Prologo
Scrivere era l’unica cosa che sapesse fare. Lui lo sapeva, la sua famiglia anche, e persino i suoi amici lo sapevano. La scuola, la sua città, il mondo fisico, esistevano solo in piccola parte nella sua vita; era come se si trovasse in una nuvola enorme e solo raramente riuscisse ad uscirne per vedere il cielo. Eppure aveva solo diciassette anni, non era brutto e nemmeno antipatico. Anzi, tutto il contrario a voler essere onesti. Il problema era che non riusciva a trovare il suo posto nel mondo. Voleva viaggiare e girarlo tutto solo nella speranza che un giorno avrebbe trovato un posto dove stare. Un posto che lo volesse, che lo chiamasse con il suo aspetto, che gli dicesse «tu devi vivere qui».
Viveva in una perenne crisi esistenziale, non sapeva dare un significato alla vita, alla sua casa, ai suoi sentimenti. Provava amore e odio come tutti gli esseri umani, si consumava in essi ma non riusciva ad abbracciarli. Non urlava, come succede spesso a tutti, perché ardeva di rabbia, né smetteva di mangiare perché era innamorato.
Semplicemente leggeva.
E scriveva.
Quando aveva dodici anni, Charlie era diverso. Scriveva già, ma non aveva ancora raggiunto la piena consapevolezza che lo avrebbe portato a sentirsi un adulto nel corpo di un ragazzo.
Da quando era nato, la sua famiglia aveva vissuto in una cittadina di qualche migliaia di abitanti sulla costa occidentale della California. Due anni dopo di lui era nato suo fratello Alan. Erano cresciuti insieme, né troppo affezionati l’uno all’altro né troppo distaccati: formavano insomma una normalissima coppia di fratelli. Il padre di Charlie era il direttore di un ristorante, mentre la madre dava lezioni private di piano.
Charlie andava bene a scuola, giocava discretamente a tennis e aveva una buona compagnia di amici. Prendeva voti più che sufficienti, nessuno si lamentava di lui e tutti in città erano sicuri che sarebbe diventato una brava persona, e che sarebbe vissuto lì per sempre con la sua famiglia. Fu quando aveva sui quindici anni che qualcosa dentro di lui si ruppe.
Una mattina Charlie si svegliò con la terribile sensazione di essere una persona sbagliata. Allo psicologo che l’avrebbe seguito per qualche tempo disse che era come soffocare, come se un peso insopportabile gli gravasse addosso e lo schiacciasse giù, sempre più giù, fino a farlo rimanere attaccato a quel paesino per il resto della sua vita.
Da quel momento maturò l’idea di andarsene. Prendere e sparire, senza sapere bene dove. Dentro di lui germogliò la convinzione che niente avesse senso al mondo, che la vita fosse la cosa più noiosa e triste mai esistita; e poiché niente poteva esistere senza la vita, arrivò alla conclusione che essa fosse la causa di tutta la tristezza che le persone provavano.
Capitolo 1: Un mondo nuovo e impazzito
– Perché, non vi chiedete mai perché, ragazzi miei, la chiamano Rivoluzione Americana e non “rivoluzione inglese”? Pensate, gli europei sono venuti qui, quattrocento anni fa, e hanno sterminato tutte le popolazioni indigene. E noi, tempo dopo, abbiamo avuto il coraggio di chiamare americana la nostra rivoluzione. Gli americani, ragazzi, sono morti. Noi non siamo americani, né europei. Noi siamo cittadini del mondo. Questo dovete ricordare, che molti ancora lo dimenticheranno negli anni a venire, e ripeteranno, consapevoli, gli stessi identici errori.
Christopher, il mio miglior amico, alzò la mano.
Il signor Johnson gli fece cenno di parlare.
– Signore, la rivoluzione ci ha reso il paese più bello del mondo.
– Il paese più bello del mondo? Non c’è un paese più bello del mondo. È il mondo ad essere bello, Christopher. Con quale diritto chiamammo – e chiamiamo – nostra questa terra? Sappi che non è di nessuno, né tua, né mia, né nostra.
Mentre mangiucchiavo la biro riflettei su quelle parole che mi sembravano tanto vuote quanto lo era la mia testa ogni mattina alle sette. Ma non riuscii a pensare a nulla che già Chris stava ribattendo al signor Johnson:
– Signore, io sono orgoglioso di essere americano, oggi. E sono orgoglioso che degli uomini abbiano combattuto per l’indipendenza delle colonie tanti anni fa. Non vorrei sembrare maleducato, signore, ma sembra che lei non apprezzi questo fatto.
Addentai la biro con maggior vigore.
– Mi fraintendi, Christopher. Io sono ancora più orgoglioso di te. Ma vedi, una quindicina di anni fa si è chiusa la peggiore guerra che il mondo abbia mai visto. Tu eri appena nato, non te la ricordi, e qui in America non è stata sentita come in Europa. Sappi che una guerra del genere, benché nessuno la voglia, potrebbe ripetersi. Quello che sto cercando di farti capire, a te e ai tuoi compagni, è che non bisogna mai, mai, considerare qualcuno uno straniero. E se considerate una persona dai suoi costumi, ed essi sono rozzi e volgari, allora cercate di modificarli, di aiutarla, di mostrarle l’universalità dei diritti. Mi capite?
– No – rispose Chris sorridendo amareggiato. – Non completamente, almeno.
Io scrissi due versetti improvvisati sul quaderno e il signor Johnson sorrise a Chris.
– È questo, Christopher, il problema della gente. Non si capisce mai a parole. Di questo non dovete aver paura: di rimanere a corto di cose da dire. Credetemi, ci sono altri modi, più veri, più diretti, per parlare a qualcuno. Le parole possono essere cambiate, un po’ di qua e un po’ di là e il significato è stravolto. Non ho idea, né voglio saperlo, di quante persone abbiano sofferto a causa delle parole.
Chris disse: – Le sue lezioni sono sempre molto interessanti, signor Johnson. Certo, non so quante persone qui dentro condividano il suo pensiero, ma apprezzo il fatto che ci faccia riflet-tere su temi di indubbia importanza.
Un ragazzo dall’altro capo della classe rise. – Sei un cretino, Chris. Non saranno certo queste leccate a salvarti il culo, quest’anno!
La classe scoppiò a ridere e il signor Johnson, anch’egli ridacchiando, disse: – Vai fuori, James.
Il ragazzo che aveva parlato uscì tutt’altro che risentito.
– Bene, – sospirò il signor Johnson, – mancano cinque minuti, avete qualcosa da chiedermi?
Alzai la mano. – Signore, e se fossi io a sentirmi straniero a casa mia?
Mi guardò attentamente. – Tu ti senti straniero a casa tua, Charlie?
Non risposi. Lasciai che il silenzio lo facesse al mio posto.
– Be’, – riprese il signor Johnson, – se è così potresti non appartenere a questo paese.
– Come dice lei, signore, io appartengo al mondo – dissi.
Chris diede un colpo di tosse.
– Va bene ragazzi, potete andare. –
Parlato che ebbe Johnson, tutti si alzarono e presero i loro zaini.
Chris mi afferrò il braccio e, mentre gli altri uscivano dalla classe, si piantò di fronte al signor Johnson e disse:
– Naturalmente, signore, non faccia caso alle parole del mio amico, ultimamente ha sempre la testa fra le nuvole. –
– Ho notato. –
Stemmo un attimo zitti, poi Johnson riprese: – Be’, Charlie… se hai bisogno di parlarmi non farti problemi, va bene? E ora andate a casa.
– Arrivederci, signor Johnson – disse Chris sempre trascinandomi per il braccio.
– Arrivederci, ragazzi.
Una volta fuori dall’edificio, Chris tirò fuori un nuovo pacchetto di Marlboro dalla tasca dei pantaloni.
– Sigaretta? – mi chiese.
Annuii assente.
– Eddai, Charlie! – esclamò porgendomela. – Che hai? Non ti sarai mica innamorato, vero?
– No – dissi.
– Qualunque cosa sia potresti dirmela.
Mi accese la sigaretta.
– Vieni a mangiare da me?
Feci spallucce. – Devo avvisare a casa.
– E allora muoviti, ti ho appena invitato. Ci vediamo fra un’ora, mi raccomando. A dopo!
Ritirò l’accendino in tasca e si allontanò fischiettando.
Io presi la strada opposta. Mi sentivo la testa occupata da mille pensieri. Le parole del signor Johnson non avevano un solo significato, ma potevano voler dire tante cose allo stesso tempo. Era forse possibile che ciò che provavo fosse il non sentirmi a casa dove, dopotutto, la mia casa c’era? E cos’era quella paura che sentivo, il timore di non riuscire a trovare il mio posto o la convinzione che quel posto non esistesse?
Ai fianchi del viale che stavo percorrendo gli alberi erano spogli, e il fumo della sigaretta si confondeva con la condensa del mio respiro. L’inverno aveva la capacità di spegnermi fuori e accendermi dentro. Ribollivo d’ispirazione. Sentivo crescere dentro di me migliaia di nuove storie, decine di migliaia di vite e di amori, morti, delusioni, e gioie. La mia vita non mi bastava, esplodevo dal desiderio di viverle tutte. Non potendolo realizzare, scrivevo, scrivevo senza mai fermarmi, componendo una parola e pensandone cento. Questa situazione mi consumava e mi cambiava, quasi il mondo fosse all’improvviso impazzito.
Molto bello davvero. Personalmente trovo il tutto molto interessante ed attuale, nel senso che oggi chiunque potrebbe avere (o magari ha) le crisi esistenziali di Charlie. Tuttavia la soluzione al suo problema sarebbe alquanto semplice. Se tutto ruota ad una sua mancanza di identità, al fatto che si sente straniero in casa sua, non dovrebbe giungere alla conclusione secondo la quale casa propria è dove c'è qualcuno che ti pensa con affetto? :) P.S: Ancora complimenti Tambo :)
RispondiEliminaTò, chi si sente! ^^
RispondiEliminaTi rispondo subito: allora, la storia è ambientata nel 1960 (non lo dico, ma lo accenno col fatto che la seconda guerra mondiale è finita 'una quindicina di anni prima') in California. La crisie esistenziale è acuita dalla situazione vissuta dagli americani in generale in quegli anni. Comunque no, ho già scritto la frase che risolve il tuo quesito, resta solo da inserirla (probabilmente sarà più avanti). Al momento non la trovo.
A volte ritornano. Ahahahahaha xD Ecco, tutto ora mi è più chiaro. :D Beh, attendo con fiducia ed interesse il seguito. :)
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