"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

lunedì 18 luglio 2011

14° Capitolo

Preferisco sognare

Accolsi il sonno con immenso piacere, proprio come un vecchio amico alleviava il dolore, parlandoti di cose a te care ma da lungo tempo dimenticate.
Il dolore alla caviglia, probabilmente rotta – fracassata! –, lo sentivo in lontananza, simile al ritirarsi flebile delle onde del mare, andava e veniva, piano, ricordandomi di essere presente. Dormivo – sognavo – con la paura, il terrore attanagliante, che al mio risveglio avrei provato un dolore lancinante, di quelli che si ricordano per tutta la vita (e avevo ragione). Così mi ci misi tutto d’impegno per continuare a sognare, fossero anche incubi (e ancora una volta avevo ragione), e chissenefrega se rischiavo di morire nel sonno, sarebbe stato certamente meglio che vivere per qualche ora ancora e morire di sete e fame in quel deserto dove non passava anima viva. E come avrei fatto, poi, a strisciare in tempo fino alla strada, quand’anche avessi sentito il rombo di un motore? Sapevo con assoluta certezza che il dolore mi avrebbe fatto fare solo qualche metro, poi avrei artigliato la terra gridando disperato. E forse mi avrebbero sentito. E se ne sarebbero andati, avendo paura.
Preferii dunque uno spaventoso dormiveglia alla realtà dei fatti che, temevo, m’avrebbe ucciso.

Nel sogno correvo.
Come diceva Nietzsche? Da quando ho imparato a camminare, mi piace correre.
Solo che io in quel momento odiavo correre. Correvo senza volontà, non ero io, una mia riproduzione forse, la mia ombra, io la guardavo dall’alto come si guardano i morti, con disgusto e sdegno, finché muoiono gli altri è facile sdegnarsi, disgustarsi, l’ipocrisia fa da padrona il mondo, muove le mani degli uomini, la burattinaia delle loro azioni e non azioni.
E la mia corsa era indirizzata verso quel furgoncino giallo – giallo nella notte di luna piena, si vedeva, eccome se si vedeva. Giallo! –; correvo con in mano una spranga di ferro e l’agitavo furiosamente, barcollavo, bussavo alla portiera del conducente, attendevo un paio di secondi, abbastanza per sapere cosa stava succedendo – Dio, avrei voluto correre via –, la portiera si apriva e il ragazzo coi capelli biondo cenere e gli occhi nocciola e la camicia azzurra e i pantaloni lunghi e marroni si affacciò solo perché lo tirassi giù – per la camicia – e iniziassi a prenderlo a sprangate sulla testa, con violenza, tanta, tantissima violenza; e lui iniziava a sanguinare, i capelli da chiarissimi passavano a rossi, o così mi parevano (c’era buio, cazzo, buio!) e poi cadeva a terra urlando urlando urlando e non smetteva, volevo che smettesse, lo volevo davvero, ma invece io – la mia ombra – continuavo a colpirlo con quella spranga, gli sentii il sangue in gola, in bocca, che si mischiava alle urla, e poi finalmente tacque e divenne tutto buio quando la portiera dall’altra parte del camioncino si apriva di scatto e un’ombra – un’ombra vera – appariva davanti a me.
Il buio mi cullò fino a quelle pianure verdi e sterminate che erano tante care ai miei sogni più belli. Solo che questa volta c’era anche un vulcano – la cima innevata – in lontananza, il cielo, sereno, era distinguibile anche se ero in un sogno, e sentivo anche una cosa, una musica! Davanti a me, da qualche parte, e mi accorsi che non erano affatto pianure, ma come un altopiano, ondulato e dolce, alti e bassi che si incastravano fra di loro e nascondevano la fonte della musica, ma Cristo, il messaggio di quella musica era chiaro, triste e malinconica un momento, scoppiava di gioia il momento dopo, era un maledetto inno alla vita, ti veniva voglia di correre da tutte le persone che conoscevi, anche quelle che ti stavano antipatiche o odiavi, e abbracciarle, abbracciarle e trasmettere anche a loro, con quell’abbraccio, la voglia di vivere che il contatto delle orecchie con quella musica – quei violini, quel pianoforte, e le chitarre! Le chitarre! – era capace di trasmetterti, oltretutto in maniera così solenne che rischiavano di scapparti i lacrimoni, di quelli che scappavano alla fine di un film particolarmente bello e commovente.
Questa volta mi sentii più vicino a capire dove fosse quel posto, perché sapevo che esisteva, lo sapevo! Ed era lì che volevo vivere, ora ne ero certo.

Il mio risveglio assomigliò all’essere cullato dolcemente, ma sempre più piano. Più mi avvicinavo al momento in cui avrei ripreso completamente i sensi, più il pulsare alla caviglia aumentava. Era ancora notte e non si sentiva alcun suono. Non c’era vento, non c’era niente, il silenzio più assoluto. In quel silenzio, i miei deboli movimenti sembravano fare un rumore pazzesco.
Subito provai a rimettermi in piedi e a camminare ma il piede sinistro non poteva toccare terra, pena una fitta di dolore da farmi vedere le stelle.
Zoppicai malamente (anche con una gamba il dolore non era mica da ridere) verso la strada, stando attento a non inciampare. Se fossi inciampato, mi sarebbe rimasto solo da strisciare, poco ma sicuro.
Alla strada non ci arrivai. Inciampai su un sasso e caddi ruz-zoloni. Misi le mani in avanti per attutire la caduta, ma picchiai le ginocchia e i gomiti sul terreno e me li sbucciai. Uscì un po’ di sangue. Feci leva con le mani e percorsi strisciando gli ultimi metri fino all’asfalto. Lì mi sedetti, inondato da lacrime di rabbia.
– VAFFANCULO! – gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Non so perché, ma mi ero aspettato che qualcuno avrebbe risposto, e invece niente.
– VAFFANCULO! –
Ancora niente.
Decisi che era inutile imprecare contro il silenzio, che tra l’altro, poveretto, non mi aveva fatto niente.
Mi sedetti sul bordo della strada in impaziente attesa che passasse qualcuno, ma ben presto la stanchezza mi vinse e, poggiata con delicatezza la testa a terra, mi addormentai. Il mio sonno fu profondo e privo di incubi.

– Cosa ne facciamo, Thomas?
– Non lo, signora, sembra un drogato.
– Ma guardalo, è solo un ragazzo! Sta dormendo, chissà da quanto tempo è qui.
Cercai di aprire gli occhi, ma la luce del sole me li fece richiudere subito dopo.
– Guarda, Thomas, si sta svegliando!
– Forse dovremmo allontanarci, signora. Potrebbe essere pe-ricoloso.
Quest’ultimo avvertimento fu probabilmente ignorato, perché sentii qualcuno che si chinava su di me. Le mie narici furono invase da un buonissimo profumo femminile. Ancora tentai di aprire gli occhi. Questa volta scorsi dei tacchi e delle scarpe rosse.
– Signora, là c’è qualcosa.
La voce che continuava a rivolgersi alla donna chiamandola signora era indubbiamente maschile e molto rispettosa.
– Come, Thomas?
– Più in là, c’è un corpo.
– Sam – La mormorai, mentre aprivo completamente gli occhi.
– Hey.
La donna mi porse la mano e mi aiutò a mettermi seduto.
– Begli occhi – disse, sorridendo. – Io sono Bianca Anderson.
– Mi chiamo Charlie – riuscii a dire.
– Bene, Charlie. La mia guarda del corpo dice che là – e puntò l’indice alla mia sinistra – c’è un corpo. Ne sai qualcosa?
Ora riuscivo a vederla chiaramente: era – senza scherzi – la donna più bella che avessi mai visto. I capelli biondi e ricci le arrivavano alle spalle, raccolti in una treccia grazie a un fiocco rosso, gli occhi verdi e scuri erano fissi nei miei, senza pudore. Il viso era un ovale perfetto, e le guance – le guance! – erano arrossate, lisce e senza la minima ruga o increspatura, mettevano addosso una voglia matta di accarezzarle. Aveva del trucco azzurro attorno agli occhi, ma non troppo come le attrici o cantanti famose. La mano che mi porgeva era sensuale, asciutta e profumata, e aveva le unghie laccate di rosso, lo stesso rosso delle scarpe coi tacchi. Portava un vestito rosso non troppo scollato ma che le metteva in risalto un seno nella norma.
– Charlie, – ripeté, – sai chi è quello là disteso sull’asfalto?
Mi riscossi: – Come? Oh, è Sam. È morto.
Quelle mie ultime due parole fecero calare un gelo sinistro sulla donna.
– L’hai ucciso tu? – chiese.
Mi venne da ridere, ma scossi la testa. – Non l’abbiamo visto. Voleva rubarci il furgoncino. – Indicai la caviglia. – Ha colpito anche me.
Bianca Anderson guardò il punto che le stavo indicando.
Disse: – Dio santissimo.
– Non posso camminare.
– Thomas!
– Signora?
– Vai a vedere se quello là è morto veramente.
Vidi qualcuno di grosso alle spalle della donna spostarsi e camminare via dal mio campo visivo.
– Dove stavate andando? – mi chiese Bianca.
– Denver. Ci eravamo fermati per mangiare dei panini e riposare un po’. Non l’abbiamo visto.
– Era tuo amico?
– No, avevo fatto l’autostop appena fuori Los Angeles. Lo conoscevo appena.
– Lui o tu dovevate andare a Denver?
– Lui.
– E tu?
– New York.
Bianca sorrise. – Io sono in viaggio per… lavoro. E sto per l’appunto andando a Denver. Tu verrai con me.
Qualcosa mi diceva che l’ultima frase avrebbe dovuto essere pronunciata un po’ diversamente, ma non ci feci caso. Aprii la bocca per ringraziarla ma lei mi precedette.
– Oh no, non è un favore che ti faccio. – Il sorriso si allargò. – È perché io ho deciso così.
In quel momento capii due cose. La prima era che Bianca Anderson mi aveva completamente stregato e che io me ne ero già innamorato follemente. La seconda, meno bella, che c’era qualcosa, nel sorriso di quella donna, che non quadrava.
Mi metteva paura.
Una paura indicibile.

1 commento:

  1. La SPIETATA donna in rosso di nome Bianca. Charlie, salvati finché sei in tempo!

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