Si accovacciò sulla lupa e le toccò il pelo. Le toccò i denti, freddi e perfetti. L'occhio voltato verso il fuoco non rispecchiava più la luce e con il pollice glielo richiuse, le si sedette a fianco e le mise una mano sulla fronte insanguinata. Chiuse gli occhi per potersela immaginare correre libera tra le montagne, alla luce delle stelle, dove l'erba è umida e l'apparire del sole non ha ancora fatto svanire l'immagine delle creature che nella notte le sono passate davanti. Cervi, lepri, colombe e avicole, tutti ben fissati nell'aria per la sua gioia, tutte le nazioni del possibile mondo voluto da Dio del quale lei era parte, dal quale non era separata. Lì dove lei correva le urla dei coyote cessavano come se davanti a loro si fosse chiusa una porta e tutto fosse paura e meraviglia. Le sollevò la testa rigida appoggiata alle foglie, la trattenne, o si allungò per trattenere ciò che non si può trattenere, ciò che già correva tra le montagne, al contempo tremendo e bellissimo, come un fiore carnivoro. Ciò che costituisce la sostanza del sangue e delle ossa, ma che sangue e ossa non si possono generare, né su un altare né con una ferita di guerra. Ciò che noi possiamo credere che sia in grado di tagliare, dar forma e plasmare la sagoma scura del mondo, se vento e pioggia sono in grado di farlo. Ma che non può venir trattenuto, non può mai venir trattenuto e non è un fiore, ma è una cacciatrice veloce di cui il vento stesso ha terrore e che il mondo non può perdere.
─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'
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