"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

lunedì 12 settembre 2011

Incipit della "nuova creatura"


Sole splendente, così chiamava sua madre da piccolo. Sua madre che sorrideva sempre, che non si lamentava mai, che era sola con il figlio ma viveva felice. Sole splendente. L’unica vera luce nella notte. Era lei che gli diceva «resisti» quando i fascisti venivano a prendere qualcuno. Lei che gli leggeva Andersen alla sera. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca. Rimani a testa alta qualsiasi cosa accada, perché ami qualcosa che va al di là delle disgrazie. Però non pensare che sia l’amore e farti fare il primo passo ogni mattina. È il semplice fatto di esistere. L’esistenza ti permette di amare, e tu sei felice di esistere, non di amare. Si ama perché si è vivi».
Rimaneva lì seduta di fianco al suo letto, mentre fuori scendeva la neve – amava l’inverno –, con il libro di Andersen aperto sulle ginocchia. Ma lui pretendeva di vedere le parole, di toccarle con la mano come se avessero un loro spessore. Sua madre gliele indicava, e lui seguiva quel dito giovane e femminile fino a una vocale, una consonante, e restava estasiato di fronte alla formazione di una parola, ammutolito dopo aver letto una frase. Che grande scoperta, quella del mondo della carta. Lo riempiva di meraviglia. Lo illuminava. E non solo perché sua madre era il sole splendente, ma soprattutto perché imparare a scrivere divenne ancor più importante che imparare a leggere. Voleva creare anche lui qualcosa come il soldatino di stagno. Voleva diventare anche lui un sole splendente. Fuori, da qualche parte, qualcuno scriveva contro i fascisti, e loro lo cercavano, poi lo trovavano e lo ammazzavano. Ma quelle persone non avevano una ballerina come il soldatino con cui fondersi insieme nella morte. Avevano le parole. Giuravano di fronte a «libertà», «democrazia», si inchinavano a mani giunte davanti ai libri, chiedendo di salvarli, di tenere per l’eternità la loro stupida idea. E quando chiedeva a sua madre cos’era la libertà, cos’era la democrazia, lei non rispondeva. «Mamma, per favore». E lei ancora stava zitta. Poi gli spiegava che non sapeva cos’erano quelle cose, che ignorava cosa significassero. Diceva: «gli uomini che le usano, raramente ne hanno un’idea concreta». «E allora perché le usano?». «Perché non hanno altro». «Come non hanno altro?». «Hanno solo la carta e le parole». «E perché i fascisti vogliono uccidere le persone che hanno solo la carta e le parole?». «Perché i fascisti non hanno nemmeno quelle». «Noi siamo fascisti, mamma?». «Noi stiamo zitti». «E quindi?». «E quindi è sufficiente questo per essere fascisti».
La riempiva sempre di domande. Le domande lo tenevano vivo. Se non avesse potuto domandare, non avrebbe saputo come vivere. Curiosità, curiosità, curiosità. Sua madre gli ripeteva quella parola per tre, dieci, mille volte. Voleva che gli entrasse in testa. Che diventasse la sua religione. «Prega la curiosità, non Dio. Se non sei curioso, sei morto». «Come faccio a non aver paura della morte, se non prego Dio?». «Luca, tutti moriremo un giorno. Non serve a niente costruire la propria vita sulla convinzione che dopo ci sarà qualcosa». «Ma dopo c’è qualcosa?». «Qualcuno c’è mai stato, in quel dopo?». «No, mamma. Non credo».
Quell’insicurezza, gli diceva, era umana. L’unica certezza della sua vita erano le fiabe di Andersen prima di dormire. E che certezza era, per lui! Era un bambino acuto, di quelli che si amano o si odiano, ma che mai lasciano indifferenti. D’inverno gli piaceva stare sotto le coperte con la cioccolata calda che ogni tanto sua madre gli preparava. Ficcava la testa tra le pagine di Salgari e Stevenson, leggeva finché le parole non si mischiavano fra loro. D’estate, invece, giocava. Ma odiava il gioco perché non c’era nessuno con cui valeva la pena giocare. Non sapeva se era più felice in primavera quando i fiori sbocciavano o in autunno quando li vedeva morire sapendo, in cuor suo, che la prossima primavera sarebbero sbocciati di nuovo. Bastava poco per renderlo felice, ma non accadeva mai che qualcuno, a parte sua madre, ci riuscisse. Non credeva nei miracoli perché non ne aveva mai visto uno, ma anche se ne avesse visti non ci avrebbe creduto lo stesso, perché nessuno aveva mai fatto il miracolo di renderlo felice. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca». Il soldatino con una gamba sola. La ballerina. La loro tragica fine. Che cosa dolce il fatto che due cuori muoiano insieme. Che cosa dolce, il cuore. Era solo un organo, aveva imparato a scuola. Eppure qualcuno, molti anni prima, gli aveva dato un significato più profondo. Qualcuno aveva preso le cinque lettere di “cuore”, la c, la u, la o, la r e la e, le aveva unite in quell’ordine e per la prima volta aveva dato un volto a delle sensazioni, chiamandole cuore. E Luca si chiedeva sempre se quel qualcuno fosse stato un genio o un imbecille. «Nessuno dei due», rispondeva sua madre; «era semplicemente un folle».
Ricordava sempre quella storia che sua madre gli raccontava; una storia diversa dalle altre perché l’aveva inventata lei. Parlava di un padre, di suo figlio e dei fascisti. Il padre scriveva per un giornale di un altro partito, e continuò a scrivere anche dopo che i fascisti iniziarono a sopprimere tutta l’opposizione politica, divenendo di fatto l’unico partito eleggibile nel paese. Continuò a scrivere semplicemente perché non poteva farne a meno. Così, quando lo vennero a prendere, seppellì suo figlio sotto una montagna di libri e i fascisti non lo trovarono. Fucilarono il padre, e nessuno disse niente. Fucilarono altri cento padri, e nessuno disse niente nemmeno questa volta. E tutto questo alla gente andava bene, perché chi veniva ammazzato era solo perché non voleva diventare fascista. Quel bambino crebbe tra i libri che gli avevano salvato la vita. Respirò le loro pagine e parlò con le loro parole. E non divenne mai fascista.

─ Marco Tamborrino

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