"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

lunedì 30 maggio 2011

Quarto Capitolo

Viviamo di giornate sempre più corte

Il mattino dopo avevo un mal di testa assurdo. Ero crollato sul letto poco prima che i miei genitori tornassero. Ricordavo vagamente che mio fratello e Chris mi avevano trasportato di peso al secondo piano di casa mia, dove c’era la mia camera, e lì mi avevano lasciato. Chris e Julia si erano poi defilati giusto in tempo, e Alan era andato in camera sua a leggere.
Quella notte sognai pianure verdi sterminate, ma pur sapendo che esistevano, non riuscivo a ricordare dove avrebbero potuto trovarsi. Sapevo però che c’erano, e questo era tutto ciò che contava.
Era sabato e pioveva, guardai fuori dalla finestra appena sveglio e rimasi a fissare la pioggia, le goccioline che scendevano delicatamente per il vetro, divertito e felice che la natura fosse viva, che io fossi vivo, che tutto si muovesse e scorresse senza sosta, i giorni, le parole, gli sguardi. Quanta bellezza invisibile. Eravamo la luce che rischiarava il mondo, figli delle stelle e stelle a nostra volta, splendenti, vibranti di gioia.
Iniziai a pensare a quale follia fosse andarsene. Sentirsi straniero da qualche altra parte, non vivere nei posti in cui si è cresciuti, con le persone che si amano e che ci amano, non piangere con loro, non ridere con loro e non condividerne le lunghe giornate d’estate che sembrano non finire mai, le gite nei verdi prati della California e le notti in spiaggia.
E allora perché la mia idea non se ne voleva andare?
Presi un blocco di fogli, una biro, e iniziai a scrivere:

Caro Amico,
non so darti un nome, perché in realtà io sto scrivendo a me stesso, ma mi piacerebbe poterti chiamare amico, e che tu chiamassi amico me, in modo tale che possiamo raccontarci ciò che gli amici di solito si raccontano. E magari anche qualcosa di più, come quelle sensazioni che si raccontano solo a se stessi e che poi nemmeno si ammettono.

Posai la biro.
Quando scesi di sotto per la colazione, i miei genitori l’avevano già fatta ed erano in veranda a leggere su sedie a dondolo, mia madre un romanzo di Dostoevskij e mio padre il giornale del mattino. Nonostante il freddo e la pioggia, non si scoraggiavano dal prendere un po’ d’aria alla mattina, magari con un paio di coperte di lana.
Alan aveva quasi finito, e una volta che mi fui seduto mi chiese:
– Dov’è che vuoi andare?
– Via.
– Via dove?
– Il più lontano possibile da qui. Così lontano che dovrò sentire la mancanza di questo cazzo di posto. E allora, forse, tornerò.

La mia strada era lì davanti a me. Io la vedevo, ma era come se qualcosa mi ostacolasse il cammino. Quel qualcosa era me stesso. Dovevo scrivere per ricordare alle persone intorno chi ero, che eravamo tutti umani, tutti uguali, anche se tendevamo a chiedere il mondo intero per noi.
Passai la giornata a scrivere, instancabile come sempre. Chris venne da me verso pranzo a salutarmi, ma quando vide che non alzavo nemmeno gli occhi dal foglio, sorrise e mi disse che preferiva non disturbarmi, così se ne andò. Era bello avere un amico così. Era bellissimo.
Scrissi il tema per il signor Johnson, ma escogitai una piccola scorciatoia:

Come evitare le rivoluzioni.

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano.

Non smise di piovere, e io non smisi di scrivere. Decisi che quella era una legge e io agivo secondo quella legge, ero prevedibile, producevo quando c’era più tristezza. In primavera ed estate la mia città era troppo felice per i miei gusti, ora capivo che non potevo vivere lì per sempre se volevo fare lo scrittore.
Facevo alcune pause in cui smettevo di scrivere e andavo sotto la pioggia per sentire l’acqua bagnare il mio viso, chiudere le mie palpebre e inzupparmi i capelli.
Ero matto, ma ero vivo.

Scrissi talmente tanto e talmente intensamente che dimenticai che giorno fosse. Mancavano dieci giorni a Natale, e quello era il giorno fissato da mio padre e mia madre per attendere mia zia e mia cugina.
Quest’ultima, Wendy, godeva della mia massima stima. Aveva vent’anni e studiava legge a San Francisco. Mia zia era una donna molto fredda e distante, ma non per questo una cattiva persona; anzi, spesso, da piccolo, facevo ricorso ai suoi consigli.
Arrivarono verso sera, mentre io ero sul divano a scrivere e sul giradischi andava Que sera sera di Doris Day. Nel caminetto ardeva un piacevole fuocherello. Dato che mia zia era la sorella di mio padre, egli andò in strada, con l’ombrello, per scortare lei e mia cugina fino alla porta di casa.
Wendy, capelli castani e occhi marrone chiaro, mi sorrise e corse ad abbracciarmi (dopo aver fatto la stessa cosa con mio padre, naturalmente). Nonostante fosse più grande, io la sovrastavo di parecchi centimetri in altezza, e quindi dovette alzarsi in punta di piedi per scoccarmi gli usuali bacetti sulle guance.
– Come stai, carissimo cugino?
– Bene, e tu sei bella come sempre!
– Oh, mi piacerebbe contraddirti con qualche insulto, ma i nostri genitori sono qui, purtroppo.
Risi e l’abbracciai ancora. – Ce ne libereremo presto, tranquilla. Sono contento che tu sia qui!
– Anche io sono contenta di essere qui, Charlie.
Mia madre cambiò musica e subito la voce di Elvis Presley risuonò in salotto.
– Ecco perché mi mancava questa casa – disse mia cugina.
Adocchiò il blocco degli appunti su cui stavo scrivendo e chiese: – Una nuova storia?
Risposi: – Una nuova vita.
– Piccolo cugino mio, – disse Wendy, – non sei cambiato di una virgola dallo scorso anno, eppure mi sembra di vedere una luce diversa nei tuoi occhi.
– Wendy…
– Che c’è?
– Sto piangendo.

Il giorno dopo era domenica, e il sole splendeva alto nel cielo, illuminava le gocce di pioggia rimaste sulle foglie degli alberi, faceva sembrare i fiori ancora più belli, perché adesso era bagnati, ed erano vivi o piangevano. Io, Charlie Collins, amavo i fiori, perché essi erano vita, e ciò che era vita prendeva forma nelle pagine sulle quali la mia biro si posava.
Andai da Chris e mi portai dietro Wendy. Il mio amico stava cercando di venire a capo del tema che per causa sua il signor Johnson ci aveva affibbiato.
Mia cugina mi chiese cos’avessi scritto io.
Feci spallucce. – Dev’essere una sorpresa.
– Odio quando fa così – ammise Chris mangiucchiando la biro.
– Prova a scrivere che le rivoluzioni sono evitabili con un buon governo che tiene in conto gli interessi delle classi più disagiate, dev’essere quello che il tuo insegnante si aspetta – disse Wendy mentre Mary ci raggiungeva e salutava timidamente mia cugina.
– È proprio questo il problema – replicò Chris. – Devo scrivere qualcosa che il signor Johnson non si aspetti, ma di solito ci riesce solo Charlie.
– Ma tu non puoi scrivere quello che ha scritto Charlie. Devi scrivere quello che senti tu.
– Non riesco – disse Chris.
– Perché? – chiesi io.
– Per quello che hai detto l’altra sera, per il fatto che vuoi andartene. Non puoi farmi questo.
Rimasi in silenzio, e Wendy mi guardò con aria interrogativa, mentre la piccola Mary, percependo un velo di disagio, preferì allontanarsi e tornare dai suoi genitori.
– Non ho detto che me ne andrò, ho detto solo che voglio andarmene.
– Charlie, – disse Chris, – sai meglio di me che quando dici una cosa, poi la fai. Era da un po’ che ti comportavi in modo strano, e ora che so cosa ti passa per la testa, so anche che manterrai fede a ciò che hai detto e lascerai questa città. Forse non domani, ma presto lo farai.
– Chris, di cosa hai paura?
– Ho paura di te. Ho paura che tu non tornerai.

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