"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

giovedì 30 giugno 2011

Nono Capitolo

È forse la libertà?

Chris diede subito segno di un innato talento per la pittura. Ogni volta che finiva tre o quattro disegni, si appostava all’entrata del condominio e in una giornata riusciva a venderli tutti. Questo mentre io iniziavo a lavorare al giornale anarchico The Anarchist. Il mio primo, breve articolo fu sul grande carisma che possedeva il presidente Kennedy, ma che, secondo la direzione del giornale, non cambiava di molto la situazione in America. C’era sempre troppo potere concentrato in troppe poche mani. Inoltre girava la voce di una crisi molto prossima a causa di alcune posizioni del governo cubano.
I parchi di Los Angeles si accesero con la primavera. Nella fioritura degli alberi c’era una rinascita della vita che, a dispetto di quanto fosse scontata, mi riempiva sempre e comunque di una gioia infantile che ancor oggi non mi spiego. Credo che si possa paragonare alla felicità che invase mia madre quando nacqui, mentre l’inverno non era altro che il momento in cui me n’ero andato, rendendola così infinitamente triste.
Con l’arrivo della primavera successe anche un’altra cosa: finii la mia nuova storia. Era lunghissima e parlava di un giovane che si era innamorato di una fanciulla molto nobile che purtroppo non ricambiava il suo amore. La storia era particolare perché il padre di lei, nonostante il giovane non fosse di alto lignaggio, avrebbe acconsentito volentieri al matrimonio. Volevo dimostrare che l’ostacolo all’amore non solo le persone, ma l’amore stesso. Tutto il racconto era incentrato sul viaggio che il giovane compiva per dimenticare, per non impazzire. Il problema era che il solo amare la fanciulla lo rendeva felice, ma il suo rifiuto lo torturava. La follia più luminosa è l’amore. La feci leggere a Chris e a Julia e gli piacque tantissimo.
Li resi felici, con quella storia.
Mi dissero:
– Charlie, è bellissima.
E lo dissero con sincerità.
Questo mi rese libero.
Non mi resero libero i fiori che timidi tornavano a costellare i prati, gli alberi che riconquistavano il loro verde, il vento fresco del cambio di stagione sul viso e il sole piacevole. Mi resero libero quelle tre parole. La certezza di aver fatto qualcosa di buono, di aver reso felice qualcuno con il proprio lavoro.
La cosa bella della vita è che spesso, tra tante azioni sbagliate, si fa qualcosa di giusto.
Un giorno io e Chris camminavamo per strada, in centro, e gli dissi:
– Chris, secondo te quante di queste persone credono di non essere brave a far niente?
– Quante?
– Sì, quante? Una? Tre? Dieci? Cento? Forse tutte. Forse siamo tutti degli incapaci. Ci illudiamo di essere capaci a far qualcosa, ma non è vero.
– Tutte è un gran numero.
– Tutte non è niente.
– Come non è niente? – chiese, perplesso.
– Non è niente finché in quel tutte non ci sei dentro anche tu. In quel caso sì che diventa davvero tanto.
Chris sospirò perché ci era abituato. Alla mia pazzia ci si faceva l’abitudine, soprattutto se si era miei amici.

Quando cambiammo appartamento, quello nuovo aveva due stanze in più dell’altro. In una, molto piccola, ci misi il giradischi in modo tale che la musica uscisse dalla porta e si riversasse negli altri locali. Le giornate passavamo al ritmo di rock n’ roll e, ogni tanto, un po’ di musica classica.
Nei giorni in cui Chopin rilasciava la sue note, l’atmosfera era di totale rilasso. Si poteva parlare senza mai alzare la voce, fischiettare, dormire, studiare o cucinare, qualsiasi cosa, e Chopin t’accompagnava, dolce come i baci che si scambiavano i miei amici e che anche io avrei voluto scambiare con qualcuno, un qualcuno che temevo non sarebbe mai arrivato.
Fu quando suonava Chopin che io ricevetti una lettera di Wendy.
– Le hai dato l’indirizzo! – esclamò Chris quando glielo dissi. Julia rimase in silenzio a fissare il soffitto, sdraiata sul divano del soggiorno.
– Solo a lei – risposi.
– Dio santo, sai se…
– Non l’ha fatto – lo rassicurai io mentre l’aprivo.
Non la lessi ad alta voce, prima volevo leggere da me cosa mia cugina mi avesse scritto:


28 Aprile 1961


Caro cugino,
ho ricevuto le tue lettere, e quando finalmente, insieme ad esse, mi hai inviato anche il tuo indirizzo, non ho potuto trattenere le lacrime.
Non ho passato esattamente un periodo felice dopo che te ne sei andato. Non che sia colpa tua, ci mancherebbe altro. Rispondo io per i tuoi genitori, dato che loro non possono. Essi ti amano come non mai, Charlie. Dopo tutto questo tempo hanno capito che te ne sei andato per trovare te stesso, ma questo non li aiuta ad accettare il fatto.
Capiscono, ma non accettano. È davvero possibile accettare che il proprio figlio se ne sia andato perché non si trovava bene dove viveva? Non capisci? Lo prendono come un loro fallimento.
Ad Alan manchi. Tantissimo. Poco prima che me ne tornassi a casa con tua zia, l’ho beccato piangere in camera sua. Piangeva per te. Te ne rendi conto? Piangeva per te. Per te. Tuo fratello.
E quante volte ho pianto io, lo immagini? Cosa devo fare, Charlie? Io so che non l’hai fatto con cattiveria, che in un certo senso
dovevi farlo, ma cosa devo fare, io? Pur vedendoti una volta all’anno, io ti voglio tantissimo bene. Forse è proprio per questo che piango. Perché sapendoti lontano, temo che salterai l’appuntamento del prossimo Natale. O di quello dopo ancora. Ho paura. Non hai paura anche tu, così lontano dalla tua famiglia? Tutti hanno paura, lo sai, persino le formiche che scampano al piede dell’uomo. Io ne ho tantissima. Soprattutto per te.
Quando
troppe righe sopra mi riferivo a un periodo poco felice della mia vita, parlavo di un ragazzo. Credevo fosse buono, credevo che mi amasse. E, forse, a modo suo mi amava veramente. Ma stare con lui era un inferno. Il suo parere era che dovessi tagliare via dal mondo tutte le persone, perché per lui esistevo solo io e per me doveva esistere solo lui. Non potevo nemmeno dire che un attore mi piaceva! Nel suo amore non sapeva abbracciarmi, mi allontanava. Ci ho perso tre mesi, ma ora sto meglio. Tra poco avrò un esame, e a meno che tu non cambi indirizzo, ti farò avere gli esiti.
Davvero non saprei che altro dirti, Charlie. Ho come l’impressione che prima o poi te ne andrai anche da Los Angeles. Sempre più lontano. Ad est, dove sorge il sole. Ma non troverai una nuova vita. Ci saranno altre città, altre persone. Però il mondo è uno solo. Come te. Come me. Siamo tutti unici. Anche i ladri, gli assassini e gli stupratori cercano qualcosa che non c’è. Giudica le persone, non le azioni. Così farò anch’io.
Ti mando una carezza, sperando che ti arrivi.



Tua, Wendy.


La passai a Chris, che si sedette vicino a Julia sul divano. Alla fine non dissero nulla, me la porsero e io andai a custodirla nel cassetto del mio comodino, ripiegandola con cura come se fosse d’oro. Anzi, qualcosa di più prezioso. L’affetto di una persona che ci vuole bene vale più di ogni altra cosa, più di ogni gioiello. Se si capisse questo, il mondo non sarebbe un brutto posto.

2 commenti:

  1. E' davvero bello! Mi ha competamente assorbita, attendo con impazienza il prossimo capitolo. Complimenti e, se posso, sei un fottuto genio!

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