"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 14 giugno 2011

Settimo Capitolo

Questi anni non me li ridarà nessuno

Decisi che non sarei ritornato indietro in nessun caso. Non perché mi sarei sentito sconfitto, ma perché non avrei potuto rimanere in pace con me stesso sapendo che mi ero rassegnato a un certo tipo di vita. Io volevo di più, volevo le stelle, l’universo, e non c’era niente e nessuno che potesse darmeli. Di questo soffrivo: un terribile delirio di onnipotenza.
Non tanto per cattiveria volevo possedere le cose, o per far di loro ciò che più mi premeva, ma più che altro per esser certo che ci fossero, che potessero essere toccate, raggiunte. Volevo esser certo che non ci fosse alcun traguardo alla mia immaginazione; così come quando scrivevo ero preso dalla frenesia di metter per iscritto la mia mente intera e non solo poche righe.
Quella notte che avrei dovuto riposare, mentre Chris e Julia dormivano silenziosi, il respiro calmo e regolare, io scrissi fino all’alba, scrissi e scrissi, frasi sconnesse fra loro, periodi senza senso e insiemi di parole raccapriccianti, nemici di un ordine che non sopportavo. Scrissi anche dopo che il sole fu sorto, perché i miei amici non davano segno di voler destarsi e io non avevo ancora esaurito la vena creativa.
– Che fai?
Quando la voce di Chris risuonò chiara e netta, io ebbi un lieve balzo, ma poi ripresi a far scorrere la biro sulla carta.
– Non vedi?
– Lo vedo. Hai dormito?
Scossi la testa.
Egli sospirò. – Vorrà dire che guiderò io, oggi.
Alzai gli occhi dal foglio. – Non andremo da nessuna parte, siamo arrivati ieri sera.
– Pensavo volessi già tornare.
– Pensavi male.
Allora, forse, comprese che facevo sul serio, che non scherzavo. Non poteva riportarmi indietro, perché io sarei andato avanti, e in quel momento credetti – e lo credo ancora – ch’egli avesse avuto paura.
Mi chiese per quanto tempo saremmo rimasti lì e io risposi che non lo sapevo. Avevo intenzione di provare a fare il cameriere nello stesso hotel in cui alloggiavamo, dato che, all’ingresso, stava un cartello con scritto che si cercava personale, e io avevo avuto modo di appurarmene la sera prima a cena. Chris si trovò d’accordo con me e disse che anche lui si sarebbe proposto per quel ruolo, ma che lo stesso non credeva saggio rimanere lì per molto, così vicino a casa.
Julia aprì gli occhi e chiese: – È giorno?
– C’è il sole! – dissi io.
– La mia era rassegnazione – rispose lei con un sorriso.

San Diego era una città non troppo grande all’epoca, ma per me era enorme. Le luci alla sera illuminavano ogni angolo, rendevano visibile quella vita notturna che a casa era impossibile scorgere, e sebbene io non apprezzassi il troppo divertimento, all’inizio ne fui piacevolmente sorpreso, tant’è che io, Chris e Julia passammo fuori le prime due sere, durante le quali il mio amico s’impegnò anche per trovarmi una ragazza, senza ovviamente alcun successo.
Io ancora non capivo alcuni dei perché della vita di San Diego, e dunque non potevo decidere di partire. Quando non ero in servizio all’hotel osservavo la gente, e mi sforzavo davvero, fino a farmi dolere la testa, di comprendere la ragione che stava dietro a quei gesti tanto più frenetici ai quali ero così abituato.
Non giunsi a nessuna conclusione se non quella secondo cui non esistevano conclusioni. La gente era così e basta. Era più veloce e meno dedita all’ozio perché non aveva tempo, la società era più grande e la gente vi si adattava, forse senza nemmeno rendersi conto. C’era sempre festa il venerdì e il sabato sera, soprattutto il venerdì. Mi sembrava che le persone s’accendessero una sigaretta sentendosi sole e sperando in un sabato migliore. Io, dal canto mio, iniziai seriamente a temere per il mio fegato e per quello dei miei amici, perché, non es-sendo ora soggetti a restrizioni di qualsivoglia tipo, ci davamo alla pazza gioia. Buona cosa alla nostra età, ma imporsi dei limiti è un bene in ogni caso.
La mia vita a San Diego subì una svolta fondamentale quando conobbi un tale di nome David Taylor, un ragazzo sui venticinque anni che faceva il facchino all’hotel. Egli si dimostrò fin da subito troppo ciarliero con me, e ciò mi indusse a pensare ch’egli volesse gabbarmi in qualche modo.
Chris la doveva pensare allo stesso modo, perché non appena si accorse della troppa confidenza che David aveva con me, mi disse: – Stai attento, Charlie! Non ti fidare di nessuno, sei giovane e gli altri potrebbero pensare che tu sia ingenuo.
Se avesse ragione o meno ancora non lo sapevo, intanto strinsi amicizia con David, e lui prese ad uscire regolarmente con me, Chris e Julia. Il Natale lo passammo noi tre nella nostra stanza d’albergo, e fu un Natale felice, ma Wendy mi mancava da star male. Arrivò Capodanno, e bevemmo così tanto che il giorno dopo fummo costretti a letto tutto il giorno, mentre non ricordavamo proprio niente di ciò che era successo la sera prima. Gennaio volò e giunse febbraio. A quel punto David sapeva di me anche più di quel che avrebbe dovuto sapere, mentre io, credendo di saper tutto di lui, in realtà sapevo ben poco.
Era questo un motivo in più per Chris di rimproverarmi, ma io non gli diedi molto ascolto. Quel David aveva come unico scopo quello di diventare più importante all’intero della gerarchia dell’hotel. Egli voleva divenire maggiordomo, ma come potesse fare non immaginavo davvero.
Una sera, apparecchiando per la cena, egli fece cadere con un gomito un’intera fila di bicchieri, ma, anche semi parve che l’avesse fatto di proposito, non mossi obiezioni quando mi disse di iniziare a pulire mentre nell’attesa correva a prendere un sacchetto per nascondervi tutti quei vetri. Così rimasi sbigottito nel momento in cui si presentò in sala con il responsabile dell’albero che alla vista del disastro divenne paonazzo.
– Charlie è impazzito, signore, ha buttato giù tutti i bicchieri in un attacco di nervi, davvero non so che gli abbia preso!
– Sei un fottuto figlio di puttana!
Credo che mai come in quel momento mi ero sentito così pieno d’ira. Ero sicuro che avrei facilmente spaccato la faccia a quel buffone se ne avessi avuto l’opportunità.
Ma le mie parole avevano solo confermato quelle di lui, e io venni licenziato subito e mi si disse che avrei dovuto lasciare l’hotel la mattina dopo, mentre i miei amici, se volevano, potevano restare. David Taylor fu fatto maggiordomo per il servizio di denuncia svolto.
Naturalmente i miei amici fecero i bagagli con me, e si scusarono anche per quel che m’avevano detto su David, poiché erano sicuri che nemmeno loro avrebbero capito cosa egli avesse in mente prima che avesse avuto l’opportunità di metterlo in atto.
Decidemmo all’unanimità che era giunto il momento di lasciare San Diego e raggiungere Los Angeles, ma prima scrissi un’altra lettera ai miei avvertendoli che tutto andava bene e che non passava giorno, anzi, ora o minuto, senza che pensassi a loro. Dedicai anche due righe ad Alan e gli dissi che gli volevo bene e che non ero stato un fratello tanto buono andandomene. Poi, mentre Chris e Julia facevano lo stesso con le loro famiglie, io scrissi un’altra lettera e la indirizzai a Wendy, e le dissi che il mio amore per lei rimaneva immutato, e che se l’avevo resa triste, il renderla triste aveva reso me ancora più triste di quando lei non fosse già.
Così partimmo per Los Angeles.

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