"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

giovedì 28 luglio 2011

19° Capitolo

Si soffoca sempre

Le notti erano insonni o, come direbbe un dannato prete, impure. Viaggiavo tra le stelle e tentavo di afferrarle con frustrazione, le volevo per me con l’intento di governarle, dar loro un nome e abitarle contemporaneamente, nell’eccesso di potere che un ragazzo prova da innamorato o da arrabbiato, credevo di poter dominare l’universo, piegare le galassie al mio cospetto e urlare nel vuoto chiedendo atterrito, spaventato, da dove mai venissero le lacrime di gioia, se quando uno piange è quasi sempre triste.
Un coro di stelle avrebbe potuto dirmi: – Vuoi l’universo, Charlie? L’intero universo con tutte le stelle e i pianeti e i buchi neri e gli asteroidi e le nebulose e tutto il resto? Lo vuoi davvero?
Avrei risposto: – Sì, lo voglio.
– Perché? Perché lo vuoi? Sapete dire solo “voglio”, voi esseri umani?
La risposta a una domanda del genere è così palese che restare in silenzio è, in casi come questo, la cosa migliore da fare. Toglie un po’ di vergogna all’ammissione e spazza via il timore di sentir la propria voce tentennare a metà sillaba, lascia un po’ di respiro ai pensieri offuscati, il cervello lavora a pieno ritmo sempre, ma collegare le parole tra loro in frasi compiute e donare un filo logico al discorso è un lavoro non retribuito e assai più arduo che utilizzare termini in voga o semplificati come quelli che usano e le nuove generazioni dopo averli forgiati esse stesse.
Io non riuscivo a focalizzare la mente su un solo pensiero, tranne quando, ovviamente, si trattava del profumo di Bianca Anderson. Chi si sente infinito a volte si stupisce, ma la verità è che non c’è niente di strano nel sentirsi capace di abbracciare il mondo. L’infinito è nella nostra mente, e chi non la usa se non in particolari eccezioni continuerà a credere che sentirsi infinito è una rara capacità innata.

– Signora, posso scrivere delle lettere?
Vidi il volto di Bianca Anderson trasformarsi in una maschera di cartapesta accecata dall’ira.
Lettere, Charlie? Lettere?
– Uh… ehm… sì, lettere… quelle cose di carta che si spediscono a…
NON MI PIACE CHE TU SCHERZI CON ME, CHARLIE!
La mia adorata donna in rosso di nome Bianca aveva alzato notevolmente la voce. Un brivido mi percorse la spina dorsale. Thomas era andato a prenderle il Times e la colazione, e io aspettavo insieme a lei.
– Niente lettere. – feci io.
ESATTO, CHARLIE. NIENTE LETTERE!
– Mi… mi scusi.
Sembro rilassarsi all’improvviso. – Oh, no, devi scusami tu. Ogni tanto mi capita di esagerare. Da quanto sei qui, bambino mio? Una settimana.
– Due settimane, signora.
– Oh, e ti piace stare qui?
– Da matti.
Sorrise sadica. – Da matti, signora.
Risposi al sorriso, esasperato. – Da matti, signora.
Mi ignorò: – A chi intendevi scrivere quelle lettere, eh Charlie? A chi cazzo intendevi scriverle? Lo voglio sapere. Se io ti chiedo una cosa tu devi dirmela, lo sai vero, bambino mio?
– Volevo scrivere a mia cugina, signora.
– È bella, tua cugina?
– Molto, signora.
– Come me?
– No, signora.
– Io sono più bella?
– Lei è molto più bella, signora. Lei è bellissima.
Scoppiò in una risata pulita, vera.
Si sporse dalla sedia, accostò il suo viso al mio.
– Sei carino, Charlie.
– Me l’ha già detto, signora. Due volte.
– Davvero?
– Sì.
– Poco importa. Ti piacerebbe baciarmi, Charlie?
Risposi senza esitare. Avevo le stelle in mano. Mi obbedivano.
– Molto, signora.
– E allora perché non lo fai?
Non mi diedi la pena di risponderle e appoggiai le mie labbra alle sue, delicatamente, come se volessi dimostrarle che fare le cose dolcemente è possibile sempre.
Lei rispose al bacio con furia, portò la mano destra dietro la mia testa e mi strinse i capelli, io le accarezzai la guancia e tentai di calmarla. Un po’ ci riuscii, si tranquillizzò e smise di mordermi le labbra.
Si staccò di un millimetro, quel tanto che bastava per parlare.
– Sono sempre così ordinati? – mi chiese.
Immaginai alludesse ai miei capelli. – Sempre.
– Posso spettinarteli?
– Puoi spettinarmeli.
Fu la prima volta che le diedi del tu.
Continuammo a baciarci fino a che non sentimmo i passi di Thomas in corridoio che portava il Times e la colazione.
– Sei bravo, Charlie. – mi sussurrò Bianca. – Mai stai attento, perché anche i migliori, a volte, possono cadere.

***

Quella sera stessa, mentre ero in camera, Bianca venne a dirmi che mi avrebbe fatto uscire da quell’appartamento, da quel grattacielo.
– Andiamo al cinema.
– Che film?
Colazione da Tiffany.
Con voce carica di sottintesi risposi: – L’abbiamo già fatta, la colazione. Ricevetti in risposta una risata. Iniziavo a diventarne dipendente.
Ne volevo di più. Volevo tutta Bianca, tutto il corpo, tutta l’anima. Se c’era qualcosa che potesse renderla mia per sempre, l’avrei fatto. Allo stesso tempo ne rifuggivo, ne ero impaurito, stavo sperimentando una nuova droga e temevo con tutto me stesso di assuefarmi a essa troppo in fretta e irrimediabilmente.
Andammo al cinema e io per strada assaporai nuovamente l’aria, anche se si trattava di quella di giugno. Rimasi per tutto il tempo fra Thomas e Bianca. Quest’ultima, a quanto pare, non si fidava ancora di me, e non riuscendo a contemplare una mia ipotetica fuga, mi faceva tenere d’occhio dalla guardia del corpo.
Quando il film iniziò avvicinai timidamente la mia mano a quella di Bianca, e gliela accarezzai piano. Lei non si mosse, non diede cesse di aver sentito il mio affetto. Guardava lo schermo, così mi concentrai anch’io sul film, ma era un film orribile. O forse lo giudico orribile solo perché tutto ciò che ricordo di quella sera è la mia mano sopra quella di Bianca. Usciti dal cinema successe la prima cosa che turbò sul nascere il mio rapporto con lei.
Credetti di vedere Wendy, ma non potevo esserne sicuro perché quella ragazza mi stava dando le spalle. Ciò bastò a sconvolgermi l’animo e riempirmi di sensi di colpa. Me n’ero andato da Chris e Julia con la scusa di dover trovare me stesso, e invece mi stavo perdendo.
Un osservatore esterno avrebbe detto che ero già perso. Alla mattina, allo specchio, faticavo a riconoscermi. Ripresi a scrivere, ma stracciai tutto, disgustato dall’orrenda scrittura che non potevo evitare di usare.
Basta, mi dissi. Basta basta basta.
Così come la stella più luminosa di un gruppo di stelle è quella che ci balza all’occhio per prima, allo stesso modo le persone a cui teniamo di più, anche se sono lontanissime, sono le sole a cui pensiamo ogni mattina appena svegli.

18° Capitolo

Frenesia di labbra

Trascorsero giorni in cui i miei unici problemi furono di avere un alito sempre fresco e un aspetto presentabile. Iniziava a crescermi la barba e implorai Thomas di procurarmi tutto l’occorrente per radermi senza che Bianca lo venisse a sapere. Ma naturalmente lei lo venne a sapere, o almeno così credetti io. Nei momenti in cui lei aveva i suoi momenti di dolcezza e appariva spensierata, io mi trovavo con la mente sotto un celeste cielo primaverile, qualche nuvola bianca che non oscurava il sole, un venticello fresco tra i capelli e canarini felici e cinguettanti sugli alberi. Poi succedeva che Bianca Anderson avesse una crisi isterica per una nullità, come un discorso di Kennedy o una gocciolina di condensa sul vetro della cucina, e allora io sparivo dalla sua vista, mentre Thomas rimaneva lì di fronte alla sua padrona a ricevere tutti gli insulti e i rimproveri a mancanze mai esistite.
Iniziai ad avere sogni impuri, ma da cui traevo sollievo nonostante dissacrassero l’immagine quasi divina che mi ero fatto di Bianca. Andavo da lei con un sorriso beato e idiota sulla faccia, e lei assaporava la sua vittoria in ogni sfumatura del mio volto, in ogni increspatura della fronte e luccichio degli occhi. Aveva senza dubbio un’innata capacità d’osservazione grazie alla quale nulla poteva sfuggirle, nemmeno il ticchettio nervoso di un’unghia sul legno del tavolo, in attesa della colazione o del pranzo o della cena o solo di una risposta.
– Charlie caro, non dovresti essere così impaziente – mi disse Bianca alludendo al movimento delle mie dita irrequiete.
– Non sono impaziente – replicai io, irritato. E impaziente.
– Sì, invece. Ti ho fatto chiamare da Thomas venti minuti fa ma la cena non è ancora arrivata. Chissà cosa stanno facendo al ristorante del secondo piano. Il cuoco è un omosessuale attivo, potrebbe aver trovato qualche nuovo garzone appetitoso.
Rise di una risata isterica. Io lanciai un’occhiata a Thomas carica di molteplici domande.
– Non ti preoccupare, tesoro, non ti manderò giù dal cuoco. Preferisco cucinarti io di persona!
Scoppiò in una risata ancor più isterica della precedente.
– Vedi, bambino mio, la vita di città a volte risulta lievemente stressante e si ripercuote sui comportamenti degli abitanti… Non devi sentirti imbarazzato davanti a certe espressioni o atti volti alla pura e semplice ricerca dell’ironia… Mi hai capito, Charlie? Stavo scherzando, tutto qui. Non dirmi che ti sei spaventato! Ah! Lo sapevo, avevi paura che ti mandassi dal cuoco! Lo sapevo!
Cercai di sorridere, intimorito da quel comportamento poco femminile, fermo restando che la sua figura non cessava un solo istante di emanare grazia e sensualità.
– Cos’è quell’espressione da cane bastonato, tesoro? Fai un bel sorriso, su! So che non è facile rimanere in questa casa senza mai uscire. Uno della tua età vuole divertirsi, credi che non lo sappia? Solo che è necessario, mi dispiace.
– La sua è una casa molto… ehmm… suggestiva, signora.
Lei sorrise. – Lo so, lo so. È bella, né? Ah! Scusami, devo avertelo già chiesto. Cos’avevi risposto?
– Niente, signora.
– Bugiardo. Tu menti troppo, Charlie caro. Avevi risposto che assomigliava all’inferno, dico bene?
Mi agitai sulla sedia, a disagio. – Suppongo di sì, signora.
– Tu supponi di sì, Charlie? Non si dicono le bugie alla zia Bianca.
Non riuscii a trattenere il sarcasmo: – Lei è mia zia, signora?
Fece un mezzo sorriso gelido. Ebbi terrore di quegli occhi saturi di una malignità glaciale e impenetrabile.
Non mi piace quando scherzi, Charlie.
Tacqui, desolato.
– Per quanto ancora mi terrà qui? – provai a chiederle, distrutto dal dolore per tanta freddezza da parte della donna che amavo.
Il necessario, Charlie. Il necessario.
Sospirai.
Qualcuno suonò il campanello e subito Thomas si mosse verso la porta. L’aprì e uscì due secondi, giusto il tempo di prendere i vassoi dalle mani del cameriere.
– Visto? – fece Bianca. – La cena è finalmente arrivata. Non c’era bisogno di preoccuparsi o di fare gli impazienti.
Gettai uno sguardo fuori dalla grande finestra del salotto: era una giornata plumbea con un’atmosfera di fondo piuttosto cupa. Erano le sette e mezza di sera e non era ancora scesa la notte, ma già il lampadario era acceso e donava un’aria di austerità a Bianca Anderson, la cui vestaglia da notte (si preparava per dormire ben prima di cenare) – rosso carminio – riluceva abbagliante e in perfetta sintonia con l’ambiente.
Si sarebbe detto, a primo acchito, che quella donna era ascesa dagli inferi dove sedeva alla destra di Satana solo per tormentarmi e farmi innamorare di lei, incatenandomi in un amore senza uscita che, credevo allora, solo la morte avrebbe potuto spezzare e rendere cenere, com’è giusto che sia un amore impossibile e in un certo senso scandaloso, proprio come quello che si proponeva di diventare il mio.
Dopo mangiato io dissi che dovevo andare in bagno, mentre intendevo lavarmi i denti. Non m’importava che lei non li lavasse e che non avesse un alito sopportabile in un bacio, volevo solo quel bacio e nient’altro.
Tornai dal bagno cercando di controllare l’espressione facciale e la respirazione. Tenni lo sguardo fisso sul piatto mentre Thomas diligentemente sparecchiava senza spiccar parola. Bianca riprese in mano il Times di quel mattino che probabil-mente aveva già riletto due o tre volte, e disse alla guardia del corpo che voleva un liquore forte per digerire la lauta cena.
– Whisky con soda, signora?
– Liscio.
– Posso averne un goccio anch’io? – azzardai.
Lei mi guardò seria. – Non è bene che un giovane della tua età comprometta la sua salute con certe schifezze.
Allora cercai di giocare d’astuzia. – Ma signora, non è nemmeno bene che una donna bella come lei comprometta la sua di salute, non trova?
Funzionò, o forse lo fece funzionare lei.
– Bambino mio, ma come sei dolce! Te l’ho già detto che sei carino, eh? Te l’ho già detto? Comunque non preoccuparti per me, la mia salute non è importante quanto la tua. E di sicuro non sono così bella come pensi.
– Oh, ma ora fa la finta modesta! – esclamai, viscido.
– E tu il finto adulatore.
Questa risposta mi raggelò, ma presto il suo viso tornò a di-stendersi sereno. – Scusami, – disse, – non volevo essere scortese ai tuoi complimenti.
A quello scambio di battute seguì un periodo di relativa calma durante il quale venni colpito dal ricordo del viaggio che stavo compiendo prima di incontrare Bianca Anderson, e del motivo per cui avevo intrapreso quel viaggio. L’amore era stato capace di farmi dimenticare perfino il senso di soffocamento che provavo in California, a casa.
– Non lo è stata – dissi dopo un po’.
Lei mi guardò impassibile.
– Scortese, intendo.
Thomas portò il bicchierino di whisky liscio a Bianca e lei lo bevve tutto d’un fiato senza mai staccare le labbra dal vetro.
Cercai di rincarare la dose: – Le fa male berlo così, signora.
– Mi fa male! – buttò la testa all’indietro e rise nuovamente. – Thomas, un altro per favore.
Persino la guardia del corpo la guardò strano, ma non replicò e obbedì.
Bianca disse: – Lo sai, Charlie, cos’ha detto quel… brav’uomo di Kennedy al Times giusto l’altro ieri? Lo sai, eh?
– No, signora… non le ho mai chiesto di farmi leggere il Times.
Sorrise. – Però chiedi di leggere libri. Comunque, non diva-ghiamo. Kennedy ha detto che il posto giusto per rendere credibile la nostra potenza è il Vietnam.
Feci spallucce.
– Te lo dico io, tesoro, questa storia finirà male. Non s’è mai sentito di un paese che ha bisogno di una guerra per dimostrare la sua credibilità.
– Signora, – protestai – in Vietnam non c’è nessuna guerra.
– Non ancora – rispose lei. – Staremo a vedere in che modo andranno le cose. Male, come ho già detto, ma staremo a vede-re.
Si sporse verso di me.
Il profumo.
– Il fatto è, Charlie caro, che sento puzza di imbroglio. Kennedy fa il moralista alla nazione quando il primo che dovrebbe ricevere lezioni di morale, è lui.
Thomas le porse il bicchierino di whisky e lei lo prese senza nemmeno guardare. Quindi lo svuotò come il precedente.
– Comprendi?
– Sì, signora.
– E allora, dico io, certe volte mi viene proprio il nervoso a sentire quel suo fiume di parole ricolmo di falsità. Ma quel tipo fa fesse un sacco di persone, tra cui ci sei anche tu. Dico bene, Charlie?
– Uhm, suppongo di sì.
– Tu supponi sempre, Charlie. Devi supporre meno ed essere più sicuro delle tue opinioni.
Bianca si alzò e prese un pacchetto di sigarette da un mobile. L’accese e iniziò a fumare, rilassata.
– Signora, – disse Thomas, – Se non le dispiace, io uscirei.
Bianca lo guardò. – Vai, Thomas. Sai benissimo che il nostro contratto non prevedeva la notte. Non ho bisogno di essere protetta quando calano le tenebre.
L’omaccione uscì e chiuse le porta.
Ecco perché non c’è mai di notte, pensai io.
Bianca fumò in silenzio la sua sigaretta, e io non la interruppi. Quando ebbe finito gettò il mozzicone nel posacenere e mi guardò attentamente.
– Charlie, Charlie. Andiamo male, sai? Lo vedo come mi fissi.
Deglutii. – Non vorrei rovinarle la bellezza con il mio sguardo – sdrammatizzai.
Assunse un’espressione delusa. – Charlie, cosa ti ho detto prima?
Non le piace quando scherzo, qualcosa di simile.
– Esatto – annuì. – Proprio così.
Non replicai e mi persi per l’ennesima volta nella miriade di pensieri che insistenti si facevano largo nella mia testa, cercando di spodestare l’amore. L’amore! Se si fermasse alle carezze, a una dolcezza di sguardi e basta, forse allora l’amore non rovinerebbe vite intere e non diventerebbe perverso. Ma siamo animali, e come tali ci comportiamo. Sentiamo il bisogno di un contatto fisico più profondo, e ci tormentiamo se impossibilitati ad ottenerlo. Avevo davanti a me una donna bellissima che come minimo aveva trent’anni, tredici più di me. Io ne avrei compiuti diciotto il mese successivo.
La osservai in attesa.
Lei guardò l’orologio. – S’è fatto tardi, bambino mio. È meglio se vai a nanna. Prima me lo dai il bacino della buonanotte, vero?
Sorrisi imbarazzato, mi alzai e mi chinai sulla sua guancia. Il profumo m’invase ed ebbi un istante di capogiro. Le scoccai un frettoloso bacio sulla pelle morbida e mi scostai, intimorito dalla possibilità che volesse ridurmi in cenere.
– Buonanotte – disse lei. – Sogni d’oro.
– Buonanotte – replicai, piano.
Poi, quando fui in camera mia, sussurrai ancora: – Buonanotte.

mercoledì 27 luglio 2011

17° Capitolo

Sento i fuochi d’artificio, non le farfalle

Ci sono giornate che potremmo trascorrere distesi su un pavimento ad aspettare che accada qualcosa pur sapendo che invece non accadrà nulla. Oppure si hanno tanti di quei pensieri nella testa, che muoversi diviene impossibile. Quelli che vivono meglio sono quelli che non si fanno troppi problemi. Capita invece di essere subissati di domande nella nostra testa, domande scaturite da immagini a volte stupide a volte irrilevanti. Questa era la mia condanna. Questa era la condanna del mio essere scrittore. Chiudevo gli occhi e davanti a me si materializzavano centinaia di cose tutte insieme. Mi facevano impazzire sia di gioia che di terrore. Era bello poter spaziare per tutto l’universo con la mente, ma c’era anche da considerare il fattore paralisi fisica. E le immagini comparivano anche con gli occhi aperti. Bastava fissare il soffitto per un po’ di tempo ed eccole lì, chiare e nitide come se fossero reali.

Per passare il tempo chiesi a Bianca se avesse dei libri, ma lei mi rispose che non ne leggeva. Disse però che potevo chiedere a Thomas di andarli a comprare per me. Tutti quelli che volevo. Dissi alla guardia del corpo di prendere quelli che preferiva, di sceglierli a caso insomma. L’importante è che mi portasse qualcosa da leggere. Nel frattempo rilessi uno dei frammenti del mio vecchio libro che avevo lasciato a Chris e Julia.

Immaginate un luogo immenso dove non c’è una fine, in cui l’orizzonte non si riesce a vedere, perché non c’è e perché non vogliamo che ci sia, del resto lo stiamo immaginando; e poi provate a pensare che questo posto dopotutto esiste, la nostra mente esiste, lei lo ha immaginato, lei gli ha dato vita, e noi possiamo vederlo, solo che invece che fuori è dentro, ma c’è, insieme a tutto il resto che ogni giorno pensiamo e scartiamo e anche quello che teniamo e quello che releghiamo sullo sfondo per paura, per vergogna, mai per onore, quello emerge sempre, diviene linguaggio, parola, sguardo, azione e monumento, come chi si ritiene talmente grande da pretendere statue per sé anziché lasciar che altri ne erigano in suo favore. Se i pensieri di tutti gli uomini e di tutte le donne si unissero, ne uscirebbe il mondo proprio com’è ora, e forse ancor più noioso. Se invece fossero i pensieri dei bambini e dei ragazzi a unirsi, nascerebbero mille e più mondi, tutti diversi fra loro, tutti nuovi e tutti meravigliosi. E forse, con un po’ di fortuna, tutti in pace.
Questa è la storia di una famiglia la cui vita non è mai stata in pace e, nel momento in cui questa fantomatica pace è finalmente comparsa, la famiglia s’è rotta, incapace di rimanere in silenzio per più di qualche minuto.

Girai il foglietto stropicciato e vi scrissi sopra: cazzate. Non c’è pensiero che abbia senso. La vita è triste e l’amore la rende ancora più triste. Non c’è nient’altro. Mi manca Chris.

Il giorno dopo il mio arrivo a Denver, grazie alla luce del giorno, potei conoscere la vista che mi proponeva la finestra della mia stanza: grattacieli grattacieli e grattacieli. Ecco il mondo degli adulti. Non volevo crescere. Per niente. Il Peter Pan di Barrie l’avevo già letto, ma era solo un libro, e io ero solo un ragazzo che cresceva negli anni ’60 e si rendeva conto, mano a mano che i soldati americani arrivavano in Vietnam, che il mondo era destinato all’oblio. Forse cent’anni più tardi, forse duecento, ma non c’era salvezza. E chi dice che cose come l’amore possono ancora salvarlo, non ne capisce niente e non ha sofferto come ho sofferto io. Avevo visto una persona morire e subito dopo mi ero innamorato di una donna, dimenticando tutto. Persone che prima occupavano la mia giornata attraverso i ricordi, giacevano ora sul pavimento al mio fianco, e strisciavano verso la finestra per buttarsi di sotto.
Quando andavo in salotto, c’era sempre la televisione accesa. Kennedy parlava dall’alto trono del suo moralismo e tutto quello che potevo fare, ammaliato com’ero, era credergli parola per parola. Dovremmo immaginare noi stessi a raccontare balle a un pubblico di centinaia di persone, così scopriremmo che è più facile di quel che sembra. E lascia molto soddisfatti.
Thomas era quasi sempre fuori. Sembrava che Bianca non si preoccupasse che io potessi scappare. Se mi vedeva spostarmi senza meta per l’appartamento, alzava gli occhi dal Times che ogni mattino si faceva portare dalla guardia del corpo e mi rivolgeva un sorriso capace di sciogliere qualsiasi resistenza. Non erano rari, tuttavia, i momenti in cui l’altra parte di lei, quella oscura e sinistra, prendeva il sopravvento. Bianca Anderson poteva infervorarsi tantissimo per qualche dichiarazione fatta in televisione o perché un cibo non era abbastanza cotto. In quei momenti mi appariva paradossalmente ancora più attraente e vibrante di fascino. Se solo mi chinavo verso di lei per versarle gentilmente dell’acqua o del vino, sentivo il suo profumo farsi intenso e potente alle mie narici. Aprivo anche la bocca per aspirare tutta quella femminilità e non lasciarmene sfuggire nemmeno una goccia. Lei si rendeva benissimo conto di quanto mi avesse stregato, e continuava a stuzzicarmi, a farmi domande indiscrete con tono indifferente, in apparenza disinteressata e distratta, a tal punto da rovesciarsi del caffè sulla manica bianca della camicia, imponendomi, in virtù delle buone maniere, di asciugarglielo delicatamente e lentamente, attento a non estendere la macchia. Poi le gettavo un’occhiata furtiva, rapida, di sottecchi, sperando in un altro di quei sorrisi, ma tutto ciò che ne ricavavo era solo una gelida disapprovazione per come avevo riparato al danno da lei commesso, e dopo non riuscivo a far altro che un passo indietro, metaforicamente parlando, concludendo così le mie avances ancor prima di iniziarle. Rimanevo senza parole, un bambino che assisteva ai primi fuochi d’artificio della sua infanzia, una festa di paese dove tutti ballano e quando sei ragazzo inviti a ballare qualche ragazzina timida timida con le guance che le si colorano tene-ramente di rosso alla tua richiesta, e che poi ti saluta – buona-notte, mi sono divertita – con un bacetto sulla guancia – le guance! – che è delicato come il suo volteggiare mentre balla, la gonna che si alza e si riabbassa, i bambini che tentano di sbirciare, timidi anche loro. Lei si beava del mio silenzio impo-sto da un gesto, uno sguardo, una scortesia che io non potevo notare, il soggetto che interessa all’innamorato non è mai scor-tese o imperfetto proprio a causa dell’innamoramento che in-debolisce la capacità di ragionare lucidamente e inibisce i sensi in maniera a modo suo sadica, che richiede cattiveria per far soffrire ancor di più qualcosa che è già in pezzi per la troppa sofferenza. E io cosa potevo fare se non soccombere sotto questa pioggia di indecisioni e imbarazzanti staticità, come un mano che si blocca a metà strada mentre stava per andare ad accarezzarne un’altra ma poi si ferma per paura o forse per un ripensamento che è scaturito da chissà quale pensiero, ancora una volta ripeto a me stesso che la condanna dello scrittore è pensare troppo, rimane fermo e non fa niente, torna indietro quando dovrebbe andare avanti. Così non parlavo, non domandavo a quella donna infernale perché mai mi facesse tutto questo, perché mai fosse entrata nel mio cuore e l’avesse devastato, e a volte penso anche che lei non sappia, che non si renda conto di essere stata la spada che ha ucciso l’anima – l’anima! con che coraggio pretendiamo di avere un anima? come possiamo esserne sicuri? – di Charlie Collins. Le mie labbra si muovevano impercettibilmente per chiederle ciò che più mi premeva, poi interrompevano il movimento a mezz’aria, dotate di vita propria, come la mano che si è fermata e non ha accarezzato l’altra mano, le unghie laccate di rosso e il profumo inebriante, che distrugge le difese di un uomo, ma io ero un ragazzo, e un ragazzo vuole solo chiedere a una ragazzina timida timida se vuole ballare.

lunedì 25 luglio 2011

16° capitolo

La terra di tutti

Bianca Anderson chiuse a chiave la stanza dove mi misero, ovviamente.
C’era un letto singolo, le lenzuola rosse e la fodera del cuscino rossa. Un comodino di legno – per fortuna del suo colore naturale – stava alla destra del letto. Gli occhi mi caddero lì per prima cosa, perché la stanza non era molto grande. Era rettangolare e aveva una finestra sulla parete opposta alla porta, mentre il letto di cui ho già parlato poggiava alla parete sinistra.
Il rosso mi circondava, stringeva la sua presa. Soffocavo. Era come muoversi nel sangue, nel proprio e in quello di tutti gli abitanti del mondo. Li sentivi che bisbigliavano, e ti immaginavi la donna, Bianca, seduta comodamente su una pila di corpi, che ti guarda sorridendo, conscia di cose ben al di là della tua comprensione.
Ma il mio cervello stava delirando. Sono momenti strani quelli in cui, sospinti da immagini, suoni o parole, si segue un flusso di pensieri improbabile persino a noi, che sfocia poi in visioni astratte che vanno a mettere in dubbio la propria sanità mentale.
– Charlie!
Da dietro la porta venne la voce di Bianca Anderson.
– Ehmm… sì?
– Il bagno è alla tua destra.
Girai lo sguardo. C’era una porta rossa quasi irriconoscibile in mezzo al rosso della tappezzeria.
– Grazie per avermelo detto. Arguivo che fosse uno sgabuzzino.
– Il sarcasmo non viene premiato in questa casa, Charlie.
– Arguivo anche questo. E almeno in qualcosa ci ho azzeccato. Dovrebbe incoraggiare queste intuizioni, signorina.
Lei non rispose, e poco dopo sentii dei passi allontanarsi.
Sospirai.
Le donne!

Avevamo mangiato caviale e bevuto champagne. Quella donna era ricca sfondata, e io ero il suo giocattolo. Non mi aveva preso con sé per qualche oscuro scopo, no, era facile in-tuirlo. Probabilmente era psicologicamente turbata, o qualcosa di simile. Però era adorabile, e non riuscivo a togliermela dalla testa. Quel profumo! E quelle gambe, dannazione!
Il problema di quando sei adolescente è che ti sembra sempre di amare alla follia le persone, invece sono solo gli ormoni che girano all’impazzata. Tuttavia queste follie d’amore è impossibile evitarle. Del resto c’è anche il lato ironico: quando sei più grande, ripenserai a queste cose con un sorrisetto e con leggerezza, però ne riconoscerai l’importanza che hanno avuto nella formazione della tua persona.
E l’esperienza che derivò dal mio incontro con Bianca Anderson non l’avrei mai dimenticata, nemmeno se mi avessero pagato a peso d’oro per farlo.
Fatto sta che ero suo “prigioniero” ad interim, perché non avevo idea di quando avrebbe iniziato a giocare con me e di quando si sarebbe stufata di giocare. La sua mente ragionava come quella di un bambino, che desidera il nuovo gioco come se fosse la sua unica ragione di vita, e una volta ottenuto, se ne stanca ben presto. La domanda è: possibile che il giocattolo possa trarne qualche gioia? Possibile che voglia essere usato e se ne compiaccia? Io sì, ne ero felice.
Non c’è giustificazione alle azioni che si compiono in quello stato pietoso che è la condizione di innamoramento. E non perché si possono evitare, ma proprio perché sono inevitabili. Non ci sono scuse all’amore. Esiste; e a volte passa anche da te.
Da me ci passò come passano le tempeste. Sono distruttive e veloci. Sradicano gli alberi – le convinzioni – e la pioggia – le lacrime – bagna tutto, persino le case, che sono i rifugi delle persone e delle famiglie, ed è incredibile se ci si ferma un attimo a pensarci, che la pioggia bagna pure le case e anche se non entra è come se ci fosse entrata perché la malinconia si sente dentro, è una malattia contagiosa che non lascia scampo.
L’amore, al pari della malinconia, è capace di contagiare la terra di tutti. Impossibile dire se lo fa con cattiveria o no. Quanti disastri provoca, e quante anime ammazza. Magari il tuo corpo rimane vivo; scientificamente tu sei vivo. Ma l’amore, oh, l’amore ti ammazza da qualche altra parte che è qualcosa di più delicato e fragile del corpo e raramente si sopravvive a quella morte.
Passai la mia prima notte in quella casa completamente sveglio, o quasi. Temevo che se avessi dormito, l’incubo di Samuel mi avrebbe nuovamente fatto visita. Io l’avrei ucciso un’altra volta, e poi ancora un’altra, fino all’infinito, anche se in realtà non avevo fatto niente. Gli innocenti si sentono sempre colpevoli quando succede qualcosa di brutto. Chissà quanti anfratti della nostra mente non sono visitabili se non nel sonno. Dormendo riusciamo ad arrivare ovunque, a realizzare quei desideri che ci vergognano. Riusciamo persino a uccidere, nel sonno. Forse c’è proprio un mondo che s’attiva quando chiudiamo gli occhi. Non sarebbe sconvolgente? Forse nei sogni potevo tornare indietro da Chris e Julia, tornare da Wendy e dai miei genitori, dalla piccola Mary e dal signor Johnson. Forse potevo veramente. Il problema è quando ti svegli. Ti rendi conto che non era reale, ti disperi. Piangi.

– Buonanotte, Charlie.
Così venne a dirmi Bianca Anderson verso mezzanotte. Girò la chiave nella toppa e sporse la testa nella fessura. Vidi i suoi capelli biondi risplendere alla luce del corridoio fuori (io ero già al buio, ma non dormivo, come ho già detto) e il mio cuore fece un salto.
– Buonanotte, signora.
Scorsi un sorriso prima che richiudesse la porta.
Furono quelle labbra che si piegarono in su a farmi trascor-rere una notte sveglio. Che idiota, maledizione.
Ero proprio un idiota.
E così rimasi sdraiato sul letto, la finestra aperta, ad ascoltare i rumori della notte. Le litigate tra fidanzati, i rombi dei motori, le risate dei bambini, le squallide barzellette degli ubriachi. E mi chiedevo, cupo, se davvero la vita fosse tutta lì. Da innamorati ci sembra bellissima, ci sembra fondamentale. Ma cosa c’è da salvare a questo mondo se non gli occhi di certe persone?
Noi ci chiediamo perché siamo vivi, ma non sappiamo rispondere. Ci chiediamo perché moriamo, perché le persone che amiamo se ne vanno prima del tempo; e anche a questo non sappiamo rispondere. Ci chiediamo poi da dove venga l’attaccamento a qualcuno, come mai pensiamo di non poter sopravvivere senza vedere senza toccare senza accarezzare o baciare la nostra ragazza, il nostro ragazzo, nostra sorella o nostro fratello o i nostri genitori. A volte vorrei tatuarmi le loro iniziali sul braccio. Le iniziali di tutte le persone che amo. Così saranno sempre con me, ma per davvero. Perché Dio non esiste, o la seconda guerra mondiale non ci sarebbe stata. E se esiste dovrà chiedere perdono a tutti quei morti. Dovrà inginocchiarsi e chiedere scusa e ammettere che – se esiste – è stata tutta colpa sua.

giovedì 21 luglio 2011

15° Capitolo

Denver

– Morto stecchito, signora.
– Grazie, Thomas. Porta questo ragazzo sui sedili posteriori e fallo sdraiare. Poi dagli qualcosa da bere. Qualcosa che lo faccia… rilassare.
– Certo, signora.
L’uomo chiamato Thomas mi si avvicinò e mi prese in braccio, come fossi una piuma. In quel momento vidi solo che aveva i capelli quasi rasati a zero e che, come ho già detto, era enorme.
Bianca Anderson aprì la portiera di una Cadillac rossa fiammante e talmente pulita che sembrava (magari lo era) nuova di zecca. Thomas mi ci scaraventò dentro. Non neanche troppa delicatezza. Soffocai un grido di dolore.
La donna era piegata sui sedili anteriori e stava trafficando con qualcosa. Ne uscì con una bottiglia d’acqua e un bicchiere di vetro in mano. Poi uscì dalla macchina e mi voltò le spalle. La vidi portare una mano all’orecchio e togliervela con qualcosa in mano.
Le manca un orecchino, constatai.
Due minuti dopo Thomas fu di ritorno con il bicchiere d’acqua per me, ma io avevo capito che volevano farmi addormentare. Quella donna era il diavolo e ci aveva buttato dentro un sonnifero che teneva nascosto nell’orecchino.
– Non ho più sete.
Thomas mi prese la testa e mi appoggiò il bicchiere alle labbra, costringendomi a bere.
– Vaffanculo – sibilai quando ebbi bevuto tutto.
La guardia del corpo di Bianca Anderson non rispose, ma tornò impassibile al posto di guida.
Io mi sentii subito molto stanco e assonnato, e prima che po-tessi protestare in qualche modo, caddi nuovamente tra le braccia di Morfeo.

C’è una prerogativa del silenzio poco apprezzabile: sembra sempre che preceda la tempesta. E una tempesta di suoni, rumori e parole è sempre la più devastante delle tempeste.
Al mio risveglio, attorno a me sentivo rombare motori, suonare clacson, gridare uomini, donne, bambini. Subito si accese una lampadina nella mia testa, e capii di essere arrivato a Denver.
Notai un’altra cosa: nella dei miei jeans c’era il mio taccuino degli appunti con tutti i fogli della nuova storia, poiché quella vecchia l’avevo lasciata a Chris e Julia. C’erano però ancora alcune pagine di brutta. Fui molto felice nel constatare che il mio lavoro non era andato perduto.
– Oh, ben svegliato, caro.
Mi ritrovai di fronte la faccia di Bianca Anderson che mi fissava compassionevole dal sedile davanti. I finestrini anteriori erano aperti.
– Non ti preoccupare, Charlie, c’è solo un po’ di traffico, siamo quasi arrivati.
La guardai senza dire niente.
– Non mi piace quello sguardo, bambino mio. Non farti ve-nire in mente cattive idee.
La sua voce sembrava così dolce, che nemmeno mezza cattiva idea mi passò per la testa. In ogni caso, fu in quel momento che inizia a notare la doppia personalità di Bianca Anderson. Quando mi aveva trovato, all’inizio, aveva usato lo stesso tono di adesso, calmo e paziente. Quando, più tardi, mi aveva preso con me, i suoi modi si erano come trasformati, induriti. La voce le si era incrinata, il viso si era tutto teso come se si stesse duramente concentrando. Quel comportamento sfuggiva alla mia comprensione, ma ebbi il presentimento che più avanti avrei capito. E avevo ragione. Purtroppo avevo spesso ragione.
Potrei raccontare lo sgomento che mi avvinse quando arrivai a casa di Bianca Anderson. Potrei raccontare le mie paure quando mi accorsi che abitava al ventiquattresimo piano di un grattacielo, giacché soffrivo di vertigini. Oppure potrei raccontare il mio sgomento nel constatare che la tappezzeria e la moquette dell’enorme appartamento borghese erano di un terribile rosso scarlatto, tanto che la padrona di casa si poteva tranquil-lamente scambiare per un mobile.
Mi disse: – Bello, né?
Risposi: – Come l’inferno.
La verve di Bianca Anderson si andava accendendo insieme alle luci che illuminavano le stanze, trasformavano l’argenteria – prima spenta – in abbaglianti stelle terrestri e rendevano sanguinosi gli austeri ritratti alle pareti, nessuno dei quali, mi duole dirlo, superava in bellezza la donna che avevo di fronte. Avrei voluto che una donna di quei dipinti fosse più bella di lei. Forse non ne sarei più stato abbagliato. Ma si sa, ciò che splende e irradia luce è sempre stato motivo di persecuzione, e in seguito di dolore, per il genere umano.
– Charlie caro, non si parla dell’inferno paragonandolo a qualcosa di terrestre. Sarebbe come dire che Dio ci ha messi lui stesso tra le fiamme. È bestemmia.
– Per me l’unica bestemmia qui dentro è chiamarsi Bianca e vestire di rosso.
Fece un sorriso gelido.
– È solo un nome.
Scossi la testa. – Cosa vuole da me? La ringrazio per avermi salvato, ma ho come l’impressione che mi stia tenendo segregato.
– Segregato? – rise. – Ma sei qui da appena cinque minuti! Thomas! Chiama il ristorante del secondo piano e ordina la cena.
L’omone era comparso appena udito il suo nome. – Sì, signora.
– Che cosa vorresti, Charlie?
– Quello che vuole lei, non m’interessa. Dopo aver mangiato mi lascerà andare?
– Oh, quanta fretta.
– Molta.
Mi fissò negli occhi. Non distolsi lo sguardo.
– Purtroppo per te, la tua fretta non va incontro alle mie necessità che, come puoi immaginare, sono al momento più importanti delle tue. Ma non temere. Non ho intenzione di farti del male, se è questo che pensi.
Io la incalzai: – Voglio solo sapere cosa vuole da me. Non vedo che differenza possa fare il fatto che lei me lo dica.
Bianca sembrò esitare.
Era così bella! Anche quando esitava.
– Ti svelerò più avanti il motivo per cui ti ho portato con me. Per ora ti basti sapere che sei tenuto a non fiatare ogniqualvolta usciamo di qui. Non devi far sapere che ti tengo… come dire… prigioniero. Capisci?
Annuii piano.
– Poi io non rispondo di ciò che potrebbe fare Thomas. E a te non conviene scoprirlo. Lui picchia giù duro. Che questo ti basti. Dopo cena ti farà vedere la tua camera. Non provare ad uscirne in nessun modo, o metterò in atto le minacce.
Tacque per un istante, fissandomi pensierosa.
– A proposito, – disse, – lo sai che sei proprio carino?

lunedì 18 luglio 2011

14° Capitolo

Preferisco sognare

Accolsi il sonno con immenso piacere, proprio come un vecchio amico alleviava il dolore, parlandoti di cose a te care ma da lungo tempo dimenticate.
Il dolore alla caviglia, probabilmente rotta – fracassata! –, lo sentivo in lontananza, simile al ritirarsi flebile delle onde del mare, andava e veniva, piano, ricordandomi di essere presente. Dormivo – sognavo – con la paura, il terrore attanagliante, che al mio risveglio avrei provato un dolore lancinante, di quelli che si ricordano per tutta la vita (e avevo ragione). Così mi ci misi tutto d’impegno per continuare a sognare, fossero anche incubi (e ancora una volta avevo ragione), e chissenefrega se rischiavo di morire nel sonno, sarebbe stato certamente meglio che vivere per qualche ora ancora e morire di sete e fame in quel deserto dove non passava anima viva. E come avrei fatto, poi, a strisciare in tempo fino alla strada, quand’anche avessi sentito il rombo di un motore? Sapevo con assoluta certezza che il dolore mi avrebbe fatto fare solo qualche metro, poi avrei artigliato la terra gridando disperato. E forse mi avrebbero sentito. E se ne sarebbero andati, avendo paura.
Preferii dunque uno spaventoso dormiveglia alla realtà dei fatti che, temevo, m’avrebbe ucciso.

Nel sogno correvo.
Come diceva Nietzsche? Da quando ho imparato a camminare, mi piace correre.
Solo che io in quel momento odiavo correre. Correvo senza volontà, non ero io, una mia riproduzione forse, la mia ombra, io la guardavo dall’alto come si guardano i morti, con disgusto e sdegno, finché muoiono gli altri è facile sdegnarsi, disgustarsi, l’ipocrisia fa da padrona il mondo, muove le mani degli uomini, la burattinaia delle loro azioni e non azioni.
E la mia corsa era indirizzata verso quel furgoncino giallo – giallo nella notte di luna piena, si vedeva, eccome se si vedeva. Giallo! –; correvo con in mano una spranga di ferro e l’agitavo furiosamente, barcollavo, bussavo alla portiera del conducente, attendevo un paio di secondi, abbastanza per sapere cosa stava succedendo – Dio, avrei voluto correre via –, la portiera si apriva e il ragazzo coi capelli biondo cenere e gli occhi nocciola e la camicia azzurra e i pantaloni lunghi e marroni si affacciò solo perché lo tirassi giù – per la camicia – e iniziassi a prenderlo a sprangate sulla testa, con violenza, tanta, tantissima violenza; e lui iniziava a sanguinare, i capelli da chiarissimi passavano a rossi, o così mi parevano (c’era buio, cazzo, buio!) e poi cadeva a terra urlando urlando urlando e non smetteva, volevo che smettesse, lo volevo davvero, ma invece io – la mia ombra – continuavo a colpirlo con quella spranga, gli sentii il sangue in gola, in bocca, che si mischiava alle urla, e poi finalmente tacque e divenne tutto buio quando la portiera dall’altra parte del camioncino si apriva di scatto e un’ombra – un’ombra vera – appariva davanti a me.
Il buio mi cullò fino a quelle pianure verdi e sterminate che erano tante care ai miei sogni più belli. Solo che questa volta c’era anche un vulcano – la cima innevata – in lontananza, il cielo, sereno, era distinguibile anche se ero in un sogno, e sentivo anche una cosa, una musica! Davanti a me, da qualche parte, e mi accorsi che non erano affatto pianure, ma come un altopiano, ondulato e dolce, alti e bassi che si incastravano fra di loro e nascondevano la fonte della musica, ma Cristo, il messaggio di quella musica era chiaro, triste e malinconica un momento, scoppiava di gioia il momento dopo, era un maledetto inno alla vita, ti veniva voglia di correre da tutte le persone che conoscevi, anche quelle che ti stavano antipatiche o odiavi, e abbracciarle, abbracciarle e trasmettere anche a loro, con quell’abbraccio, la voglia di vivere che il contatto delle orecchie con quella musica – quei violini, quel pianoforte, e le chitarre! Le chitarre! – era capace di trasmetterti, oltretutto in maniera così solenne che rischiavano di scapparti i lacrimoni, di quelli che scappavano alla fine di un film particolarmente bello e commovente.
Questa volta mi sentii più vicino a capire dove fosse quel posto, perché sapevo che esisteva, lo sapevo! Ed era lì che volevo vivere, ora ne ero certo.

Il mio risveglio assomigliò all’essere cullato dolcemente, ma sempre più piano. Più mi avvicinavo al momento in cui avrei ripreso completamente i sensi, più il pulsare alla caviglia aumentava. Era ancora notte e non si sentiva alcun suono. Non c’era vento, non c’era niente, il silenzio più assoluto. In quel silenzio, i miei deboli movimenti sembravano fare un rumore pazzesco.
Subito provai a rimettermi in piedi e a camminare ma il piede sinistro non poteva toccare terra, pena una fitta di dolore da farmi vedere le stelle.
Zoppicai malamente (anche con una gamba il dolore non era mica da ridere) verso la strada, stando attento a non inciampare. Se fossi inciampato, mi sarebbe rimasto solo da strisciare, poco ma sicuro.
Alla strada non ci arrivai. Inciampai su un sasso e caddi ruz-zoloni. Misi le mani in avanti per attutire la caduta, ma picchiai le ginocchia e i gomiti sul terreno e me li sbucciai. Uscì un po’ di sangue. Feci leva con le mani e percorsi strisciando gli ultimi metri fino all’asfalto. Lì mi sedetti, inondato da lacrime di rabbia.
– VAFFANCULO! – gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Non so perché, ma mi ero aspettato che qualcuno avrebbe risposto, e invece niente.
– VAFFANCULO! –
Ancora niente.
Decisi che era inutile imprecare contro il silenzio, che tra l’altro, poveretto, non mi aveva fatto niente.
Mi sedetti sul bordo della strada in impaziente attesa che passasse qualcuno, ma ben presto la stanchezza mi vinse e, poggiata con delicatezza la testa a terra, mi addormentai. Il mio sonno fu profondo e privo di incubi.

– Cosa ne facciamo, Thomas?
– Non lo, signora, sembra un drogato.
– Ma guardalo, è solo un ragazzo! Sta dormendo, chissà da quanto tempo è qui.
Cercai di aprire gli occhi, ma la luce del sole me li fece richiudere subito dopo.
– Guarda, Thomas, si sta svegliando!
– Forse dovremmo allontanarci, signora. Potrebbe essere pe-ricoloso.
Quest’ultimo avvertimento fu probabilmente ignorato, perché sentii qualcuno che si chinava su di me. Le mie narici furono invase da un buonissimo profumo femminile. Ancora tentai di aprire gli occhi. Questa volta scorsi dei tacchi e delle scarpe rosse.
– Signora, là c’è qualcosa.
La voce che continuava a rivolgersi alla donna chiamandola signora era indubbiamente maschile e molto rispettosa.
– Come, Thomas?
– Più in là, c’è un corpo.
– Sam – La mormorai, mentre aprivo completamente gli occhi.
– Hey.
La donna mi porse la mano e mi aiutò a mettermi seduto.
– Begli occhi – disse, sorridendo. – Io sono Bianca Anderson.
– Mi chiamo Charlie – riuscii a dire.
– Bene, Charlie. La mia guarda del corpo dice che là – e puntò l’indice alla mia sinistra – c’è un corpo. Ne sai qualcosa?
Ora riuscivo a vederla chiaramente: era – senza scherzi – la donna più bella che avessi mai visto. I capelli biondi e ricci le arrivavano alle spalle, raccolti in una treccia grazie a un fiocco rosso, gli occhi verdi e scuri erano fissi nei miei, senza pudore. Il viso era un ovale perfetto, e le guance – le guance! – erano arrossate, lisce e senza la minima ruga o increspatura, mettevano addosso una voglia matta di accarezzarle. Aveva del trucco azzurro attorno agli occhi, ma non troppo come le attrici o cantanti famose. La mano che mi porgeva era sensuale, asciutta e profumata, e aveva le unghie laccate di rosso, lo stesso rosso delle scarpe coi tacchi. Portava un vestito rosso non troppo scollato ma che le metteva in risalto un seno nella norma.
– Charlie, – ripeté, – sai chi è quello là disteso sull’asfalto?
Mi riscossi: – Come? Oh, è Sam. È morto.
Quelle mie ultime due parole fecero calare un gelo sinistro sulla donna.
– L’hai ucciso tu? – chiese.
Mi venne da ridere, ma scossi la testa. – Non l’abbiamo visto. Voleva rubarci il furgoncino. – Indicai la caviglia. – Ha colpito anche me.
Bianca Anderson guardò il punto che le stavo indicando.
Disse: – Dio santissimo.
– Non posso camminare.
– Thomas!
– Signora?
– Vai a vedere se quello là è morto veramente.
Vidi qualcuno di grosso alle spalle della donna spostarsi e camminare via dal mio campo visivo.
– Dove stavate andando? – mi chiese Bianca.
– Denver. Ci eravamo fermati per mangiare dei panini e riposare un po’. Non l’abbiamo visto.
– Era tuo amico?
– No, avevo fatto l’autostop appena fuori Los Angeles. Lo conoscevo appena.
– Lui o tu dovevate andare a Denver?
– Lui.
– E tu?
– New York.
Bianca sorrise. – Io sono in viaggio per… lavoro. E sto per l’appunto andando a Denver. Tu verrai con me.
Qualcosa mi diceva che l’ultima frase avrebbe dovuto essere pronunciata un po’ diversamente, ma non ci feci caso. Aprii la bocca per ringraziarla ma lei mi precedette.
– Oh no, non è un favore che ti faccio. – Il sorriso si allargò. – È perché io ho deciso così.
In quel momento capii due cose. La prima era che Bianca Anderson mi aveva completamente stregato e che io me ne ero già innamorato follemente. La seconda, meno bella, che c’era qualcosa, nel sorriso di quella donna, che non quadrava.
Mi metteva paura.
Una paura indicibile.

domenica 17 luglio 2011

13° Capitolo

Samuel

– Verso mezzogiorno saremo a Las Vegas – disse Sam.
Annuii. – Ho sentito dire che è destinata a diventare la capitale del divertimento, in un certo senso.
Samuel fece spallucce. – Può darsi, per ora non è male, ma niente a che vedere con le altri grandi città.
Niente a che vedere con la vita frenetica, con io raduni enormi dove gli amici ti facevano conoscere i loro amici e gli amici degli amici, si era in cinquanta, in ottanta, le compagnie e i pomeriggi d’estate, le due cose più belle della vita dei giovani.
A volte neghiamo di essere vittime delle età, pensiamo di poter sfuggire alle cotte adolescenziali, alla silenziosa scoperta dell’altro sesso, consapevole, temuta e voluta, ai fiumi di lacrime che si versano quando gli amici non ci invitano da qualche parte e si divertono – senza di noi –, facile divertirsi, pensiamo, quando manchiamo noi, quale egoismo, non vogliamo divertirci con gli altri, pretendiamo che gli altri si divertano con noi.
Avrei voluto che Chris fosse lì con me, anche solo per chiedergli scusa. Naturalmente mi avrebbe perdonato. Quante volte abusiamo della bontà degli amici! Come quando insistiamo – fino ad ottenere – di pagare una cena o qualcos’altro agli amici, non lo facciamo per eccesso di altruismo o perché li amiamo a tal punto da pagare le cose che normalmente si pagherebbero loro, ma lo facciamo per noi, solo per noi, per sentirci dire che siamo belle persone, generose e gentili. Invece siamo terribilmente egoisti, questa è la verità. Un po’ mi deprime, ma certe cose non si possono cambiare, ci sono e basta.

Io e Samuel arrivammo a Las Vegas a mezzogiorno e dieci. Mi chiese se mi andava una pizza e io risposi di sì.
– Ce li hai i soldi?
– Come?
– I soldi per la pizza. Ce li hai?
– Non ti preoccupare per i soldi, ne ho abbastanza per pagarmi quante pizze voglio da qui a New York e ritorno.
Si mise due dita in bocca e fischiò. Fischiava niente male, devo dire.
– Hey, – gli dissi, – mi sembri un tipo a posto, ma bisogna che te lo dica. Tu provaci solo a fottermi qualcosa, e poi ti sistemo io.
Ti sistemo io è un modo perfetto per dire quel genere di cose. Lascia spazio a molti sottintesi. Io adoravo i sottintesi, met-tevano molta più paura che i riferimenti espliciti. Io ero una persona molto pacifica, ma ora ero solo, e nonostante l’età del mio accompagnatore, non si poteva dire chi l’avrebbe avuta vinta, anche perché ero molto ben piantato come fisico, grazie soprattutto agli allenamenti di tennis.
Lui sorrise e disse: – Non ti preoccupare amico, non ti fotto niente.
Prendemmo quella pizza nel ristorante di un hotel nel centro della città, di cui ora ho scordato il nome. Las Vegas aveva quell’aria da paradiso fasullo. Nel senso che sembrava tutto così maledettamente perfetto, ma si capiva che in realtà niente lo era. Sembrava di essere immersi in un oceano di falsità, i sorrisi dei camerieri, i visetti carini carini delle ragazze che, sedute da sole ai tavoli fumavano come ciminiere per farsi abbordare o forse no, non lo so, si è capito che non ero il massimo con le ragazze. Ma non ero brutto, ripugnante o altro, nient’affatto, solo che mi facevo un sacco di complessi e non riuscivo a spiccare parola con nessun esemplare del gentil sesso che mi interessasse abbastanza da rivolgerle due o tre parole. Ed ere già raro che incontrassi qualche ragazza interessante, per lo più, quelle che vedevo, se ne stavano sedute con le gambe accavallate a fumare – come ho già detto – peggio che ciminiere.
Samuel mi chiese se avevo voglia di bere qualcosa di forte, così lui l’avrebbe ordinata al mio posto. Lui però non avrebbe bevuto, così disse, perché se beveva finiva per non vederci più e poi chi avrebbe guidato fino a Denver
In altre occasioni avrei detto di sì, soprattutto se fossi stato con Chris; lui che sembrava più grande della sua età avrebbe tentato di ordinare degli alcolici. Ma lì era diverso. Ero con un ragazzo di molti anni più grande che conoscevo appena, e se avessi bevuto così tanto per bere, mi sarei depresso un sacco.
– No, grazie.
– Come vuoi.
Pagammo le pizze e facemmo un giretto per Las Vegas ad osservare quei posti dove si giocava d’azzardo e si sperperavano i patrimoni – intere esistenze, ma ben presto ci annoiammo (non potendo spendere chissà che, almeno lui) e ritornammo al camioncino giallo. Visto così, fermo e parcheggiato, mi sembrò davvero brutto. Un colore che odiavo, il giallo.
Samuel mi fece sedere al posto di fianco al conducente, poi decise che preferiva guidare da lì fino a Denver senza soste – se non quelle per riposare – e tornò indietro per cercare un posto dove vendessero dei panini con prosciutto e formaggio.
– Senza formaggio, per me – gli dissi, e lui mi guardò storto, ma non disse niente.

Qui inizia un periodo delle mie vicissitudini differente da quanto sopra raccontato. Più avanti negli anni, quando ebbi modo di valutare con occhio più critico quanto accaduto, giunsi alla conclusione che ciò che successe fu frutto del caso, che per poco non mi volle morto.

Fu quando avevamo fatto altre cinque o sei ore di viaggio che successe il dramma. Almeno, per me fu decisamente drammatico, perché ogni persona che conosco e con cui parlo, è come un pezzettino minuscolo di quello che sono, e io la reputo preziosa. E questa volta non era egoismo. Io reputavo – e reputo ancor oggi – le persone, generalmente parlando, come parte importante della vita di qualcuno. Certo, al centro del nostro mondo ci siamo sempre noi, ma non ci sarebbe un mondo senza le persone.
Ci eravamo fermati per mangiare i panini e dormire un po’ prima di riprendere il viaggio che si sarebbe protratto per buona parte della notte. Avevamo parcheggiato il furgoncino giallo a bordo strada, mezzo dentro alla terra desertica che caratterizza buona parte dell’America occidentale. Sam si era sparato due panini e dove aveva tirato fuori una canna. Si era messo quindi a fumare in santa pace, mentre io potevo finalmente scrivere qualcosa alla debole luce interna del nostro mezzo di trasporto. Quel giorno la luna era ancora piena, e la strada risultava ampiamente illuminata. La luce della luna avrebbe dovuto fare la differenza, ma non la fece. Non sarebbe cambiato nulla se ci fosse stata la luna nuova.
Alla radio ora cantava un artista di colore di cui ora non ricordo il nome. Ma era bravo, un jazzista proprio niente male. Non conoscendo le note delle sue canzoni – tanto più che nel jazz l’improvvisazione gioca la sua parte –, non mi risultava fastidioso ai fini della mia attività.
Forse fu proprio a causa della musica che non lo sentimmo. O forse, invece, bisogna considerare che i disperati, quando vogliono, non fanno rumore, soprattutto se ciò li può condurre più facilmente al loro scopo.
Samuel aveva un’aria rilassata, sul volto quell’espressione distesa e neanche minimamente preoccupata che l’erba è capace di trasmetterti. I capelli biondo cenere, un po’ sudati per il caldo e la guida, gli si erano appiccicati alla fronte. Probabilmente si radeva spesso e non avrebbe potuto farlo fino a Denver, perché, rispetto al giorno prima, si notava una certa crescita di peluria sul mento e sulla faccia.
Insomma, uno in un momento del genere si aspetta tutto fuorché quello che accadde. Credo che avrei potuto evitarlo, se fossi stato più grande – o più coraggioso –, ma in quella situa-zione non fui capace di fare nulla a vantaggio di Samuel. Successe tutto così in fretta.
Qualcuno bussò alla portiera del conducente. Sam mi guardò perplesso, mi passò la canna – ne approfittai per fare un tiro – e aprì la portiera. Il momento dopo non era più sul camion. Qualcuno l’aveva preso per la camicia azzurra e tirato giù di forza. Aprii la mia portiera mentre sentivo più colpì secchi con-tro qualcosa, che si mischiava alle urla di dolore del mio com-pagno di viaggio.
Feci il giro del camioncino. Le urla non avevano già più nulla di umano, le ricordo bene in quei due o tre secondi in cui non vedevo ancora nulla. Erano urla già soffocate, come se Sam stesse tentando di gridare con dell’acqua in gola.
Quello che vidi dalla parte opposta, per poco non mi fece svenire. Samuel era a terra in una pozza di sangue, la testa era irriconoscibile, spacca a metà. Gli occhi non si vedevano più, c’era sangue ovunque e il ragazzo era palesemente morto.
In piedi di fianco a lui stava un uomo vestito di stracci, che non riuscivo a vedere bene in viso a causa dell’oscurità. In mano teneva una lunga spranga di ferro. Quello mi si avvicinò ma io inizia a correre verso la strada. Il colpo che avrebbe dovuto colpirmi la testa, finì poi molto più in basso (probabilmente si era accorto che non sarebbe riuscito a raggiungermi là in alto), sulla caviglia sinistra, azzoppandomi.
Il dolore che provai in quel momento non è paragonabile a nessun altro dolore che avevo provato prima e che provai in seguito. La vista mi si oscurò, nella mia visuale comparvero tanti puntini luccicanti e pulsanti, ed ad ogni pulsazione io lanciavo un urlo sempre più forte.
Non so come, ma mi rimisi subito in piedi. Su una gamba sola. Sapevo che quel bastardo mi avrebbe ucciso esattamente come aveva appena ucciso Sam se fossi rimasto a terra. Così mi misi a saltellare disperatamente sulla gamba destra – Cristo, per fortuna era la destra – al limite della strada. Nel frattempo pensai a due cose: primo che non avevo mezzo dollaro con me, secondo che odiavo a morte quelle strade perché non ci passava mai nessuno.
L’uomo non mi venne dietro. Almeno, fece qualche passo poi lasciò perdere, sentii benissimo che aveva smesso di se-guirmi. Allora mi voltai e lo vidi barcollare verso il furgoncino: doveva essere ubriaco fradicio per muoversi in quel modo.
Temetti che avrebbe tentato di investirmi. Cambiai direzione – il dolore! – e tornai a dirigermi verso la terra desertica alla mia destra. Quello accese il motore. Io raggiunsi un arbusto e mi ci acquattai dietro. Anche se mi aveva visto, non lo diede a intendere, perché fece partire il camion e lo riportò subito in strada. Appoggiai la testa a terra e lì rimasi, vinto dal dolore.
Svenni mentre sentivo le prime lacrime bagnarmi le guance.

venerdì 8 luglio 2011

12° Capitolo

Immortale

L’uomo è nato con l’istinto di uccisione, è talmente radicato in lui che non so quale sia esistito prima, se l’uomo o l’omicidio come pensiero, come premeditazione di un oscuro acquietarsi , l’incertezza dell’atto che si vuole compiere o la sicurezza, la fede nella falsa bontà dell’azione che svolgono le nostre mani. E poi non è detto che ci sia una grande differenza tra morti e addolorati, quelli che muoiono veramente e quelli che non muoiono ma vivono con la morte nel cuore, è forse peggio che morire e non aprire più gli occhi, io ancora non lo so, non ne sono sicuro, ma me ne rendo conto quando faccio male a qualcuno con le mie azioni o con le mie parole, quando uccido in silenzio, la rivolta inesorabile degli omicidi che adottano metodi nuovi.
Io ero stufo di ferire stando zitto, muovendomi poco o niente, questo era il problema, appena facevo un passo, a qualcuno faceva male qualcosa, ne ero sicuro.
– Dove l’hai lasciata la tua famiglia, Charlie? – mi chiese Samuel, dopo appena un paio d’ore di viaggio in cui l’unica compagnia era stata la musica, Elvis in particolare.
A pascolare nei cambi come pecorelle smarrite.
– A casa; vivo, o forse è meglio dire vivevo, in una cittadina a sud di San Diego.
– E perché te ne sei andato? Oh, perdonami, mi sto impicciando degli affari tuoi.
– Non ti preoccupare, Samuel…
– Chiamami Sam.
– Bene, Sam, come stavo dicendo… me ne sono andato perché odiavo il senso di soffocamento che sentivo nella mia città, e avevo bisogno di levare le tende, ecco, il motivo è questo.
– Un motivo piuttosto strano.
– Che c’è di strano?
– Insomma, non avevi problemi coi tuoi genitori? Coi tuoi fratelli… hai fratelli?
– Un fratello.
– O con i tuoi amici? A scuola era tutto a posto, prendevi buoni voti?
– Certo.
– E allora? Qual è il tuo problema?
– Non è la prima volta che mi fanno questa domanda.
– Non era difficile immaginarlo.
– Solo che non so rispondere.
– Anche questo non era difficile immaginarlo.
Lo guardai: – Penserai che sia pazzo.
– Questa è una conclusione sensata, lo ammetto.
– Ma non lo sono.
– Permetti, anche se non ci conosciamo per niente o quasi, che abbia le mie riserve?
– Senz’altro.
– Ecco, e poi sei stato tu che mi hai suggerito di pensare che tu sia pazzo.
– Non devo averlo fatto intenzionalmente.
– Ma se me l’hai detto dieci secondi fa!
– Okay, chiudiamo la parentesi pazzia. Non sono matto. Ho semplicemente deciso di lasciare la mia casa e la mia famiglia, perché lì non ero a mio agio. Meglio così?
– E la ragazza non ce l’hai?
– A quanto pare no.
– Sei venuto fino a Los Angeles da solo?
– C’erano due amici con me, li ho lasciati lì.
– Consenzienti?
– No.
– Prevedibile.
Sospirai. – La strada è lunga, vero?
– Ti sto annoiando?
– No, è che…
– Okay, ti annoio.
– Ho detto che non mi annoi!
Non mi rispose, aspettò qualche minuto e poi mi chiese:
– Vuoi una sigaretta?
– Sì, grazie.
La gente lasciava andar via la malinconia del venerdì sera insieme al fumo della sigaretta. Un tiro e un po’ di malinconia se ne andava, così va nelle grandi città e anche in qualcuna di quelle più piccole, il venerdì si trascorre nella speranza di un sabato migliore.
Me la porse insieme all’accendino, io l’accesi e poi accesi la sua, che teneva fra i denti, cosicché non si distrasse più di tanto dalla guida.
Mi sembrava che il mondo si fosse ridotto al furgoncino, i momenti della giornata passavano lì, osservavo immobile e un po’ estasiato i minuti trascorrere – volare – e avrei voluto scri-vere, perché era l’unica cosa che sapessi fare e che avrei fatto volentieri, ma non c’era tregua da parte del tempo: egli avanzava, lento o veloce relativamente a chi lo misurava. Quando siamo felici, quando baciamo una ragazza o un ragazzo, quando siamo con qualcuno che amiamo, quel cazzo di tempo passa in istante, nemmeno ci si accorge che è passato, come se io fossi in strada con una bicicletta e lui mi passasse accanto con una moto e io non potessi raggiungerlo.
E invece nel momento più brutto della nostra vita – quello che crediamo sia il momento più brutto, ma in realtà è solo il più brutto fino a quel momento oppure ci siamo dimenticati di quanto siano stati brutti gli altri – il tempo è lì che palleggia in un campo da calcio, e non si sposta che di qualche metro ogni mezz’ora.
– Farà male fumare, – disse Sam dopo aver fatto un lungo tiro, – ma ci vuole quando si è nervosi.
– Eri nervoso?
– Non si vedeva?
Scossi la testa.
Sappiamo tutti fare qualcosa, ci siamo portati, nessuno è un fenomeno. Magari lui sa nascondere bene gli stati d’animo. Oh, se lo sapessero fare coloro a cui involontariamente faccio del male! Non li vedrei soffrire a causa mia!
– I tuoi amici ti cercheranno? – mi chiese Sam.
– Ci hanno rubato la macchina qualche giorno fa, non vedo come potrebbero.
– Ma secondo te c’è la possibilità che lo facciano?
– Oh, certo. Christopher sarebbe capace di andare in capo al mondo pur di trovarmi, e poi sa che sono diretto a New York.
– E allora non andare a New York.
– No, ci devo andare, e comunque non penso sia quella la mia meta.
– Tornerai mai a casa?
– Non ne ho la minima idea.
Se potessimo vedere il futuro, probabilmente non faremmo neanche la metà delle cose che intendiamo fare, perché la consapevolezza delle conseguenze ci devasterebbe, non riusci-remmo a muoverci, a fare un passo, saremmo come una mosca intrappolata in un edificio, una mosca che non sa che dall’altra parte di quell’edificio c’è una finestra aperta, ma preferisce continuare a sbattere contro il vetro di quella che ha davanti.

martedì 5 luglio 2011

11° Capitolo

Volano, leggere

Le dita di Julia scivolavano sui tasti del piano delicatamente, senza fretta, seguendo una melodia lenta, rincorrendola, prendendola e rilasciandola, come se la musica potesse accendere e spegnere i lampadari del salone dell’albergo a suo piacimento. Franz Listz, lo ricordo ancora benissimo.
La musica è qualcosa che non si dimentica.
Poi la melodia accelerò, come una corsa; mi immaginavo correre via, via, Julia dettava il ritmo dei miei passi, rallentava e accelerava e Chris la guardava, estasiato, pur conoscendone le doti, se ne meravigliava, oh, a quante magie si può assistere quando si conosce un ragazzo innamorato.
Mike Dawkins sussurrò che era brava, ma che brava, pensavo, è molto brava, e qui nessuno vuole fare il genio in qualcosa, bisogna solo scoprire in cosa si è bravi ed è fatta, il mondo può andare avanti, io posso scrivere – era l’unica cosa che sapessi fare – e Chris può disegnare, dipingere, colorare. Non siamo fenomeni, siamo portati a fare qualcosa, e abbiamo fede, cre-diamo nella religione delle nostre abilità, nel dio che sta dentro le nostre mani, le mie che scrivevano, quelle di Chris che disegnavano e quelle di Julia che suonavano. La stessa forza che ci sarebbe stata nelle mie mani che avrebbero preso il mio zaino per andarsene due giorni dopo, lasciando soli i miei amici a pensare che non mi avevano dato abbastanza affetto, che non erano stati sufficienti, che avevano fallito, che brutta cosa fallire, e avrebbero guardato dalla finestra, desiderando con tutti i pori della pelle di vedermi camminare verso di loro, tornare, col sorriso sul volto, sorriso che genera sorrisi, lo zaino già mezzo scivolato dalle spalle; ma sarebbe svanito tutto prima che arrivassi davanti alla porta del condominio, come svaniscono tutti i sogni felici nel mattino che li accoglie.
– Ora siamo sistemati tutti e tre – mi disse Chris all’orecchio.
– È così – convenni io.
Ma non sapeva. Quante cose non si sanno.

In quelle ore antecedenti alla mia partenza fui colpito da quella terribile sensazione secondo la quale si vorrebbe essere qualcun altro, magari uno di quei ragazzi che sono felici così, felici di vivere e basta, con una vita normalissima, crescono, si innamorano, vedono un amico piangere e lo aiutano – sono felici di aiutare – e si divertono a conoscere altri ragazzi e altre ragazze, a stringere amicizia, facile stringere amicizia quando si ha una faccia carina e si è abbastanza belli da far sorridere il ragazzo o la ragazza che ti stringe la mano e ti dice piacere, piacere, ora conosci qualcuno in più, forse diventerà tuo amico, tua amica, forse il migliore. Quante lacrime ho versato e continuerò a versare per non aver avuto una vita del genere, anche dopo averla chiesta ogni singolo istante della mia esistenza, non mi è stata concessa.
Parlavo poco ai miei amici, non perché non ci fosse niente da dire, ma perché non volevo parlare. Avevo la nausea delle parole. A scriverle ci riuscivo, a pronunciarle no, mi si bloccava la bocca, non volevano uscire, maledette parole, non volevano uscire.
Preparai di nascosto le cose, chissà come mai quando vogliamo fare qualcosa che crediamo giusta, la facciamo sempre in silenzio, di nascosto, chissà perché siamo convinti che gli altri non possano capire, che noi siamo oltre, che i nostri problemi siano i più gravi.
– Charlie, mi sembri pensieroso – mi aveva detto Chris.
– Non è niente.
Un sospiro.
Quando qualcuno capisce che stai dicendo una bugia, che stai mentendo, di solito sospira.
– Mi metto a rollare, dai.
– Chris! Abbiamo deciso insieme, un anno fa, di smettere di fumare erba. Te ne sei dimenticato?
Lui si mise a ridere. – Se abbiamo deciso insieme di smettere possiamo anche decidere insieme di fare uno strappo alla regola, per questo te l’ho detto, no?
Questo amavo degli amici, quelli veri, che ti chiamavano sempre se ti reputavano talmente importante da condividere qualcosa.

In silenzio sgattaiolai fuori dal mio letto e mi misi le scarpe. Presi lo zaino da sotto il letto e feci qualche passo verso la porta. Chris e Julia dormivano nell’altra stanza, vi gettai uno sguardo dentro quando fui fuori dalla mia: niente sembrava turbare il loro sonno.
Uscii sulle scale e richiusi delicatamente la porta dietro di me. Una luminosa luna piena illuminava i gradini, e non ebbi bisogno di accedere la luce.
Girai un paio di isolati prima di trovare un taxi solitario parcheggiato vicino a un marciapiede. L’autista dormiva, picchiettai sul finestrino e si svegliò. Tolse la sicura e salii dietro.
– Mi può portare fino all’ultima casa di Los Angeles, a est?
– Certo.
Da lì aspettai che passasse qualcuno e ogni volta cercavo di fermarli con l’autostop, ma non ebbi fortuna. Era quasi l’alba quando finalmente un furgoncino giallo si fermò. Alla guida c’era un ragazzo sui venticinque – forse ventisei o ventisette – anni che mi fece segno di salire davanti con lui. Mi strinse la mano e si presentò con un mezzo sorriso:
– Mi chiamo Samuel.
– Piacere Samuel, io sono Charlie.
– Dove vai, Charlie?
– New York, fin dove puoi portarmi?
– Sono diretto a Denver, in Colorado. Sarai quasi a metà strada, una volta arrivati lì.
Sorrisi e lo ringraziai. Egli accese il motore del furgoncino e partimmo.
Alla radio c’era Elvis e Samuel sembrava sapere tutte le canzoni, alternava un fischiettare sommesso e piacevole a un canticchiare ancora più debole, ma percepibile. Aveva capelli biondo cenere spettinati, occhi marroni e un po’ di barba, segno che quella mattina aveva saltato. Vestiva una camicia azzurra a maniche corte e pantaloni neri un po’ sporchi di terra vicino ai piedi. Guardava la strada con sguardo attento e fermo, le mani salde sul volante e una collana d’oro con un crocifisso anch’esso d’oro che penzolava in avanti e a volte andava a sbattere contro la parte superiore del volante. Non emanava un odore sgradevole, ma si vedeva che un bagno non gli avrebbe fatto dispiacere. Per il caldo teneva i finestrini del furgoncino del tutto aperti, e il vento gli scompigliava ancora di più i capelli, alzandoglieli sopra la fronte; mentre i miei, che sono sempre ordinati con la riga a sinistra, non si spostavano di un millimetro.
Mentre percorrevamo la strada sotto il sole del mattino, l’unica immagine che mio occupava la mente – e la torturava – era Chris che, svegliatosi e alzatosi dal letto, scopriva la mia partenza; Chris che veniva colpito dal dubbio, poi divenuto certezza, di aver fallito come amico.
– Charlie, dove sei? Charlie, ti prego rispondimi ti prego ti prego ti prego rispondimi, dove sei?

sabato 2 luglio 2011

Decimo Capitolo

A volte è l’unica strada

– Immaginate un mondo dove gli esseri umani si comportano non da esseri umani, ma da automi. Un mondo dove non si dice grazie, non si dice ciao, dove gli abbracci vengono aborriti, e non dite che non ve ne fate niente, sono le prime cose che amiamo degli amici, gli abbracci, i sorrisi, e bisogna non averne per essere persone ciniche, fredde, quelle che alla mattina si svegliano e non dicono buongiorno adesso si fa colazione, ma escono di casa e non salutano, perché a volte un gesto, uno sguardo, possono cambiare la vita a una persona, non la giornata, la vita, quella che vorresti sempre cambiare da solo, ma non puoi. La felicità è quella che provano una madre o una moglie quando il figlio o il marito arrivano sani e salvi con l’aereo, quello atterra e loro sono felici, magari non urlano, non gridano, non si mettono a saltare sul letto o a fare schiamazzi, ma sono felici, perché la persona, il figlio o il marito o il padre o l’amico o l’amante sono atterrati e sono vivi e l’aereo non è precipitato, possono respirare, lasciar andare il sospiro tanto trattenuto, farsi scappare un sorriso, gli angoli della bocca che si piegano in su e poi si rilassano e si distendono, ma la felicità rimane ancora un po’, aspetta qualche minuto per andarsene, quel che serve per calmare gli animi finché non ci sarà il viaggio di ritorno. E cosa dire dei ragazzi e delle ragazze e di quando si sentono brutti, troppo brutti per pensare anche solo di essere felici, perché è facile avere un visetto carino e andare in giro e far innamorare gli stolti, ma se non siete brutti, se vi piacete e non avete rimpianti, vuol dire che non sapete niente niente niente di cosa significhi essere disprezzati brutti deboli, vittime di scherzi, sono solo scherzi ti dicono, ti ripetono che stanno scherzando, chi se ne frega se sei brutto o sei brutta, ridi anche tu, stiamo scherzando, non vedi, stiamo scherzando. E sono anni decenni millenni che il mondo scherza, prende in giro, ride fino alle lacrime di quanto siano tristi gli altri, facile ridere, facile piegarsi in due quando le cose succedono agli altri, mai a te. A volte l’unica strada è girarsi dall’altra parte, far finta di non aver sentito o di non voler sentire. A volte è l’unica strada.
Così dissi io, o meglio scrissi, all’inizio del mio libro. Come prefazione mi sembrava buona. Mentre la scrissi, sul giradischi andava Chopin.

Cosa dicono a sé stessi, i colpevoli, per riuscire a dormire la notte? In quel periodo della mia vita in cui tutto rallentò, pensai spesso ai miei genitori. Pensare era la mia condanna. Mi sentivo come in quei momenti in cui si dice una cosa terribile, una cosa che si sa che farà male, e un momento dopo averla detta vorremmo non averlo mai fatto, allora ci scusiamo, i sempre innocenti, non l’ho fatto apposta, diciamo, ma il problema è un altro, il problema è che l’abbiamo fatto, e non si torna indietro. Dobbiamo imparare a rimediare andando avanti, e le scuse non bastano mai.
La mattina dopo il giorno in cui ricevetti la lettera di Wendy, chiesi a Chris come si sentiva.
– Strano.
– Non triste? Solo strano?
– Proprio così, Charlie. Ma tu sei triste?
– E secondo te perché scrivo?
Ne parlai anche con Julia, e lei mi disse che i suoi genitori erano separati. Una sera suo padre era tornato a casa con un giorno d’anticipo dopo un viaggio di lavoro e aveva trovato la moglie a letto con un altro; ed era finita lì. Un secondo ed era tutto concluso, come se non fosse mai iniziato, come se i genitori di Julia non si fossero mai sposati, mai baciati, mai una carezza, come se non avessero mai fatto l’amore, e come fanno a chiamarlo amore se poi basta un attimo per non amare più?
– Mi dispiace – le dissi.
– Non ti preoccupare.
– Ma mi dispiace lo stesso.
– Sei una brava persona, Charlie.
– Mi dispiace.
– Ti dispiace anche di essere una brava persona?
– Non esistono brave persone.
– E quelle cattive?
Scossi la testa: – Esistono solo le persone.
Julia sorrise. Forse mi capiva. O forse no.

Fu ai primi di maggio che ci rubarono la Ford. Semplicemente una mattina era scomparsa dal ciglio della strada di fronte al condominio dove la parcheggiavamo sempre.
– Se becco quel figlio di puttana che ha osato…
– Calmati, Chris, – dissi io, – è inutile scaldarsi tanto adesso.
– Sporgiamo denuncia? – chiese lui.
– Sì, ma sarà inutile.
– Be’, sembra che resteremo ancora un po’ a Los Angeles.
– Chris, Chris, Chris… amico mio, esiste… l’autostop.
– Ci deruberanno.
– Non è da escludere.
– Sei pazzo, Charlie.
– Sai che novità.
– E adesso?
– Autostop, Chris. Autostop.
Non successe subito. La nostra vita a Los Angeles non era male, anzi, non potevamo davvero lamentarci. Ma quello che cercavo quando da quando ero partito non era un’altra città e basta. Era qualcosa che ancora non vedevo. E che non ero sicuro di voler vedere.
Inoltre volevo partire da solo, questa volta. Chris e Julia non dovevano sapere niente. A tal proposito avevo un’altra faccenda da sbrigare. Girai qualche albergo, e in ognuno chiedevo se avevano bisogno di qualcuno che suonasse il piano alla sera. Quando trovai quello che cercavo, fui ricevuto dal principale che, dopo avermi sorriso bonariamente, mi strinse la mano.
– Ho il piacere di parlare con il signor…
– Charlie. Charlie Collins, signore.
– Piacere, Charlie, io sono Mike Dawkins. Arriviamo subito al nocciolo della questione: sei tu quello che vuole suonare il piano?
– No, è una mia amica.
– Quanti anni ha?
– Diciassette, signore, quasi diciotto.
– Quanto è brava?
– Suona da quando aveva sette anni, signore. È molto brava, però è qualche mese che è ferma.
– Perché?
Mi grattai la testa in imbarazzo. – Che dire, signore, ce ne siamo andati dal nostro paese, e un pianoforte ha il suo costo.
– Oh, capisco.
– Allora la farà provare, signore?
– Sì, mi piacerebbe vedere come se la cava. Il nostro ultimo pianista si è schiacciato le dita della mano destra con la portiera di una macchina, e forse non potrà più nemmeno suonare.
– Allora la porto da lei stasera, signore, se per lei va bene.
– Va bene, Charlie, vieni pure stasera con la tua amica. Vedremo che cosa sa fare. Arrivederci!
Gli strinsi ancora la mano e me ne andai a casa per informare Julia e Chris. Non avrebbero capito che quello era un modo per assicurarle un lavoro per quando me ne sarei andato.