So già in partenza che questo articolo sarà troppo di parte. Amare o non amare un libro è un fattore soggettivo, ma succede anche di non amare libri che reputiamo comunque opere di grande valore. Bene, direi che si può anche cominciare. Mettetevi comodi, magari con una cioccolata calda e fumante davanti a voi, perché sarà un viaggio piuttosto lungo. Spero di introdurvi delicatamente. Spero che di raccontarvelo come è giusto che vada raccontato.
Dubito possa servire a qualcosa premettere che McCarthy è considerato da gran parte della critica il più grande scrittore americano vivente. Sopra a Roth, De Lillo e Thomas Pynchon. Non avendo io letto gli altri tre, non posso fare un paragone. Passiamo quindi ai fatti. McCarthy è nato nel ’33, vive isolato a El Paso (un po’ alla Salinger, ma anche il collega Pynchon non scherza con la privacy) e ha una moglie e un figlio di pochi anni, John. I giornalisti vengono invitati a giocare a biliardo, ma nessuna intervista viene mai concessa. È uno scrittore d’altri tempi, il nostro Cormac. Scrive con un inglese del ‘600, prosa densa e lapidaria e uso sconcertante delle metafore. Se si pensa che un anno l’Accademia Svedese ha dato il Nobel a Dario Fo, allora c’è da sghignazzare. Niente contro Fo, solo che il Nobel per la letteratura dev’essere un Nobel per la letteratura. Non per qualcos’altro. E McCarthy è uno scrittore che, ancora in vita, viene già annoverato fra i classici.
La Trilogia della Frontiera è la sua opera di cui intendo parlare. Composta da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, è sicuramente uno di quei tentativi tipici dell’uomo nella sua arroganza di rendersi immortale con le parole. L’unica differenza è che McCarthy non aveva affatto quest’intenzione. Lui s’è messo lì e ha pensato la sua storia e poi l’ha scritta. E ringraziamolo all’infinito per averlo fatto.
Cavalli selvaggi è il libro più giovane. Non solo in senso cronologico, ma in senso letterale. Non è un libro immaturo, ma non c’è la consapevolezza degli ultimi due. È un libro selvaggio, anche se il titolo originale è All the pretty horses. È un romanzo dove la natura esplode ad ogni riga, dove i personaggi sono costretti a combattere con la natura e al tempo stesso farsela amica. È il romanzo dell’amore, dell’ingiustizia e dell’incomprensione del Messico come paese a sé stante, diverso da tutto il mondo. Ma anche romanzo della crescita, della maturazione, dei sensi di colpa. Ed è importante per capire fino a che punto il protagonista, John Grady Cole, potrà spingersi. Perché noi lo ritroveremo nell’ultimo romanzo e non sapremo quale sarà il punto di non ritorno, consci però che dovrà esserci per forza. A un certo punto del libro, un personaggio dice che il Messico è diverso. Che il Messico non è come l’America. È un tema molto ricorrente nei tre libri. Il Messico è un mondo a parte, affascinante e pericoloso, un mondo pulsante e vivo che attira coloro che vogliono ripartire da zero. Fare tabula rasa. Tracciare una riga nel passato. Ma John Grady la riga non l’ha tracciata abbastanza spessa. Il bello di McCarthy è che lui non ci dice mai i pensieri dei personaggi. È una cosa io per esempio non riesco a evitare quando scrivo. Lui invece lo fa tranquillamente. Traspare tutto dai dialoghi e dai gesti, anche da un “sì” o un “no” e il più piccolo movimento. Questo significa saper usare le parole. Ogni pagina sembra una pennellata che colora la storia di un fascino indiscutibile, oscuro, misterioso. Le pagine sulle cavalcate notturne di John e Alejandra sono pura poesia, altissima letteratura, e c’è poco altro da dire. Così come il tragico destino di Blevins, si potrà capire il valore dell’adolescenza negli aspetti più drammatici.
Oltre il confine è il mio preferito. Parlarne non è facile. È immenso, e si potrebbe finire qui. La prima parte racconta di un gioco di sguardi tra un ragazzo e una lupa, un gioco di sguardi che dura decine di pagine e lascia senza fiato. Forse le più belle pagine mai scritte sul rapporto uomo-natura. E anche le più tristi. Il fatto è che McCarthy proprio non fa sconti. Non ti viene mai da pensare: ora al protagonista andrà bene, ora sarà felice perché se lo merita. La vita non è così. E questi libri sono la vita e la storia di tutti noi, come fossimo un unico organismo. Oltre il confine ha il potere di farti sentire affine a tutta l’umanità. Affine al tuo nemico, affine a chi abita dall’altra parte del globo. Nella seconda, nella terza e nella quarta parte del romanzo, Billy Parham intraprende un viaggio che lo porterà ad attraversare il confine tra America e Messico ben tre volte, per tre ragioni diverse. E come dirà nell’ultimo libro della trilogia, nessuna delle tre volte è tornato con quello che cercava quando è partito. Perché il Messico è diverso. Tragico e senza speranza, ricco di racconti nel racconto e di testimonianze di vita da parte di gente vecchia, stanca, ma pur sempre disponibile ad accogliere qualcuno in casa e dargli da mangiare nonostante si viva di stenti. Perché, ci tocca dirlo ancora una volta, il Messico è diverso. In Oltre il confine la natura è ancora più viva, più presente, ma non per questo meno spietata; anzi, probabilmente lo è ancora di più. E la drammaticità delle scelte dei personaggi si riversa completamente sulle loro sorti. Un libro dove la luce non c’è, dove non c’è mai stata. Perché basta un attimo per cambiare la vita di Billy quando il ragazzo realizza di aver catturato una lupa. Dovrebbe spararle o andare ad avvisa il padre. E invece la libera e decide di riportarla al suo paese d’origine. Una scelta definitiva. E McCarthy ci dice, più o meno a pagina trenta: “non avrebbe più rivisto i suoi genitori”. Ci fa chiedere se noi abbiamo mai provato a cambiare la nostra vita.
Città della pianura ha una struttura diversa, ma era lo scopo di McCarthy scriverlo come l’ha scritto. Molto dialogato, molto statico per buona parte della narrazione. John Grady Cole e Billy Parham lavorano nello stesso ranch e ascoltano sotto le stelle i racconti dei vecchi tempi. In questi racconti la ricorrenza è che in Messico nessuno aveva niente, nessuno aveva mai avuto niente e mai avrebbe avuto qualcosa, ma, anche così, la sola possibilità che ti chiudessero la porta in faccia era impensabile. Ed è in Messico, che John Grady s’innamora per la seconda volta. L’amore lo porterà al limite, fino a scontrarsi col protettore di lei, Eduardo, in un duello epico ed emblematico, manifesto di un paese che se non ci sei nato, non lo puoi capire. Perché quando senti per la prima volta una canzone messicana pensi di aver capito tutto, quando ne hai sentite più di cento ti rendi conto di non aver capito niente, fosse anche la stessa canzone ripetuta per cento volte. Ho ritrovato Billy, ho ritrovato il suo carattere protettivo, sincero, affettuoso. E il finale mi ha devastato proprio per questo. McCarthy se ne frega dell'opinione di coloro che leggeranno ciò che scrive. E ciò che scrive è verità pura e semplice. Non c'è altro. Tu vieni messo di fronte a parole che non sono parole ma pugni nello stomaco. Vieni messo di fronte a tragedie umane di portata inarrivabile. Per questo mi sono ritrovato a piangere in classe, alla fine. Perché non ce la facevo. Non ce la facevo a sopportare tutto quel dolore, tutta quella tristezza. È deprimente. Ma è anche bellissima.
La Trilogia presa nel suo insieme è maestosa, imponente. È capace di farti credere che nient’altro possa superarla in grandezza. Io sono sempre pronto a essere smentito, ma qualcosa mi dice che non sarà così. McCarthy ha fatto centro. Ha raccontato la vita dell’uomo e l'ha racchiusa in tante storie che alla fine sono un’unica storia. La stessa, identica storia per tutti noi. È come se avesse detto «Io ho scritto questa cosa e ve l’ho fatta leggere, ma state attenti che sto parlando non solo del Messico e dell’America degli anni ’40 e ’50. Sto parlando anche di voi. Soprattutto di voi».
─ Marco Tamborrino
22 ottobre 2011