"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 5 luglio 2011

11° Capitolo

Volano, leggere

Le dita di Julia scivolavano sui tasti del piano delicatamente, senza fretta, seguendo una melodia lenta, rincorrendola, prendendola e rilasciandola, come se la musica potesse accendere e spegnere i lampadari del salone dell’albergo a suo piacimento. Franz Listz, lo ricordo ancora benissimo.
La musica è qualcosa che non si dimentica.
Poi la melodia accelerò, come una corsa; mi immaginavo correre via, via, Julia dettava il ritmo dei miei passi, rallentava e accelerava e Chris la guardava, estasiato, pur conoscendone le doti, se ne meravigliava, oh, a quante magie si può assistere quando si conosce un ragazzo innamorato.
Mike Dawkins sussurrò che era brava, ma che brava, pensavo, è molto brava, e qui nessuno vuole fare il genio in qualcosa, bisogna solo scoprire in cosa si è bravi ed è fatta, il mondo può andare avanti, io posso scrivere – era l’unica cosa che sapessi fare – e Chris può disegnare, dipingere, colorare. Non siamo fenomeni, siamo portati a fare qualcosa, e abbiamo fede, cre-diamo nella religione delle nostre abilità, nel dio che sta dentro le nostre mani, le mie che scrivevano, quelle di Chris che disegnavano e quelle di Julia che suonavano. La stessa forza che ci sarebbe stata nelle mie mani che avrebbero preso il mio zaino per andarsene due giorni dopo, lasciando soli i miei amici a pensare che non mi avevano dato abbastanza affetto, che non erano stati sufficienti, che avevano fallito, che brutta cosa fallire, e avrebbero guardato dalla finestra, desiderando con tutti i pori della pelle di vedermi camminare verso di loro, tornare, col sorriso sul volto, sorriso che genera sorrisi, lo zaino già mezzo scivolato dalle spalle; ma sarebbe svanito tutto prima che arrivassi davanti alla porta del condominio, come svaniscono tutti i sogni felici nel mattino che li accoglie.
– Ora siamo sistemati tutti e tre – mi disse Chris all’orecchio.
– È così – convenni io.
Ma non sapeva. Quante cose non si sanno.

In quelle ore antecedenti alla mia partenza fui colpito da quella terribile sensazione secondo la quale si vorrebbe essere qualcun altro, magari uno di quei ragazzi che sono felici così, felici di vivere e basta, con una vita normalissima, crescono, si innamorano, vedono un amico piangere e lo aiutano – sono felici di aiutare – e si divertono a conoscere altri ragazzi e altre ragazze, a stringere amicizia, facile stringere amicizia quando si ha una faccia carina e si è abbastanza belli da far sorridere il ragazzo o la ragazza che ti stringe la mano e ti dice piacere, piacere, ora conosci qualcuno in più, forse diventerà tuo amico, tua amica, forse il migliore. Quante lacrime ho versato e continuerò a versare per non aver avuto una vita del genere, anche dopo averla chiesta ogni singolo istante della mia esistenza, non mi è stata concessa.
Parlavo poco ai miei amici, non perché non ci fosse niente da dire, ma perché non volevo parlare. Avevo la nausea delle parole. A scriverle ci riuscivo, a pronunciarle no, mi si bloccava la bocca, non volevano uscire, maledette parole, non volevano uscire.
Preparai di nascosto le cose, chissà come mai quando vogliamo fare qualcosa che crediamo giusta, la facciamo sempre in silenzio, di nascosto, chissà perché siamo convinti che gli altri non possano capire, che noi siamo oltre, che i nostri problemi siano i più gravi.
– Charlie, mi sembri pensieroso – mi aveva detto Chris.
– Non è niente.
Un sospiro.
Quando qualcuno capisce che stai dicendo una bugia, che stai mentendo, di solito sospira.
– Mi metto a rollare, dai.
– Chris! Abbiamo deciso insieme, un anno fa, di smettere di fumare erba. Te ne sei dimenticato?
Lui si mise a ridere. – Se abbiamo deciso insieme di smettere possiamo anche decidere insieme di fare uno strappo alla regola, per questo te l’ho detto, no?
Questo amavo degli amici, quelli veri, che ti chiamavano sempre se ti reputavano talmente importante da condividere qualcosa.

In silenzio sgattaiolai fuori dal mio letto e mi misi le scarpe. Presi lo zaino da sotto il letto e feci qualche passo verso la porta. Chris e Julia dormivano nell’altra stanza, vi gettai uno sguardo dentro quando fui fuori dalla mia: niente sembrava turbare il loro sonno.
Uscii sulle scale e richiusi delicatamente la porta dietro di me. Una luminosa luna piena illuminava i gradini, e non ebbi bisogno di accedere la luce.
Girai un paio di isolati prima di trovare un taxi solitario parcheggiato vicino a un marciapiede. L’autista dormiva, picchiettai sul finestrino e si svegliò. Tolse la sicura e salii dietro.
– Mi può portare fino all’ultima casa di Los Angeles, a est?
– Certo.
Da lì aspettai che passasse qualcuno e ogni volta cercavo di fermarli con l’autostop, ma non ebbi fortuna. Era quasi l’alba quando finalmente un furgoncino giallo si fermò. Alla guida c’era un ragazzo sui venticinque – forse ventisei o ventisette – anni che mi fece segno di salire davanti con lui. Mi strinse la mano e si presentò con un mezzo sorriso:
– Mi chiamo Samuel.
– Piacere Samuel, io sono Charlie.
– Dove vai, Charlie?
– New York, fin dove puoi portarmi?
– Sono diretto a Denver, in Colorado. Sarai quasi a metà strada, una volta arrivati lì.
Sorrisi e lo ringraziai. Egli accese il motore del furgoncino e partimmo.
Alla radio c’era Elvis e Samuel sembrava sapere tutte le canzoni, alternava un fischiettare sommesso e piacevole a un canticchiare ancora più debole, ma percepibile. Aveva capelli biondo cenere spettinati, occhi marroni e un po’ di barba, segno che quella mattina aveva saltato. Vestiva una camicia azzurra a maniche corte e pantaloni neri un po’ sporchi di terra vicino ai piedi. Guardava la strada con sguardo attento e fermo, le mani salde sul volante e una collana d’oro con un crocifisso anch’esso d’oro che penzolava in avanti e a volte andava a sbattere contro la parte superiore del volante. Non emanava un odore sgradevole, ma si vedeva che un bagno non gli avrebbe fatto dispiacere. Per il caldo teneva i finestrini del furgoncino del tutto aperti, e il vento gli scompigliava ancora di più i capelli, alzandoglieli sopra la fronte; mentre i miei, che sono sempre ordinati con la riga a sinistra, non si spostavano di un millimetro.
Mentre percorrevamo la strada sotto il sole del mattino, l’unica immagine che mio occupava la mente – e la torturava – era Chris che, svegliatosi e alzatosi dal letto, scopriva la mia partenza; Chris che veniva colpito dal dubbio, poi divenuto certezza, di aver fallito come amico.
– Charlie, dove sei? Charlie, ti prego rispondimi ti prego ti prego ti prego rispondimi, dove sei?

3 commenti:

  1. Ne devi scrivere uno bruttissimo. Altrimenti finisci che non ci credi più, quando ti si dice che son belli.

    RispondiElimina
  2. Ahahahahaha, se mi sembrano brutti sono anche capace di cancellare pagine intere prima di metterli sul blog (vedasi quelli che sono arrivati in ritardo) :D

    RispondiElimina
  3. E' cosa buona e giusta. Le cose o hanno un suono perfetto oppure sono sacrificabili.

    RispondiElimina