"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

sabato 4 giugno 2011

Quinto Capitolo

Dimmi come ti chiami

Le rivoluzioni non si possono evitare. Arrivati a un certo limite la gente si ribella, è inevitabile. Sarebbe come tirare un pesce fuori dall’acqua e aspettarsi che non si dimeni per tornare nell’oceano. Come ti è venuta? – mi chiese il signor Johnson.
– In nessun modo, è venuta e basta.
– Ne riparliamo dopo la lezione, Charlie. Oggi avevo intenzione di spiegarvi i logaritmi, e…
E io caddi in catalessi, come in ogni lezione di matematica. Il lato positivo era che proprio in quelle ore nascevano le migliori idee. Ciò a cui avevo iniziato a lavorare si prospettava essere un lavoro lungo e serio, e ciò che lo spingeva, il motore che lo mandava avanti lentamente, era la mia inquietudine, l’agitazione che mi prendeva quando non mi sentivo al posto giusto.
Spesso mi chiedevo cosa avrei fatto se avessi amato una persona lontana miglia e miglia, cosa avrei fatto se la mia famiglia mi avesse odiato, cosa avrei fatto se non avessi avuto Chris, se non avessi avuto Wendy, se non avessi avuto nessuno, nessuno a cui voler bene, nessuno da amare. Mi chiedevo cosa avrei fatto se, alla fine della mia vita, mi fossi accorto di non averla vissuta. Quante persone arrivano all’ultimo giorno della loro vita senza più capelli da strapparsi?
Guardavo il signor Johnson e mi ripetevo le stesse domande, rimanevano i dubbi, e poi tutto quello che gli adulti sapevano dire era «sono ragazzi», ti cantavano come un pappagallo che saresti cresciuto, che avresti capito. Ciò che io mi chiedevo in quei giorni era se loro avessero veramente capito, crescendo. Ma mi bastava guardarli per capire qual era la risposta.
I ragazzi odiano la scuola, pensavo, ma è lì che imparano tutto, nel bene e nel male. Lì imparano a sentirsi prigionieri e lì imparano a sentirsi liberi, quando ne escono. Non era forse anche questa una legge universale, inevitabile?
Il signor Johnson mi chiamò fuori dalla classe quando suonò la campanella. Mi disse che in poche righe ero riuscito ad esprimere ciò che i miei compagni non erano riusciti a fare in pagine e pagine di compito. Sarebbe stato troppo facile, disse, prendere il mio compito per una prova di pigrizia, ma piuttosto gli sembrava mettesse in risalto la mia grande capacità di sintesi e comunicatività letteraria.
– È questo il problema, – gli risposi, – so comunicare solo attraverso le parole scritte. A parlare sono bravi tutti. Io no.
Rispose: – A scrivere non è buono quasi nessuno. Tu sì.
Non risposi.
Mi chiese: – Ti piace l’America?
– No.
– Lo immaginavo. Ma l’America è enorme, non è la California.
– Come faceva ad immaginarlo?
Il signor Johnson mi fissò dritto negli occhi. – Te lo si legge sul volto, Charlie, che tu qui stai soffocando. Non ne puoi più. Devi trovare il tuo posto nel mondo. Ad alcuni viene naturale, un giorno si svegliano e si accorgono di essere cambiati. Per te è più difficile. Tu devi alzarti e muoverti, non cambi da solo. Devi vedere il mondo e cercare di capire perché sei qui. Sono sicuro che non ti demoralizzerò se ti dico che una risposta a una ricerca del genere è quasi impossibile da trovare, vero?
– Sì, signore.
– E allora cosa farai?
– Non glielo posso dire, signore. Cercherebbe di impedirmelo. Buona giornata, signore.
Lo lasciai lì così, immobile a guardarmi mentre me ne andavo per il corridoio della scuola, ormai deserto.

– Cosa stai leggendo? – chiesi a Wendy.
Lei chiuse il libro tenendo il segno con l’indice. – Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, e tu, caro cugino? O sei troppo impegnato a scrivere per leggere un buon romanzo?
Ridacchiai. – Grandi Speranze, Dickens.
– Ah! Bene, bene.
L’avevo raggiunta sulla veranda di casa mia. Mi sedetti su una delle sedie a dondolo e mi misi a scribacchiare qualche ap-punto sul mio blocco di fogli.
Dopo qualche minuti m’interruppi e le dissi: – Posso fidarmi di te?
Lei alzò gli occhi. – Certo che puoi.
– Sabato prossimo me ne vado da qui. Non posso dirti né come né perché, ma volevo che tu lo sapessi. Mi dispiace abbandonarti e non passare con te il Natale, ma devo farlo.
Poi scoppiai a piangere perché non riuscivo a capacitarmi che avevo veramente pronunciato quelle parole. Ero pazzo, pazzo, pazzo.
E invece mia cugina mi abbracciò e mi tenne stretto stretto, e io le volli bene come non mai, e la strinsi anch’io, e le dissi che l’adoravo, che sapevo di poter contare su di lei, e ancora che mi dispiaceva tantissimo doverla lasciare proprio ora che era arrivata, e le chiesi di perdonarmi, ma di non dimenticarmi mai e poi mai, perché io non avrei mai smesso di volerle bene, e lei lo sapeva.
Poi si staccò da me e disse: – Su una cosa sono sicura al cento per cento, Charlie: che la vita ti può apparire bella un momento e triste il momento dopo, ma che è una cosa unica, che al suo termine niente la sostituirà, né le preghiere che hai recitato in vita, né il fatto di non rassegnarsi a diventare parte della terra.
– Cosa devo fare?
– Quello che ti senti di fare. Cerca solo di non fare troppo male agli altri con la tua assenza. Può non sembrarti così, ma in questo posto è pieno di gente che ti vuole bene. E tra questa gente potrebbe esserci anche chi non ci penserebbe due volte a morire per te.

Chris mi aspettava per un giro in libreria quella sera. Il mio amico non leggeva molto, più che altro solo i libri che ci dava da leggere Johnson, però non gli dispiaceva accompagnarmi a fare un giro per cercare nuove letture.
Quella sera aveva lo sguardo torvo e mi guardava di sfuggita, scuro in volto. Se pensavo a cosa avevo intenzione di fare, avrei voluto inginocchiarmi sul posto e chiedergli scusa, e rimangiarmi tutti i miei propositi.
Io sapevo che lui avrebbe voluto aiutarmi, ma il fatto che io rifiutassi il suo aiuto e blaterassi riguardo a una prossima partenza, lo rendeva furioso con sé stesso, come se avesse fallito in qualche cosa.
Tuttavia, l’unico che avesse fallito, ero io. Avevo fallito a vivere. Potevano dirmi che non era vero, che in realtà stavo soltanto attraversando una crisi. Ma cos’era la mia vita se non un alternarsi di idee e giornate apatiche? Qualcuno avrebbe detto che scrivere fosse l’unica cosa che sapessi fare, e io avrei confermato. Sapevo solo scrivere, e mi sentivo inutile. Terribilmente inutile. Come avrei potuto spiegare questo a un amico?
– Chris.
Girò leggermente la testa verso di me.
– Sì?
– Mi dispiace per quello che ho detto l’altro giorno. Non partirò, non intendo farlo. Mi dispiace.
Il suo viso si rilassò, e io mi sentii uno schifo assurdo.
– Non che mi fidi tanto delle tue parole, ma è già qualcosa. Potresti consigliarmi qualcosa da leggere prima che ti prenda a pugni?
Alla fine uscimmo dalla libreria con un sacchetto pieno. Io avevo comprato Tenera è la notte di Fitzgerald, Il Giovane Holden di Salinger e un libro di poesie di Emily Dickinson. A Chris consigliai I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, visto che gli piaceva parlare delle rivoluzioni.
– Senti, – mi disse Chris, – mi è avanzata una terza bottiglia di vodka dopo l’ultima volta. Che ne dici di andare a scuola da fatti, domattina?
Io scoppiai a ridere fino alle lacrime, e per un attimo dimenticai tutto.
– Dio, tu sei completamente matto! Ma ci sto, cazzo, ci sto!

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