci pensi bene ti renderai conto che dopotutto è triste, e anche un po’ deprimente. E adesso pensa a una persona normale, una qualsiasi; di quelle che incontri quando vai a fare la spesa o prendi il treno. A me mettono tristezza entrambe, non so cosa farci. Se devo essere sincero è proprio la gente che mi deprime.
Ci un momento di silenzio mentre mi accorsi che la luce stava diminuendo e presto sarebbe stata sera. Non c’erano luci accese nel salotto. Solo le sigarette di Bianca e Chris risaltavano nella penombra.
– Forse è il destino dei cuori spezzati continuare a spezzarsi – disse Bianca. – Tu non sai niente del mio passato, né mi hai mai chiesto qualcosa. E hai fatto bene, perché non te l’avrei detto allora e non te lo dirò nemmeno adesso. Sappi però che quando te ne sei andato mi hai spezzata per sempre e dubito che qualcuno potrà mai riaggiustarmi.
Fui sul punto di piangere anch’io. Quant’ero debole di fronte a lei! Quanto l’amavo! L’avrei sempre amata, non importa cosa sarebbe successo. Il mondo avrebbe potuto capovolgersi, avremmo camminato sul cielo e osservato la terra sopra le nostre teste, ma io l’avrei sempre amata. E non avrei amato il suo ricordo, avrei amato lei e solo lei.
– Non volevo – dissi solo.
– Nessuno vuole mai ferire, Charlie. Ma succede lo stesso.
– Ha fatto male a me tanto quanto ne ha fatto a te – provai a replicare.
Lei scosse la testa. – Io sono chiaramente caduta in disgrazia, Charlie. Tu no, hai solo vent’anni e sei ancora in tempo per dimenticare tutto.
– Non posso dimenticare.
– Ma lo farai. Per il mio e per il tuo bene.
– Come puoi dire che dimenticare è un bene?
– Perché ricordare ci porterà solo sofferenza. Vuoi essere triste per tutta la vita, Charlie? È evidente che tu non sei mai stato felice, che anche quando ti sei ritenuto tale non lo sei stato veramente.
– Io sognavo l’Islanda, una volta. Credevo che lì mi sarei sentito a casa.
Mi guardò sorpresa. – Non capisco.
– Nemmeno io, è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi.
– Io credo – e infuse una tale serietà a quelle parole che non potei fare a meno di pendere dalle sue labbra – che sia finalmente ora per te di cambiare strada, di smetterla di fuggire da casa, da chi ti ama e ti vuole bene. Io non so se Dio esiste, né mi interessa saperlo. Non penso ci sia solo un essere umano su questo pianeta degno di finire in paradiso. Però sono sicuro che se esiste Dio non è perfetto, perché il mondo fa schifo, e non lo dico a causa delle mie delusioni, lo dico perché è chiaro che vivere qui, più che vivere e basta, è la cosa più difficile della nostra vita. Diffida di chi ti dice di sognare, Charlie. Non esiste seguire i propri sogni, non esistono sogni. Essere buono non ti porterà felicità. Essere te stesso invece sì, essere l’insieme di odio, amore, speranza e tristezza che c’è in ognuno di noi, quello potrà farti essere felice. Tutti noi siamo capaci di odiare. E se c’è da odiare, ben venga. L’errore sarebbe sopprimere l’odio. Lasciandolo uscire diventiamo più noi stessi di quanto tu possa renderti conto.
Non sapevo cosa risponderle.
– Thomas, – disse Bianca, – potete lasciarci un attimo soli?
Io lanciai un’occhiata a Chris. Il mio amico mi annuì e se ne andò insieme alla guardia del corpo.
Bianca si alzò dalla sua poltrona e venne sul divanetto di fianco a me. Mi appoggiò la testa alla spalla e chiuse gli occhi.
– Lasciami così per dieci minuti – mormorò. – Non chiedo altro.

***
Quando si scostò mi prese il mento con la mano destra e mi guardò negli occhi. E questa volta fu lei a baciarmi. Fu il primo bacio tra di noi in cui lei non si comportò com’era suo solito. Mi baciò lentamente, quasi con paura di farmi del male, quasi scusandosi di quello che stava facendo.
Ma come potevo scusarla se era l’unica persona che potesse darmi quei pochi istanti di felicità che per tre anni non avevo avuto?
– Vieni via con me – le dissi.
– Non posso.
– Vieni via lo stesso.
– Non posso.
– Neanche io posso lasciarti ancora una volta. Neanche io posso.
La abbracciai piangendo, e lei rispose all’abbraccio. Mi strinse come se fosse mia madre e non la donna che amavo.

29° Capitolo

Giovani per sempre

Se ci fosse stato un qualche modo per sostituire la mia vita con qualcuno che è morto giovanissimo, magari con un viso dolce di quelli che piacciono alla gente, probabilmente l’avrei fatto. Non è che mi considerassi meno importante degli altri o che ne so, ma avevo sempre avuto l’impressione che io facessi più fatica di tutti a vivere.
Ho provato tante volte a dirmi che anch’io valgo qualcosa. Ma poi vedo la gente felice, ma felice per davvero, e mi chiedo come sia possibile divertirsi così tanto a questo mondo. Io non ci riesco. Ho fatto del mio meglio per riuscirci, ho sorriso quando non volevo e fatto complimenti che non avevo nessuna voglia di fare. Ma ho solo peggiorato le cose.
Vorrei solo combattere per qualcosa. È questo che fanno i giovani. Dedicano la loro forza, che è fresca ed estranea all’influenza delle vecchie generazioni, alla lotta per una causa. Se però non ci sono cause per le quali combattere, cosa fare? Il fuoco arde nei rivoluzionari, non nei codardi. Mi consideravo un codardo? Difficile a dirsi. Di certo non ero coraggioso. Mi chiedevo come qualcuno potesse esserlo, coraggioso.
Era forse per codardia che avevo detto a Chris che intendevo ripartire?
– Vuoi parlare di qualcosa, Charlie? – mi chiese dopo due ore di viaggio.
– Arrivati a questo punto – risposi piano – non c’è rimasto molto da dire.
– Non pensi che se tutto fosse diverso, saremmo più felici? Intendo, se fossimo più liberi. Ti ricordi due o tre anni fa, quando pioveva, e siamo usciti e ci siamo coperti di fango, saltando nelle pozzanghere?
Annuii.
– Bisognerebbe sempre sentirsi come quella notte. Io ero felice, e adesso essere felice è un lusso che non posso permettermi.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Cercavo di essere felice.
Come tutti?
C’è qualcos’altro che possiamo fare, oltre a provare ad essere felici?

Dopo due giorni eravamo a New York. La grande mela ci apparve bianca, coperta di neve, ma immensa come solo le grandi città sanno essere. Grandi città per persone tutte piccole. Alti grattacieli per osservarci in miniatura durante il quotidiano movimento che ci porta a scuola, al lavoro, a casa o da un amico. Era questa la grande America, l’incredibile America. Un posto bello e stupido, costruito male, sul sangue e sull’ipocrisia. Ma sia noi che gli stranieri avremmo continuato a vederla come un idilliaco paradiso.
Quando avevo nove anni, mio padre mi disse che non bisogna vedere le città come la riuscita impresa dell’uomo di convivere con altri uomini civilmente, ma come la necessità di compagnia dettata da un istinto animale e dalla solitudine.
Spendemmo qualche dollaro per un albergo non proprio eccellente e aspettammo in silenzio. Cosa, non lo sapevamo nemmeno noi. Credo che nessuno lo sapesse.
Quando mi chiamarono nella hall per dirmi che c’era una biglietto per me, inizialmente immaginai che fosse dei miei genitori. Invece non il nome non v’era scritto, non fuori almeno. Recava solo un «Per Charlie Collins». La aprii perplesso e iniziai a leggere.

Charlie, mi sei mancato.

Bianca.

Quelle quattro parole messe in croce seguite da un indirizzo. Quindi lei viveva a New York, quindi lei mi aveva visto. In un attimo mi si aprirono davanti miliardi di possibilità, di immagini. Fu come rinascere un’altra volta. Sapere che lei c’era. Che non se n’era andata per sempre dalla mia vita. La certezza di una mancanza riempita con le parole. La voglia di altro suo bacio. Tutto ciò che una sinfonia di Schumann avrebbe potuto dirmi, l’avrebbe detto Bianca spezzando a metà la sinfonia, e ne avremmo poi osservati insieme, tenendoci la mano, i pezzi rotti sparsi per il mondo. Lo scopo era concepire, ammirare, sognare Bianca, amarla più di ogni cosa esistente e inesistente nell’universo, più del concetto stesso di amore. Amare l’essere innamorati è fin troppo semplice. Ci fa sentire bene. Tuttavia amare la persona e non il sentimento, questo mi prefiggevo io, alla vista di quelle parole che erano forse un invito ad andare da lei, forse un consiglio di starle lontano, ma che esprimevano perfettamente quanto fossero stati vuoti quegli anni senza di lei, senza i suoi capelli biondi e le sue labbra a volte laccate a volte no, il vestito rosso e l’appartamento infernale, le sfuriate che in fondo in fondo concedevano dolcezza nascosta e soppressa, il tormento che mi prendeva quando c’era lei. E lei c’era sempre.
– Vacci – sentii la voce di Chris alle mie spalle. – Forse è per questo che sei venuto qui, anche se non lo sapevi.
– Vieni con me – gli dissi.

Fu Thomas ad aprirci la porta. Mi sembrava passata un’eternità da quelle ultime mattine a Denver in cui andavamo insieme a prendere il Times per Bianca.
– Lei dov’è? – chiesi, senza preamboli.
Ci condusse in salotto.
Bianca era lì, seduta su una poltrona a gambe accavallate che fumava una sigaretta. La prima cosa che pensai fu che il salotto non era rosso, ma grigio, e terribilmente triste. Poi incrociai il suo sguardo. Lo vidi accesso, furioso, trattenuto a stento. Gli occhi di lei si posarono su Chris e si calmarono un poco. Con un movimento quasi impercettibile della testa ci indicò un divanetto di fronte a lei.
Sebbene lei fosse la solita donna rossa che avevo conosciuto, c’era qualcosa nel suo aspetto che mostrava decadenza, fallimento. Nei suoi occhi verdi c’era un luccichio d’interesse, forse a causa mia, ma anche un velo opaco, quasi di muta rassegnazione.
– Un giorno, – cominciò a dire, fissando nel vuoto, – quando ero molto piccola, mio nonno mi disse che un formicaio è come una città. Che gli esseri umani e le formiche sono la stessa cosa. Tu le vedi lì, piccole, quasi minuscole, indaffarate a costruire, a raccogliere pane, o anche solo a muoversi, si muovono sempre, lo sai? Poi arriva qualcuno e distrugge il formicaio. Ma alcune scappano e ne creano un altro da un’altra parte. Forse uno più grande, così quando verrà distrutto anche quello, ne moriranno di più. Allora ho risposto a mio nonno che gli esseri umani possono schiacciare le formiche ma le formiche non possono schiacciare gli esseri umani. Mi ha detto che è proprio questo il problema. Le formiche si limitano a creare, noi il più delle volte vogliamo solo distruggere. Noi distruggiamo per poi dare vita a qualcosa di ancora più immenso. È vero che senza le rovine non si può ricostruire, ma a volte mi chiedo se non ci piacciano di più proprio le rovine. E la vita è una rovina. Non c’è niente da costruire. C’è solo da distruggere.
Fece una paura durante la quale tentai di guardarla negli occhi.
– Tu mi hai distrutto, Charlie. Mi hai distrutto e te ne sei andato, proprio come si fa con una formica.

giovedì 18 agosto 2011

28° Capitolo

Come una candela

L’estate andò lentamente scemando. Le sue ultime giornate furono torride, afose. Cominciarono a smorzarsi le risate, la spiaggia si riempì come se i giovani volessero sfruttarla al meglio prima di tornare a scuola, i negozi riaprirono uno dopo l’altro. Le feste diminuirono drasticamente, si riprese a stare in casa a leggere o a sentire musica. La televisione la evitavo ancora, non volevo saperne. Le nuove generazioni sarebbero cresciute solo con quella, temevo, e una cosa così potente era capace di influenzare la mentalità di un numero incalcolabile di persone. Era ancora possibile leggere un libro senza pensare a una pubblicità, nel frattempo?
Nessuno sospettava cosa sarebbe successo quell’anno. Il 22 novembre a mezzogiorno ero a scuola. Con me in classe c’era Chris. Non avevamo più il signor Johnson ed eravamo con ra-gazzi di due anni più piccoli. Quando all’una uscimmo da scuola, ancora nessuno ci aveva detto niente. Quel giorno ero già d’accordo coi miei che avrei mangiato da Chris, quindi facemmo la insieme la strada verso casa sua.
Ci aprì la piccola Mary. Sembrava agitata, scossa. Il mio amico capì subito che c’era qualcosa che non andava.
– Chris! – fece la bambina. – Hanno ammazzato il presidente!

Alla televisione non c’era altro. Si vedeva Kennedy vestito per la visita ufficiale a Dallas ricevere le pallottole nel petto e accasciarsi. Lo vedevamo, lo sentivamo, e continuava a morire. Nelle nostre menti non smetteva un solo attimo.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy? Chiedeva la gente. Ero a scuola, ero al lavoro. Ero a casa a bere un thè caldo, a leggere un libro. Stavo ascoltando Schubert sdraiato sul letto. Stavo pensando.
Ma Kennedy l’avevano ucciso lo stesso, non importava che cosa la gente stesse facendo in quel momento.
Continuarono a ucciderlo per settimane intere. Rivedevamo la scena come se fosse la prima volta. Si frantumavano le nostre speranze di una buona America.
Quando divenne presidente Johnson, Chris festeggiò la notizia ubriacandosi e vomitando.
– Che schifo – fu il suo commento. – Questo è un guerrafondaio del cazzo.
– È un repubblicano – replicai.
– Non cambia niente. Ha fatto la guerra da soldato e la farà anche da presidente.
Venne un altro Natale e un altro Capodanno. Mia cugina scese da San Francisco e ancora una volta andammo in Texas per passare le vacanze nella casa di zia Molly. Wendy guidava, io ero davanti con lei e Alan dietro. Chris e Julia nell’auto del signor Matthew.
– Se hanno ucciso il presidente possono uccidere tutti – mi disse quando fummo in viaggio. – Non gliene frega niente della gente a quelli là, vedrai se non ho ragione.
Sperai che non ce l’avesse, ma non avevo molta fiducia nella mia speranza. Non ne avevo mai avuta molta.
– Quand’è che te la trovi una ragazza? – mi chiese poi.
Non risposi. Avrei dovuto dire che dopo Bianca, non sarei più riuscito a innamorarmi di nessun'altra. Ancora speravo di rivederla, nelle notti che la luna era piena e la sua luce filtrava dalle persiane di camera mia. Quella donna aveva rubato la mia capacità d’amare, se n’era impossessata. E ora io ero con lei e sempre con lei, tradirla era impensabile.
– Come non detto, non te la trovi.
Desiderai che fossimo tutti muti. Le parole rovinavano sempre ogni cosa.

Passammo il Capodanno a Houston. La città era gremita di gente e coperta di neve. I bambini giocavano a palle di neve nelle piazze, nelle strade e nei parchi. Dagli appartamenti dei palazzi usciva una luce calda, soffusa. Mi immaginavo le famiglie riunite a mangiare, alcune avrebbero detto una preghiera per il cibo, altre avrebbero aspettato l’arrivo dei parenti più lontani, si sarebbero abbracciati, stretti le mani. Avrebbero raccontato barzellette, cercando di dimenticare Kennedy.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Festeggiavo Capodanno. Hanno ucciso Kennedy?
Quanti Capodanni festeggi?
Sembrava che gli americani avessero tanto da dirsi. Le risate passavano attraverso i vetri, riscaldando persino le vie innevate. Nessuno avrebbe mai detto che, pur con quell’apparente felicità e tutta quella voglia di parlare, gli americani in realtà non stessero dicendo proprio nulla.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Ero in bagno. Vomitavo.
Perché vomitavi?
Perché avevo schifo, schifo, schifo.
L’albergo dove stavamo stappò decine di spumanti, a mezzanotte. Anche noi stappammo la nostra.
Ma che cosa stavamo festeggiando? Il nuovo anno? Iniziai a pensare che portasse male fare festa all’inizio di ogni anno. Pensai questo soprattutto dopo aver visto quello che sarebbe accaduto di lì in avanti. La gente però continuava a voler far festa, a voler divertirsi.
Due giorni dopo, quando tornammo sulla costa, presi Chris in disparte e gli dissi:
– Io riparto. Nel ’61, prima che venisse a prendermi Wendy, prima ancora che incontrassi Bianca… stavo andando a New York. È ora di riprendere. Io non ce la faccio più a stare qua. Mi sembra tutto maledettamente triste e uguale… a Los Angeles feci l’errore di non dirti che partivo, oggi sto rimediando. Se vuoi venire con me, vieni. Mi dispiace abbandonare tutto ancora una volta… ora che avevamo ripreso la scuola, i contatti, ora che stavamo crescendo… ma davvero io non ce la faccio. Sto soffocando, Chris.
Chris mi prese la mano e la appoggiò dove si trovava il mio cuore. – Non capisci, Charlie, che è questa la tua casa?
Poi, sempre la mia stessa mano, la mise sul suo, di cuore. – E questa è la mia. In tutte e due c’è abbastanza posto per non esser costretti a partire.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi, ma le trattenni. – Io devo partire, Chris.

Julia sapeva che ero io l’artefice della partenza di Chris. Il mio amico non aveva intenzione di lasciarmi, ma non voleva che la sua ragazza rinunciasse agli studi del college per lui.
– Tornerò, come sono sempre tornato – le disse.
Wendy, non commentò, si limitò ad abbracciarmi e ad augurarmi buona fortuna.
Alan mi disse: – Papà e mamma ti ammazzerebbero, se potessero. Però ti vogliono bene lo stesso.
E anche lui mi voleva bene, anche se non lo avrebbe mai ammesso di fronte a me.
Partimmo alla sera, in mezzo a una nevicata.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
A giocare con la neve.
– Non staremo via come la prima volta – dissi a Chris mentre accendeva il motore. – Sento che sono vicino a ciò che cerco. Il tempo mi darà la risposta.
Lui non rispose.
– Forse non dovevo dirtelo che partivo – mormorai.
Si voltò verso di me e fece un sorriso stanco. – Anche se stiamo crescendo, anche se… – s’interruppe e bestemmiò. – Vaffanculo. La vita ti toglie tutto, anche i legami più stretti.
Poi, come se fosse una cosa normale, disse: – È veramente tutto uno schifo.

mercoledì 17 agosto 2011

27° Capitolo

Fragile

Dopo quell’episodio, che mi sconvolse più di quanto osavo ammettere a me stesso, non sapevo se tornare alla casa con zia Molly. E neanche Chris lo sapeva. Decisi di passare il natale e il capodanno coi miei e di provare a rivivere con serenità la mia cittadina, tornando nei luoghi dove ero solito giocare da bambino.
Feci visita al signor Johnson, che fu di poche parole. M’accolse con un sorriso tirato e parlammo solo per un’oretta.
Si congedò con un:
– Ti auguro ogni fortuna, Charlie Collins. Ne avrai bisogno.
Cercai di non ascoltare le radio e le televisioni. Non volevo sapere cosa succedeva nel mondo e se stavano mandando altri soldati in Vietnam. Per un po’ sembrò ritornare l’allegria. Wendy e zia Molly vennero a Natale e tutto pareva essere tornato alla normalità.
Julia avrebbe di lì a qualche mese terminato gli studi e avrebbe dovuto scegliere un college. In quei giorni niente turbava la quiete, se non i pensieri nascosti nel profondo di ognuno di noi, pensieri inespressi che avrebbero solamente rovinato l’atmosfera di parziale gioia che si era instaurata.
A Capodanno Chris si ubriacò esageratamente, nonostante fossimo in famiglia (io, i miei genitori e Alan eravamo ospiti del signor Matthew). Quando chiese di scusarlo che doveva andare a prendere una boccata d’aria, io lo seguii. In giardino rovesciò la cena sulla neve. Io gli tenni la testa.
– Tutto a posto? – gli chiesi.
– No. Tutto a posto un cazzo, Charlie. Un cazzo.
– Cosa c’è che non va?
Mi chiese se avessi un fazzoletto per ripulirsi. Rovistai nella tasca della giaccia e ne trovai uno po’ stropicciato.
Mentre glielo porgevo, ripetei la domanda.
– È tutto uno schifo – rispose.
– Cosa è uno schifo?
– Tutto.
Cadde in ginocchio e vomitò ancora.
– Perché ti riduci in questo stato?
Quando si fu ripreso disse: – È una questione di rispetto, Charlie.
– Rispetto per chi?
– Te li ricordi tutti quei discorsi di Johnson sulla rivoluzione americana e sulla guerra?
Risposi che sì, me li ricordavo.
– Quel’imbecille aveva ragione. L’abbiamo chiusa noi la guerra, le abbiamo sganciate noi quelle due bombe. Ho letto la testimonianza di una bambina che è sopravvissuta a Hiroshima…
Vomitò ancora, questa volta solo schiuma.
Lo aiutai a rialzarsi. Non riusciva a guardarmi negli occhi.
– Lo stavamo per rifare, Charlie – disse infine. – Stavamo per rifarlo. Johnson ce l’aveva detto solo tre anni fa… e noi le volevamo sganciare ancora quelle bombe. Gli americani! Adesso capisco come ti sentivi… non si può essere qualcuno in questo paese. Per essere qualcuno bisogna anche essere orgogliosi. Ma io ho schifo, solo schifo di quello che vedo.
– Per questo ti ubriachi sempre, Chris?
Avevo il cuore colmo di tristezza. Io che pensavo sempre, in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che alle parole del mio amico.
Lui annuì. – Ho troppo schifo.
– Chris, guardami negli occhi.
Lo fece. Aveva delle vene rotte, e sembrava inquietante alla debole luce del lampione della strada che fiancheggiava la casa.
– Ho schifo anch’io – dissi.
– È il minimo.
– Ascoltami, Chris… guardami! Siamo condannati alla guerra da quando esistiamo… non puoi lasciarti andare perché pensi che non ci sia scampo. Devi fare qualcosa, qualunque cosa. Tieniti occupato. Hai Julia, è una bellissima ragazza. Hai me… spero di valere qualcosa come amico. Non è facile se penso a quanto vali tu… guardami, Chris!
– Ho schifo – ripeté.
Lo lasciai andare e rientrai in casa. Nessuno mi chiese perché non fosse con me. Dopo qualche minuto rientrò anche lui. Cinque minuti dopo la mezzanotte, mentre l’intera città festeggiava ingenuamente il 1963, Chris venne da me e mi chiese scusa.
– Non è niente – risposi.

Dopo Capodanno io tornai a scuola, e Chris con me. Avevamo perso due anni, ma non ne facevamo un grande problema. Ora che eravamo entrambi diciottenni, e anche registrati per la leva obbligatoria.
Julia veniva spesso a casa mia, anche senza Chris. Mia madre le lasciava usare il pianoforte, e lei si metteva lì a suonare mentre aspettava che il suo fidanzato arrivasse.
Come ogni anno arrivò la primavera. Si colorarono gli alberi, i prati. Iniziò a far caldo. Le giacche si appendevano negli armadi e lì le si lasciavano fino a che non fosse tornato l’autunno. Si usciva in strada a giocare a calcio, si andava in bici a scuola. Chris passava a casa di Julia, le dava un bacio e lei montava sulla sua bici, poi passavano da me e insieme andavamo a scuola.
Tornando ci fermavamo a prendere dolci nei negozi. Andavamo a mangiarli nei giardini pubblici, dove passavamo il pomeriggio a parlare e a studiare. Poi arrivò l’estate e ricomincia-rono le feste. Ogni tanto mentre cenavamo i miei mi dicevano che stavano mandando altre centinaia di soldati in Vietnam, ma io scrollavo le spalle e mi concentravo sul presente.
Non era facile. Ancora germogliava in me l’idea di partire, e questa volta per sempre. Poi capivo che non era il momento, ma che presto sarebbe venuto.
Con le feste e l’estate si stava fuori anche tutta notte, e si rientrava di mattina. Poi si dormiva fino a sera o non si dormiva affatto, un amico o un’amica venivano a svegliarti alle nove o alle dieci e si andava a prendere un caffè e a fumare qualche sigaretta. A volte venivano dei gruppi rock a suonare vicino alla spiaggia e c’erano ancora volte in cui Chris esagerava col bere, anche se piano piano andò migliorando.
– Stagli dietro – mi disse Julia una sera, in privato. – Certe volte non sa quello che fa.
– Forse lo sa meglio di me e te – risposi.
Dopo mezzanotte si usciva di casa e proprio in quell’ora si iniziavano a sentire le risate invadere le vie di tutta la città, i ragazzi e le ragazze si rincorrevano, c’era un via vai unico di biciclette, a volte modo, raramente macchine. Alla spiaggia c’era sempre qualcuno, certuni ci dormivano come facevamo noi in Texas, ma dormire era una parola grossa. Anche se eri stanco, alle cinque o alle sei del mattino, non potevi dire che andavi a dormire, perché nessuno o quasi vi andava, e saresti rimasto escluso. Persino quando non c’era niente da fare, si faceva qualcosa. C’erano stelle da guardare, discorsi da fare, bocche da baciare, amicizie che andavano consolidate con pacche sulla spalla e lievi buffetti sulle guancie, c’era da ridere e scherzare, in attesa che il mondo crollasse.
E invece stavamo solo crescendo. Si creava una distanza, ancora poco tangibile, tra di noi. Ognuno si concentrava più sui propri pensieri, sul proprio futuro. Stavamo maturando insieme ai frutti che più tardavano, insieme agli amori estivi e deboli, con il sorriso sul volto e la tristezza nel cuore.

martedì 16 agosto 2011

26° Capitolo

Sono solo ragazzi

Qui finisce il periodo movimentato della mia adolescenza, il periodo dell’amore e del viaggio, della tristezza e della felicità. Inizia il periodo più oscuro, quello in cui le cose iniziarono a precipitare; il periodo durante il quale non avevo tempo per pensare all’Islanda né ai miei genitori. A me e ai miei amici successero le peggiori cose che potrebbero succedere a dei ragazzi. E solo perché eravamo ragazzi.

Quando nella villa al mare rimanemmo solo io, Chris e Wendy, le giornate presero a passare più calme, tranquille. Scrissi tanto, in quei giorni. Wendy si concentrò sullo studio e Chris sulla pittura.
Il mondo sembrava essersi fermato, sembrava essere arrivata la pace interiore e esteriore che tanto agognavo. Non mi resi conto che era solo il silenzio antecedente alla tempesta.
Quando venne dicembre, Wendy tornò a San Francisco per dare l’esame. Chris rimase con me, ma restò sottinteso che per Natale avremmo dovuto fare qualcosa. I suoi genitori l’avrebbero voluto a casa, ma lui mi disse che non si sarebbe mosso senza di me.
– So che non vuoi tornare. Piuttosto stiamo qui io e te da soli. Il Natale è solo una festa.
Il Natale sarà stato anche solo una festa, ma intanto si avvicinava il 1962 e per me erano quasi sei mesi ch’ero lì senza muovermi, senza decidere cosa fare.
– Non c’è fretta, Charlie – mi diceva Chris. – Non ci corre dietro nessuno. Abbiamo tutto il tempo del mondo… pensa bene a ciò che vuoi fare.
Sbagliava, il tempo non c’era. Non c’era mai stato, ma negli anni sessanta mancava particolarmente. Ancora non ce ne rendevamo conto.
Passò Natale; io e Chris fummo gli unici abitanti nella villa al mare. Parlammo tanto e ridemmo di vecchi ricordi, proprio come due amici dovrebbero fare. Non ricordo un solo litigio con lui, in quel periodo. Ora che ci penso, l’ultimo era stato quando eravamo entrambi ancora a casa e gli avevo detto che volevo andarmene.
Dopo Natale, Wendy Julia e Alan vennero a passare una settimana con noi, approfittando delle vacanze. Chris e Julia furono introvabili in quella settimana. Se ne stavano sempre soli, appartati, vicini. Si baciavano, a occhi chiusi, in silenzio, lui il mondo di lei e lei il mondo di lui, unici sopravvissuti – così credevano – in un universo senza più amore.
Trascorremmo un capodanno felice, tutto sommato. Se si esclude quello del ’63, che andò così e così, fu l’ultimo capodanno felice che passammo tutti insieme. Allora non lo sapevo, o avrei cercato di divertirmi di più, di fare altro.
Vivevamo grazie ai soldi che ci mandavano i nostri genitori e ai quadri che Chris riusciva a vendere a Houston. Tuttavia comprendevamo alla perfezione che non si poteva continuare così per sempre.
Chris tornò a casa. Lo convinsi io a farlo. Lui e Wendy si alternarono per un anno a farmi compagnia, tranne l’estate. Lì c’eravamo tutti e cinque ancora una volta, ma fu comunque un’estate diversa, sotto certi punti di vista. Un’estate più triste.
Alan venne a dirmi che mio padre e mia madre quasi avevano dimenticato chi fossi. Gli mancavo ancora, ma non faceva più male. Stavo diventando un estraneo a me stesso e agli altri. Dalla radio apprendemmo che il numero di militari in Vietnam era salito a 12.000.
Seguirono giorni in cui qualcuno, alla mattina, si recava sempre a Houston per fare incetta di giornali. Ogni dettaglio mi sembrava lontano, confuso, mentre gli altri erano chiaramente più preoccupati.
Come già detto, quell’estate fu cupa. Non mancarono certo le notti in spiaggia e i giorni felici che tanto avevano caratterizzato la precedente, ma si sentiva nell’aria che qualcosa stava cambiando, e non in bene.
– Non preoccupatevi, – ci diceva mia cugina, – Non succederà niente. Vedrete che Kennedy sistemerà le cose. Non ci sarà un’altra guerra.
Quando iniziò la crisi di Cuba, il Vietnam passò in secondo piano. Chris si trovava in California, il quindici ottobre. Appena la crisi cominciò, corse da me. Wendy mi scrisse una lettera. Non riusciva a studiare, era terrorizzata. Mi pensava tanto e mi abbracciava con tutto il cuore, qualunque cosa sarebbe successa.
Alan preferì telefonarmi e io parlai con i miei genitori, entrambi in lacrime. Mi implorarono di tornare, di farlo per loro. Non volevano correre il rischio di morire senza mai più rivedermi. Le loro parole mischiate al pianto, e Chris, che insistette fermamente, mi convinsero. Sarei tornato a casa finché la crisi non fosse cessata.
Il mio amico, per tutto il tragitto, non fece altro che ripetere, cupo: – Qui ci ammazzano tutti, Charlie. Tutti.
Fu un viaggio senza soste, perché i missili potevano venir lanciati da un momento all’altro. Il venti ottobre ero a casa.
Abbracciai i miei genitori, cercando di rimanere freddo, distaccato, ma non ci riuscii. Mi si sciolse il cuore, e prima che me ne rendessi conto, dentro di me seppi che ero finalmente tornato a casa. Avrebbe dovuto saperlo il mondo intero. Pensavo che fosse un evento incredibile, da zittire tutti per la sorpresa. E invece non fu così, a momenti dimenticavo che la gente temeva di star vivendo i suoi ultimi giorni.
Andai anche a casa di Chris, e salutai con gioia la piccola Mary.
– Sono sempre più belli i tuoi capelli – disse la bambina, con un velo di tristezza negli occhi. – Ma anche tu sei bello, Charlie. Sono felice che tu sia tornato.
E piccola, tenera com’era, mi abbracciò stretto senza dare a intendere che volesse lasciarmi.
Mi chiesi come fosse possibile che chi avrebbe deciso delle nostre vite non tenesse in considerazione le bambine come la piccola Mary? Con che coraggio avrebbero lanciato i missili, avendo in mente la piccola Mary? Come avrebbero potuto guardarsi allo specchio con la coscienza a posto, prima di andare a dormire?
Gli otto giorni che trascorsi a casa durante la crisi, li passai un po’ con i miei genitori e mio fratello e un po’ con Chris. Soprattutto con Chris. Passavamo le ore davanti alla televisione ad aspettare che ci dicessero che saremmo morti. Vedevamo Kennedy, e avremmo voluto che ci dicesse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene. Ci dicono sempre che andrà tutto bene anche quando sanno benissimo che è la più grande delle bugie.
Il giorno più tremendo, il penultimo giorno di crisi, vidi Chris abbracciato a Julia che piangeva di rabbia, adirato come non l’avevo mai visto. Si mangiava le unghie, aveva le occhiaie, non dormiva quasi niente. Quando l’aereo di ricognizione statunitense venne abbattuto su Cuba, tutti trattennero il respiro. In quei minuti mi chiesi per cosa vivessi. Se dopotutto ci fosse veramente qualcosa per cui vivessi. Pensavo a Bianca, alle sue labbra, al suo vestito, al suo appartamento, ai suoi scatti d’ira. Pensavo: non c’è donna nel mondo con lo stesso fascino. Non c’è donna che sia più donna di lei.
Il ventisette ottobre fu la giornata più lunga della vita di molti americani. Ognuno non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. C’era da domandarsi perché mai qualcuno avesse permesso la costruzioni di armi nucleari. È così facile preparare armi che uccideranno intere masse di persone?
– Non capisco – continuava a ripetere Chris.
– Cosa non capisci? – chiedevo, con voce atona.
– Il motivo. Cristo santo, datemi un motivo – disperato, chiedeva una ragione al possibile massacro.
Tesi com’eravamo, quasi non ci rendemmo conto che il giorno dopo la crisi era finita. Non ci furono sospiri liberatori né abbracci, come se il fatto di trovarsi ancora lì, di essere ancora vivi, fosse di per sé più che sufficiente.