"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

sabato 22 ottobre 2011

Trilogia della Frontiera - Cormac McCarthy



So già in partenza che questo articolo sarà troppo di parte. Amare o non amare un libro è un fattore soggettivo, ma succede anche di non amare libri che reputiamo comunque opere di grande valore. Bene, direi che si può anche cominciare. Mettetevi comodi, magari con una cioccolata calda e fumante davanti a voi, perché sarà un viaggio piuttosto lungo. Spero di introdurvi delicatamente. Spero che di raccontarvelo come è giusto che vada raccontato.

Dubito possa servire a qualcosa premettere che McCarthy è considerato da gran parte della critica il più grande scrittore americano vivente. Sopra a Roth, De Lillo e Thomas Pynchon. Non avendo io letto gli altri tre, non posso fare un paragone. Passiamo quindi ai fatti. McCarthy è nato nel ’33, vive isolato a El Paso (un po’ alla Salinger, ma anche il collega Pynchon non scherza con la privacy) e ha una moglie e un figlio di pochi anni, John. I giornalisti vengono invitati a giocare a biliardo, ma nessuna intervista viene mai concessa. È uno scrittore d’altri tempi, il nostro Cormac. Scrive con un inglese del ‘600, prosa densa e lapidaria e uso sconcertante delle metafore. Se si pensa che un anno l’Accademia Svedese ha dato il Nobel a Dario Fo, allora c’è da sghignazzare. Niente contro Fo, solo che il Nobel per la letteratura dev’essere un Nobel per la letteratura. Non per qualcos’altro. E McCarthy è uno scrittore che, ancora in vita, viene già annoverato fra i classici.

La Trilogia della Frontiera è la sua opera di cui intendo parlare. Composta da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, è sicuramente uno di quei tentativi tipici dell’uomo nella sua arroganza di rendersi immortale con le parole. L’unica differenza è che McCarthy non aveva affatto quest’intenzione. Lui s’è messo lì e ha pensato la sua storia e poi l’ha scritta. E ringraziamolo all’infinito per averlo fatto.

Cavalli selvaggi è il libro più giovane. Non solo in senso cronologico, ma in senso letterale. Non è un libro immaturo, ma non c’è la consapevolezza degli ultimi due. È un libro selvaggio, anche se il titolo originale è All the pretty horses. È un romanzo dove la natura esplode ad ogni riga, dove i personaggi sono costretti a combattere con la natura e al tempo stesso farsela amica. È il romanzo dell’amore, dell’ingiustizia e dell’incomprensione del Messico come paese a sé stante, diverso da tutto il mondo. Ma anche romanzo della crescita, della maturazione, dei sensi di colpa. Ed è importante per capire fino a che punto il protagonista, John Grady Cole, potrà spingersi. Perché noi lo ritroveremo nell’ultimo romanzo e non sapremo quale sarà il punto di non ritorno, consci però che dovrà esserci per forza. A un certo punto del libro, un personaggio dice che il Messico è diverso. Che il Messico non è come l’America. È un tema molto ricorrente nei tre libri. Il Messico è un mondo a parte, affascinante e pericoloso, un mondo pulsante e vivo che attira coloro che vogliono ripartire da zero. Fare tabula rasa. Tracciare una riga nel passato. Ma John Grady la riga non l’ha tracciata abbastanza spessa. Il bello di McCarthy è che lui non ci dice mai i pensieri dei personaggi. È una cosa io per esempio non riesco a evitare quando scrivo. Lui invece lo fa tranquillamente. Traspare tutto dai dialoghi e dai gesti, anche da un “sì” o un “no” e il più piccolo movimento. Questo significa saper usare le parole. Ogni pagina sembra una pennellata che colora la storia di un fascino indiscutibile, oscuro, misterioso. Le pagine sulle cavalcate notturne di John e Alejandra sono pura poesia, altissima letteratura, e c’è poco altro da dire. Così come il tragico destino di Blevins, si potrà capire il valore dell’adolescenza negli aspetti più drammatici.

Oltre il confine è il mio preferito. Parlarne non è facile. È immenso, e si potrebbe finire qui. La prima parte racconta di un gioco di sguardi tra un ragazzo e una lupa, un gioco di sguardi che dura decine di pagine e lascia senza fiato. Forse le più belle pagine mai scritte sul rapporto uomo-natura. E anche le più tristi. Il fatto è che McCarthy proprio non fa sconti. Non ti viene mai da pensare: ora al protagonista andrà bene, ora sarà felice perché se lo merita. La vita non è così. E questi libri sono la vita e la storia di tutti noi, come fossimo un unico organismo. Oltre il confine ha il potere di farti sentire affine a tutta l’umanità. Affine al tuo nemico, affine a chi abita dall’altra parte del globo. Nella seconda, nella terza e nella quarta parte del romanzo, Billy Parham intraprende un viaggio che lo porterà ad attraversare il confine tra America e Messico ben tre volte, per tre ragioni diverse. E come dirà nell’ultimo libro della trilogia, nessuna delle tre volte è tornato con quello che cercava quando è partito. Perché il Messico è diverso. Tragico e senza speranza, ricco di racconti nel racconto e di testimonianze di vita da parte di gente vecchia, stanca, ma pur sempre disponibile ad accogliere qualcuno in casa e dargli da mangiare nonostante si viva di stenti. Perché, ci tocca dirlo ancora una volta, il Messico è diverso. In Oltre il confine la natura è ancora più viva, più presente, ma non per questo meno spietata; anzi, probabilmente lo è ancora di più. E la drammaticità delle scelte dei personaggi si riversa completamente sulle loro sorti. Un libro dove la luce non c’è, dove non c’è mai stata. Perché basta un attimo per cambiare la vita di Billy quando il ragazzo realizza di aver catturato una lupa. Dovrebbe spararle o andare ad avvisa il padre. E invece la libera e decide di riportarla al suo paese d’origine. Una scelta definitiva. E McCarthy ci dice, più o meno a pagina trenta: “non avrebbe più rivisto i suoi genitori”. Ci fa chiedere se noi abbiamo mai provato a cambiare la nostra vita.

Città della pianura ha una struttura diversa, ma era lo scopo di McCarthy scriverlo come l’ha scritto. Molto dialogato, molto statico per buona parte della narrazione. John Grady Cole e Billy Parham lavorano nello stesso ranch e ascoltano sotto le stelle i racconti dei vecchi tempi. In questi racconti la ricorrenza è che in Messico nessuno aveva niente, nessuno aveva mai avuto niente e mai avrebbe avuto qualcosa, ma, anche così, la sola possibilità che ti chiudessero la porta in faccia era impensabile. Ed è in Messico, che John Grady s’innamora per la seconda volta. L’amore lo porterà al limite, fino a scontrarsi col protettore di lei, Eduardo, in un duello epico ed emblematico, manifesto di un paese che se non ci sei nato, non lo puoi capire. Perché quando senti per la prima volta una canzone messicana pensi di aver capito tutto, quando ne hai sentite più di cento ti rendi conto di non aver capito niente, fosse anche la stessa canzone ripetuta per cento volte. Ho ritrovato Billy, ho ritrovato il suo carattere protettivo, sincero, affettuoso. E il finale mi ha devastato proprio per questo. McCarthy se ne frega dell'opinione di coloro che leggeranno ciò che scrive. E ciò che scrive è verità pura e semplice. Non c'è altro. Tu vieni messo di fronte a parole che non sono parole ma pugni nello stomaco. Vieni messo di fronte a tragedie umane di portata inarrivabile. Per questo mi sono ritrovato a piangere in classe, alla fine. Perché non ce la facevo. Non ce la facevo a sopportare tutto quel dolore, tutta quella tristezza. È deprimente. Ma è anche bellissima.

La Trilogia presa nel suo insieme è maestosa, imponente. È capace di farti credere che nient’altro possa superarla in grandezza. Io sono sempre pronto a essere smentito, ma qualcosa mi dice che non sarà così. McCarthy ha fatto centro. Ha raccontato la vita dell’uomo e l'ha racchiusa in tante storie che alla fine sono un’unica storia. La stessa, identica storia per tutti noi. È come se avesse detto «Io ho scritto questa cosa e ve l’ho fatta leggere, ma state attenti che sto parlando non solo del Messico e dell’America degli anni ’40 e ’50. Sto parlando anche di voi. Soprattutto di voi».

─ Marco Tamborrino
22 ottobre 2011

domenica 9 ottobre 2011

Ogni cosa è illuminata


(Ricordi cosa ha fatto dopo, Jonathan? Ha adocchiato ancora la foto e
poi l'ha rimessa sul tavolo e poi ha detto: Herschel era una persona
buona, e anch'io, e per questo non è giusto quello che è successo,
niente di questo è giusto. E poi gli ho chiesto: Cosa, cosa è successo?
Lui ha rimesso la foto nella scatola, ti ricorderai, e ci ha detto la
storia. Esattamente così. Ha messo la foto nella scatola e ce l'ha
raccontata. Lui non ha mai schivato i nostri occhi nemmeno una volta, e
nemmeno una volta ha messo le mani sotto il tavolo. Ha detto, ho ucciso
Herschel. Oppure quello che ho fatto è stato come ucciderlo. Cosa vuoi
dire? ho chiesto perché quello che lui ha detto era una cosa così forte
da dire. No,
questo non è vero. Herschel moriva con me o senza di me ma è come se
l'avessi ucciso. Cos'è successo? ho chiesto io. Sono arrivati all'ora
più buia della notte. Venivano semplicemente da un'altra città e dopo
sarebbero andati in un'altra. Sapevano cosa stavano facendo, erano molto
organizzati. Mi ricordo benissimo la sensazione del letto che tremava
quando sono arrivati i carrarmati. Che cosa? Cosa c'è? ha detto la
Nonna. Io mi sono alzato dal letto e ho osservato fuori dalla finestra.
Che cosa hai visto? Ho visto quattro carrarmati e me li ricordo ognuno
in particolare. C'erano quattro carrarmati verdi e gli uomini che
camminavano di fianco. Questi uomini avevano i fucili, ascolta, e li
puntavano contro le nostre porte e le finestre in caso che qualcuno
tentasse di scappare. Era buio, ma questo potevo vedere. E avevi paura?
Sì, avevo paura, anche se sapevo che non ero io quello che volevano. E
come sapevi? Sapevamo di loro. Tutti sapevano. Anche Herschel sapeva.
Non pensavamo che succedesse a noi. Io ti ho detto che credevamo nelle
cose, eravamo così stupidi. E dopo? E dopo ho detto alla Nonna di
prendere il bambino, tuo padre, e andare giù in cantina e non fabbricare
rumore ma anche di non spaventarsi eccezionalmente perché non eravamo
noi che volevano. E dopo? E dopo hanno fermato tutti i carrarmati e per
un momento sono stato così stupido da pensare che era finita, avevano
deciso di tornare in Germania finire la Guerra perché non piace a
nessuno la guerra nemmeno a quelli che sopravvivono, nemmeno ai
vincitori. Ma? Ma naturale che non sono andati via, hanno solo fermato i
carrarmati davanti alla sinagoga e sono usciti fuori dei loro carrarmati
e si sono schierati in righe molto logiche. Il Generale che aveva i
capelli biondi si è messo in faccia un microfono e ha parlato in ucraino
ha detto che tutti dovevano venire alla sinagoga, tutti senza omissioni.
I soldati davano dei pugni a tutte le porte con i fucili e investigavano
le case per essere sicuri che tutti andavano davanti alla sinagoga ho
detto alla Nonna di tornare su con il bambino perché avevo paura che li
scoprissero dentro in cantina e gli sparassero per via del nascondiglio.
Herschel pensavo Herschel deve scappare adesso e come può scappare
deve
correre adesso correre al buio forse è già scappato forse ha sentito i
carrarmati ed è scappato via ma quando siamo arrivati della sinagoga ho
visto Herschel e lui mi ha visto e ci siamo messi vicino perché è questo
che fanno gli amici a cospetto del male o dell'amore. Cosa succederà mi
ha chiesto lui e io ho detto non so cosa succederà e il vero è che
nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo anche se tutti quanti
sapevano che sarebbe stato cattivo. I soldati hanno preso tanto tempo a
finire la loro investigazione delle case era molto importante per loro
star sicuri che tutti erano davanti alla sinagoga. Ho paura ha detto
Herschel penso che piangerò. E perché ho detto io non c'è niente da
piangere non c'è proposito di piangere ma ti dico che anch'io avevo
voglia di piangere e avevo tanta paura ma non per me stesso per la Nonna
e il bambino. Cosa hanno fatto? Cosa è successo dopo? Ci hanno messo in
fila e io ero vicino a Anna da una parte e Herschel dall'altra e delle
donne stavano piangendo perché avevano tanta paura dei fucili che
avevano i soldati e pensavano che tutti noi saremmo morti. Il Generale
con gli occhi azzurri ha portato il microfono sulla faccia. Voi dovete
ascoltare bene ha detto e fare tutto quello che vi è ordinato altrimenti
verrete fucilati. Herschel mi ha detto piano ho tanta paura e io volevo
dirgli scappa hai più speranza se scappi è buio scappa corri altrimenti
non hai speranza ma non potevo dirgli questo perché avevo paura che mi
sparavano perché parlavo e avevo anche paura di rassegnarmi alla morte
di Herschel ammettendola fatti coraggio ho detto con voce più bassa che
potevo devi essere coraggioso anche se lo sapevo che era una cosa così
stupida da dire la cosa più stupida che mai ho detto coraggioso perché?
Chi è il rabbino ha chiesto il Generale e il rabbino ha elevato la mano.
Due delle guardie hanno preso il rabbino e lo hanno spinto nella
sinagoga. Chi è il cantore ha chiesto il Generale e il cantore ha
elevato la mano, ma non era così sereno nella morte come il rabbino lui
piangeva e diceva No a sua moglie No No No No No e lei ha elevato la
mano verso di lui e due guardie l'hanno presa e hanno messo anche lei
nella sinagoga. Chi sono gli ebrei ha chiesto il Generale nel microfono
tutti gli ebrei facciano un passo avanti ma non uno ha fatto il passo
avanti. Tutti gli ebrei devono venire avanti ha detto ancora e questa
volta lui gridava ma non uno ancora ha fatto il passo avanti e ti dico
che se ero ebreo anch'io non facevo il passo e il Generale è venuto
vicino alla prima fila e ha detto nel microfono voi indicate un ebreo o
sarete considerati ebrei e la prima persona da cui è andato era un ebreo
che si chiamava Abraham. Chi è ebreo ha chiesto il Generale e Abraham
tremava. Chi è ebreo ha chiesto ancora il Generale e ha appoggiato la
pistola alla testa di Abraham. Aaron è ebreo, Aaron e lui ha indicato
con il dito Aaron che era nella seconda fila dove eravamo anche noi. Due
guardie hanno acchiappato Aaron e lui faceva foltissima resistenza così
gli hanno sparato nella testa e questo è quando ho sentito la mano di
Herschel che toccava la mia. Fate come vi è ordinato ha gridato al
microfono il Generale con una cicatrice sulla faccia, altrimenti. E'
andato alla seconda persona della fila che era un mio amico Leo e ha
detto chi è ebreo e Leo ha indicato Abraham e ha detto quell'uomo è
ebreo perdonami Abraham due guardie hanno accompagnato Abraham in
sinagoga e una donna nella quarta fila ha cercato di scappare via con il
suo bambino nelle braccia ma il Generale ha gridato in tedesco quella
lingua terribile la lingua più paurosa disgustosa e mostruosa e una
delle guardie ha sparato a lei dietro la testa e dopo hanno portato lei
e anche il suo bambino che era ancora vivo nella sinagoga. Il Generale è
andato dal secondo uomo della fila e da quello dopo e tutti facevano
segno è un ebreo perché nessuno voleva essere ucciso un ebreo faceva
segno a suo cugino e uno faceva segno a se stesso perché non voleva fare
segno a un altro. Hanno portato Daniel nella sinagoga e anche Talia e
Louis e tutti gli ebrei che c'erano ma per qualche proposito che io non
saprò mai nessuno ha mai indicato Herschel forse perché io ero l'unico
amico suo e lui non era tanto socievole e tanta gente non sapeva nemmeno
che esistesse ero l'unico che poteva indicare lui o forse era perché era
così buio che non lo vedevano più. Non è passato troppo tempo che lui è
rimasto l'unico ebreo fuori dalla sinagoga. Adesso il Generale era nella
seconda fila e ha detto a un uomo, lui chiedeva soltanto agli uomini io
non so perché, chi è ebreo e l'uomo ha detto sono tutti dentro la
sinagoga perché lui non conosceva Herschel o non conosceva che Herschel
era ebreo. il Generale gli ha sparato in testa e io ho sentito la mano
di Herschel che toccava la mia molto piano e sono stato attento a non
guardarlo il Generale è andato da quello dopo ha chiesto chi è ebreo e
questo ha detto sono tutti dentro alla sinagoga mi deve credere non sto
dicendo falso perché dovrei dire falso potete ucciderli tutti per quello
che m'importa ma per favore mi risparmi per favore non mi uccida e il
Generale glihasparatointesta e ha detto ora mi sto spazientando ed è
passato all'uomo che c'era dopo in fila ed ero io chi è ebreo ha chiesto
e io ancora ho sentito la mano di Herschel e lo so che la sua mano stava
dicendo pregoprego Eli ti prego non voglio morire prego non indicarmi
sai cosa succederà se indichi me non indicarmi ho paura di morire ho
tanta paura di morire ho tantapauradimorire hotantapauradimorire chi è
ebreo mi ha chiesto ancora il Generale e io sull'altra mano ho sentito
la mano della Nonna e sapevo che lei teneva tuo padre che stava tenendo
te e tu tenevi i tuoi figli e ho tanta paura di morire ho
tantapauradimorire hotantapauradimorire hotantapauradimorire e io ho
detto lui è ebreo chi è ebreo ha chiesto il Generale e Herschel ha
afferrato la mia mano con tanta forza e lui era il mio amico era il
migliore amico lo avrei lasciato anche baciare Anna e l'avrei anche
lasciato fare l'amore con lei ma io sono io e mia moglie è mia moglie e
mio figlio è mio figlio tu capisci che cosa sto dicendo ho indicato
Herschel e ho detto lui è ebreo quest'uomo è un ebreo prego Herschel mi
ha detto e stava piangendo digli che nonèvero prego Eli ti prego due
guardie lo hanno preso e lui non resisteva ma piangeva ancora e più
forte e ha gridato di' a loro che non ci sono più ebrei
noncisonopiùebrei che hai detto che io sono ebreo soltanto per non
morire ti prego Eli seilmioamico non farmi morire io ho tanta paura di
morire hotantapaura vedrai tutto andrà bene gli ho detto non fare questo
ha detto fai qualcosa fai qualcosa faiqualcosa faiqualcosa andrà tutto
bene andrà tuttobene a chi lo dicevo io questo fai qualcosa Eli
faiqualcosa io hotantapauradimorire ho tantapaura lo sai cosa faranno
seilmioamico gli ho detto io anche se non so perché l'ho detto in quel
momento e le guardie lo hanno messo nella sinagoga assieme ad altri
ebrei e tutti noialtri siamo rimasti fuori a sentire piangere il
piantodeibambini e il piantodegliadulti e a vedere la scintilla nera
quando il primo fiammifero è stato acceso da un ragazzo che non poteva
essere più vecchio di me o Herschel o di te adesso ha illuminato quelli
che non erano dentro la sinagoga quelli che non dovevano morire e lui lo
ha buttato sui rami che erano appoggiati alla sinagoga e quello che poi
era così orrendo è che è stato tantolento e il fuoco
sispegnevatantevolte e bisognava rifarlo e io ho guardato la Nonna e
leimihabaciatosullafronte e io l'hobaciatasullabocca e le nostre
lacrimesisonmischiatesullelabbra e dopo io hobaciatotuopadre tante volte
l'ho preso dalle braccia della Nonna e l'hostrettotantoforte talmente
tanto che si è messo di piangere e io dicevo ti voglio bene ti voglio
bene ti voglio bene ti voglio bene tivogliobene tivogliobene
tivogliobene tivogliobene tivogliobene tivogliobene tivogliobene
tivogliobene tivogliobene tivogliobenetivogliobenetivogliobene e sapevo
che bisognava cambiare tutto lasciare tutto dietro alle spalle e sapevo
che non dovevo permettere mai che lui sapesse chieroio o cosavevofatto
perché era per lui che avevofattoquelcheavevofatto era per lui che avevo
indicato Herschel che Herschel era stato assassinato che io avevo
assassinato Herschel ed è per questo che lui è quello che è lui è quello
che è perché un padre ha sempre responsabilità di suo figlio e io sono
io e iosonoresponsabile non di Herschel ma di mio figlio perché l'ho
tenuto con tantaforzachepiangeva perché gli volevo bene così tanto che
ho resolamoreimpossibile e mi spiace per te e mi spiace per Iggy e siete
voi che dovete perdonarmi lui ci ha detto queste cose e Jonathan dove
andiamo adesso cosa faremo con quello che sappiamo il Nonno ha detto
che
io sono io ma potrebbe non essere vero il vero è che anch'io
hoindicatoHerschel e anch'io ho detto luièebreo e ti dico che anche tu
haiindicatoHerschel e anche tu hai detto luièebreo e non solo ma il
Nonno ha anche indicato-me e ha detto luièebreo e anche tu hai
indicatolui e hai detto luièebreo e tua nonna e il Piccolo Igor e tutti
noi ci siamo indicatilunlaltro e così insomma cosa avrebbe dovuto fare
sarebbestatopazzoafareunaltracosa ma è perdonabile quello che ha fatto
puòessereperdonato per il suo dito indice per quelcheilsuoditohafatto
per quellocheindicò enonindicò per quellochetoccònellasuavita e
quellochenontoccò è ancoraluicolpevole e io lo sono lo sono losono io
losono?)
Poi ha detto: «Adesso dobbiamo dormire».

─ Jonathan Safran Foer
Ogni cosa è illuminata

domenica 25 settembre 2011

Recensione libro: "Sulla strada" di Jack Kerouac


E non smisi nemmeno per un attimo di pensare a Dean e a come fosse salito sul treno e si fosse fatto più di cinquemila chilometri sopra quell'orrida terra senza nemmeno sapere il perché, se non per vedere me.

"Sulla strada" è un romanzo che andrebbe letto tutto d'un fiato, tutto in una volta. È un romanzo che non lascia il tempo di respirare, il tempo di fermarsi e mettersi a pensare che razza di vista si sta facendo. Anche i momenti di apparente calma sono falsi, illusioni. Sembra che si sia trovato il proprio posto nel mondo e invece niente, era solo una sensazione passeggera. Perché dare un nome a questa generazione, perché chiamara "Beat Generation"? Quelli che l'hanno vissuta non potevano stare fermi, muoversi era più forte di loro, la strada stessa diventa un personaggio del libro, mentre per loro è un amico cui ritornare dopo pochi giorni di relativa quiete. La strada li porta dalla costa orientale a quella occidentale degli Stati Uniti e viceversa, e ogni volta sembra essere una novità, anche se poi, quando si fa ritorno, ci si sente solo tristi.

Potremmo inquadrare il romanzo di Kerouac come un racconto sul fantastico personaggio di Dean Moriarty (Neal Cassady), colui sul quale puntano i riflettori dello scrittore per tutte le quasi quattrocento pagine. C'è un punto in cui Dean viene abbandonato da tutti. Nessuno più sopporta quel suo fare approfittatore, quel suo sfruttare un amico e poi piantarlo in asso quando gli fa più comodo e ha finito di sfruttarlo. A quel punto Sal Paradise (Jack Kerouac) gli si fa ancora più vicino, e qui rimando al titolo della recensione. La fine del romanzo mi ha lasciato un certo disagio, una certa malinconia, come se Dean si fosse alla fine reso conto di quanto vuota fosse la sua vita, di quanto provasse a riempirla viaggiango e viaggiando, beandosi del mondo e godendoselo fino in fondo. Aveva forse capito che quel suo amico l'aveva salvato, gli aveva mostrato come ci si doveva accontentare di una famiglia dopo infiniti viaggi in giro per l'America e il Messico.

Francamente non riesco a comprendere i tanti commenti negativi che ho letto un po' dappertutto. È il semplice manifesto di un'America che sta cambiando. Che dalla depressione degli anni '30 e dalla Seconda Guerra Mondiale attraversa un breve periodo prima di diventare l'America che è oggi. E in questo cambiamento abbiamo avuto la Beat Generation. Abbiamo avuto questi giovani che non sapevano se il mondo era un luogo che ogni tanto stesse fermo, oltre a muoversi. E per non venir sorpassati, si muovevano anche loro.

E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli lungo il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un'unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità e so che a quell'ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell'arrivo della notte fonda che benedisce la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro, allora penso a Dean Moriarty, persino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty.

giovedì 22 settembre 2011

Recensione libro: "Oltre il confine" di Cormac McCarthy


È il dolore ad addolcire ogni dono.

Grazie, Cormac McCarthy. Grazie all'infinito. Hai scritto il libro della mia vita. E ti chiedo scusa se lo chiamo libro. Ti chiedo scusa per quelli che lo hanno disprezzato e lo disprezzeranno. Perdonali, perché non sanno quello che fanno. Io non posso fare altro che inchinarmi davanti a tanta capacità letteraria. Non posso far altro che piangere sapendo che un autore ancora vivente ha prodotto questo libro. Sapendo che ha scritto queste pagine, che non è stato un dio a farlo.

Scusatemi, sto cercando di razionalizzare un po'. Sono sconvolto, davvero sconvolto. Sono arrivato all'ultima riga con gli occhi pieni di lacrime senza sapere neanche bene il perché. So solo che dentro ero completamente scosso. Ancora adesso faccio una fatica immensa a ragionare, a restare lucido. Le parole, di fronte a certe pagine, vengono meno.

Ci troviamo di fronte a un libro di livello superiore. Non so cos'altro leggerò, nei prossimi anni, ma qui la letteratura - e parlo della letteratura di tutti i tempi - tocca vette altissime. La maggior parte degli scrittori, io per primo, possono solo trascorrere la vita sognando di avere anche solo la metà della bravura di McCarthy, ma la verità è che non l'avranno mai. La verità è che Cormac McCarthy è il miglior scrittore che io abbia mai letto. La verità è che "The Crossing" (Oltre il confine) è talmente immenso che necessita sicuramente decine di riletture prima di poterlo comprendere a pieno. Prima di comprendere ogni riga, ogni parola. Prima di rendersi conto di star leggendo un "miracolo in prosa", come dice il retrocopertina. Prima di accorgersi che sono 370 pagine di poesia, non una di meno.

Le quattro parti in cui è suddiviso il libro sono una più bella dell'altra. La prima, quella che descrive il rapporto tra il protagonista e la lupa, credo comprenda le pagine più belle mai scritte sulla relazione che si può instaurare tra un essere umano e la natura. Le altre tre parti parlano d'altro, e non ho intenzione di accennarvi nemmeno una parola a riguardo.

McCarthy, quando scrive, lo fa scrivendo del lato umano più triste, più cupo, più nero. Lo fa di proposito, perché alla fine la vita è questo. Leggere questo libro è stato come guardare dentro un abisso e rimanere a fissarlo per tutta la durata della lettura. Un abisso che affonda le sue radici in te, come i tuoi occhi affondano le loro in lui. E da quell'abisso è impossibile uscirne. O forse ne esci, ma ne esci con una consapevolezza del mondo da togliere il fiato. Non guarderai più nemmeno un sasso allo stesso modo con cui lo guardavi pieno. McCarthy ha questo potere. Il potere di illuminare di una luce triste tutta la realtà. E poi non c'è nient'altro da fare se non piangere. E piangi per sfinimento, non perché il libro vuole commuovere. Non è quello il suo intento. A dire il vero il libro è così crudo e reale che commuovere è l'ultima delle sue intenzioni. Ma tu piangi perché alla fine non ce la fai più. Piangi perché i personaggi non ti dicono i loro pensieri. Tranne che nei dialoghi, McCarthy non te li dice. Tu lo capisci dai gesti cosa pensano. Tu lo capisci da come vedono il mondo. E il mondo che vedono è un mondo triste, triste, triste.

Ho sottolineato quasi tutto il libro. Ci sono intere pagine sottolineate di seguito. Molti passi li ho già trascritti, ma non li ripoterò nella recensione. Non ha senso, sono talmente belli che stonano con le mie parole.

Ho ancora qualcosa da dire. Vorrei dirvi leggetelo, ma sarebbe banale. Non ha senso leggerlo. Vi renderà solo persone più tristi. Vi renderà ancora più estranei a questo mondo che viviamo tutti i giorni. Vi farà credere che niente ha senso, che tutto quello che facciamo è inutile. Ed è terribile. Io credo che amare un libro così sia semplice. È facile che piaccia. Sia perché è scritto in modo sublime, sia perché McCarthy ha la miglior prosa che io abbia mai conosciuto, sia perché è poesia pura. Ma che lo capiate, che capiate quello che McCarthy vuole dire, be', quella è un'altra storia. Il fatto è che un libro di tale portata letteraria è presente nella maggior parte delle librerie italiane eppure nessuno che conosco l'aveva mai letto o sentito nominare. Toglietevi dalla testa "La strada", l'ultimo lavoro del Maestro. È un bel libro, è bello anche il film, ma qui siamo a livelli inconcepibili per noi comuni mortali. Qui tocchiamto l'apice dell'abilità letteraria che un uomo può raggiungere.

Quando ho detto che avevo ancora qualcosa da dire, intendevo qualcosa di lungo. Se siete stanchi, fermatevi qui. Seguiranno solo inutili soliloqui sulla bellezza di questo libro. Sto già pensando a come costruire l'altare a McCarthy in casa mia.

Billy è un ragazzo incredibile. Incredibile nella sua realtà di uomo, di essere umano. Incredibile nelle sue domande, nei racconti che ascolta durante il suo vagabondare. Ed è reso incredibile soprattutto dalle parole degli altri, da chi parla a lui di cose sconosciute, di ragionamenti sul mondo e sulla vita. Le storie che apprende nel suo viaggio sono molteplici. Le più importanti sono quelle del confronto tra il vecchio e il prete e quella del cieco. Quest'ultima è di una bellezza sconvolgente. Toccante a tal punto che non mi ritenevo degno di leggere. A tal punto da smettere e dirmi: tu non meriti di leggere parole così belle. Tu non meriti di leggere questo libro. Perché io sono nato e ho vissuto diciassette anni della mia vita aspettando di leggere il libro pubblicato l'anno della mia nascita. Ormai lo credo per certo. Ancora grazie, Cormac McCarthy. Mi sembra di deturpare il tuo genio solo parlandone. Anche io non so quello che faccio, perdonami, e io ti perdonerò di avere 78 anni e ti perdonerò il fatto che non saranno molti i libri che ti restano da pubblicare. Ma io mi accontento lo stesso. Io mi accontento del fatto che tu abbia donato al mondo "The Crossing". Tutti dovremmo accontentarcene. Cosa si può chiedere di più dalla vita se non la lettura di un romanzo di questa portata? Davvero, cosa si può chiedere dui più? La felicità, forse? La felicità non è niente.

Un'altra cosa che ho capito, e spero di averla capita nel modo giusto, è che il mondo è una storia. Che tutte le storie fanno parte di un'unica storia, e quella storia è il mondo. E che noi stiamo vivendo una storia, né più né meno. Piango di fronte a questa consapevolezza. Piango di fronte all'illusione del mondo, alla sua inconsistenza, alla sua leggerezza. Come dice Mccarthy, non si può tenerlo in una mano, perché è inconsistente. È una storia. È un'illusione.

Alla fine ho deciso che qualche cosa dovevo pur riportarla. È lunga, ma non può essere altrimenti:

Sono venuto come un eretico che fugge da una vita precedente. Stavo fuggendo.
È venuto a nascondersi?
Sono venuto per via del disastro.
Scusi?
Il disastro. Il terremoto.
Il terremoto, certo.
Stavo cercando prove dell'intervento di Dio nel mondo. Ero arrivato a credere che quell'intervento fosse dettato dall'ira e credevo che gli uomini non si fossero mai interrogati a sufficienza sui miracoli della distruzione. Sui disastri di una certa grandezza. Credevo vi fossero prove del fatto che tutto ciò era stato tenuto in scarsa considerazione. Pensavo che Lui non si sarebbe dato premura di cancellare tutti i segni del proprio intervento. Avevo molta voglia di sapere. Pensavo che magari Lui si divertisse addirittura a lasciare degli indizi.
Che genere di indizi?
Non so. Qualcosa. Qualcosa di imprevisto. Qualcosa fuori posto. Qualcosa non vero o improbabile. Una traccia nella polvere. Un gingillo caduto a terra. Non una causa. No di certo. Non una causa. Le cause non fanno altro che moltiplicarsi e conducono al caos. Volevo sapere cos'aveva in mente. Non potevo credere che distruggesse la propria chiesa senza alcuna ragione.
Crede forse che la gente di qui avesse fatto qualcosa di simile?
L'uomo fumò pensieroso. Sì, credevo che fosse possibile. Possibile. Come nelle città in pianura. Pensavo ci fossero prove di qualcosa di indicibile che l'avesse sollecitato a intervenire. Qualcosa tra le macerie. Tra la polvere. Sotto le vigas. Qualcosa di oscuro. Chi potrebbe dirlo?
Che cosa ha trovato?
Nulla. Una bambola. Un piatto. Un osso.
Si chinò e spense la sigaretta in una coppa di terracotta sul tavolo.
Sono qui a causa di una certa persona. Sono venuto a ricostruirne i passi. Forse a vedere se per caso vi fosse un percorso alternativo. Ma qui non si trova niente. Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d'altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo. Ecco che cosa si poteva trovare qui. Il corrido. La storia. E come tutti i corridos, in fin dei conti raccontava soltanto una storia, perché ce n'è solo una da raccontare.
I gatti si muovevano, il fuoco scoppiettava nella stufa. Fuori, nel villaggio abbandonato, il silenzio più profondo.
Che storia è? domandò il ragazzo.
Nella città di Caborca, sul fiume Altar, visse un uomo, un vecchio. A Caborca era nato e a Caborca morì. Però visse per un certo periodo in questa città, a Huisiachepic.
Che cosa sa Caborca di Huisiachepic e che cosa sa Huisiachepic di Caborca? Sono mondi diversi, dovrai convenire con me. Eppure anche così c'è solo un mondo e qualsiasi cosa tu possa immaginare è un suo elemento necessario. Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c'è mai fine al raccontare. E, ripeto, sia a Caborca che a Huisiachepic che in qualsiasi altro posto con qualsiasi altro nome o senza nome alcuno, tutte le storie sono una cosa sola. Se ascolti come si deve, sono una unica storia.

Voi cosa dite? Voi che parole pronunciate di fronte a un foglio e dell'inchiostro? Che potere avete voi, che potere abbiamo noi, davanti a un libro scritto in questo modo?
Io nessuno. Io sono un poveraccio, una nullità. Sto seriamente pensando di esauire tutti i caratteri a disposizione. Ma poi chi la legge, questa recensione? Ancora due cose, solo due.

Voglio solamente dire a chi è arrivato fino in fondo, che questi libri vi distruggono. Non vi cambiano la vita, non vi salvano. Vi distruggono. La bellezza ha quest'effetto.
L'ultima cosa che vi dico è di regalarlo a tutti coloro che conoscete. Non per distruggerli, ma per farli diventare come voi. Per farli rendere conto della vita e del mondo. Regalatelo e piangete pensando alle persone che amate che piangono leggendolo. Che piangono arrivando all'ultima parola. Arrivando al punto. Ci sono arrivato anch'io. Basta.

domenica 18 settembre 2011

Tutte le storie sono un'unica storia.


Sono venuto come un eretico che fugge da una vita precedente. Stavo fuggendo.
È venuto a nascondersi?
Sono venuto per via del disastro.
Scusi?
Il disastro. Il terremoto.
Il terremoto, certo.
Stavo cercando prove dell'intervento di Dio nel mondo. Ero arrivato a credere che quell'intervento fosse dettato dall'ira e credevo che gli uomini non si fossero mai interrogati a sufficienza sui miracoli della distruzione. Sui disastri di una certa grandezza. Credevo vi fossero prove del fatto che tutto ciò era stato tenuto in scarsa considerazione. Pensavo che Lui non si sarebbe dato premura di cancellare tutti i segni del proprio intervento. Avevo molta voglia di sapere. Pensavo che magari Lui si divertisse addirittura a lasciare degli indizi.
Che genere di indizi?
Non so. Qualcosa. Qualcosa di imprevisto. Qualcosa fuori posto. Qualcosa non vero o improbabile. Una traccia nella polvere. Un gingillo caduto a terra. Non una causa. No di certo. Non una causa. Le cause non fanno altro che moltiplicarsi e conducono al caos. Volevo sapere cos'aveva in mente. Non potevo credere che distruggesse la propria chiesa senza alcuna ragione. Crede forse che la gente di qui avesse fatto qualcosa di simile?
L'uomo fumò pensieroso. Sì, credevo che fosse possibile. Possibile. Come nelle città in pianura. Pensavo ci fossero prove di qualcosa di indicibile che l'avesse sollecitato a intervenire. Qualcosa tra le macerie. Tra la polvere. Sotto le vigas. Qualcosa di oscuro. Chi potrebbe dirlo?
Che cosa ha trovato?
Nulla. Una bambola. Un piatto. Un osso.
Si chinò e spense la sigaretta in una coppa di terracotta sul tavolo.
Sono qui a causa di una certa persona. Sono venuto a ricostruirne i passi. Forse a vedere se per caso vi fosse un percorso alternativo. Ma qui non si trova niente. Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. Di una certa dimensione e di un certo colore. Di un certo peso. Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d'altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo. Ecco che cosa si poteva trovare qui. Il corrido. La storia. E come tutti i corridos, in fin dei conti raccontava soltanto una storia, perché ce n'è solo una da raccontare.
I gatti si muovevano, il fuoco scoppiettava nella stufa. Fuori, nel villaggio abbandonato, il silenzio più profondo.
Che storia è? domandò il ragazzo.
Nella città di Caborca, sul fiume Altar, visse un uomo, un vecchio. A Caborca era nato e a Caborca morì. Però visse per un certo periodo in questa città, a Huisiachepic.
Che cosa sa Caborca di Huisiachepic e che cosa sa Huisiachepic di Caborca? Sono mondi diversi, dovrai convenire con me. Eppure anche così c'è solo un mondo e qualsiasi cosa tu possa immaginare è un suo elemento necessario. Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c'è mai fine al raccontare. E, ripeto, sia a Caborca che a Huisiachepic che in qualsiasi altro posto con qualsiasi altro nome o senza nome alcuno, tutte le storie sono una cosa sola. Se ascolti come si deve, sono una unica storia.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

Forse vorresti comprare un fiore, ma io non potrei mai venderlo


Disse al ragazzo che pur essendo orfano avrebbe dovuto smettere di vagabondare e trovarsi un posto nel mondo, perché quel vagabondare sarebbe diventato per lui una passione e tale passione lo avrebbe estraniato dagli uomini e quindi anche da se stesso. Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare, e imparare a conoscere quei cuori, e per far ciò si doveva vivere con gli uomini e non limitarsi a passare in mezzo a essi. Disse che per quanto l'orfano sentisse di non avere più nulla a che spartire con gli uomini, doveva mettere da parte quella sensazione, perché dentro di lui vi era una grandezza di spirito che gli uomini potevano vedere, e gli uomini avrebbero desiderato conoscerlo e il mondo avrebbe avuto bisogno di lui così come lui aveva bisogno del mondo, perché erano una cosa sola. Alla fine disse che mentre questa era di per sé una cosa buona, come tutte le cose buone costituiva anche un pericolo.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

sabato 17 settembre 2011

Un ragazzo e una lupa


Si accovacciò sulla lupa e le toccò il pelo. Le toccò i denti, freddi e perfetti. L'occhio voltato verso il fuoco non rispecchiava più la luce e con il pollice glielo richiuse, le si sedette a fianco e le mise una mano sulla fronte insanguinata. Chiuse gli occhi per potersela immaginare correre libera tra le montagne, alla luce delle stelle, dove l'erba è umida e l'apparire del sole non ha ancora fatto svanire l'immagine delle creature che nella notte le sono passate davanti. Cervi, lepri, colombe e avicole, tutti ben fissati nell'aria per la sua gioia, tutte le nazioni del possibile mondo voluto da Dio del quale lei era parte, dal quale non era separata. Lì dove lei correva le urla dei coyote cessavano come se davanti a loro si fosse chiusa una porta e tutto fosse paura e meraviglia. Le sollevò la testa rigida appoggiata alle foglie, la trattenne, o si allungò per trattenere ciò che non si può trattenere, ciò che già correva tra le montagne, al contempo tremendo e bellissimo, come un fiore carnivoro. Ciò che costituisce la sostanza del sangue e delle ossa, ma che sangue e ossa non si possono generare, né su un altare né con una ferita di guerra. Ciò che noi possiamo credere che sia in grado di tagliare, dar forma e plasmare la sagoma scura del mondo, se vento e pioggia sono in grado di farlo. Ma che non può venir trattenuto, non può mai venir trattenuto e non è un fiore, ma è una cacciatrice veloce di cui il vento stesso ha terrore e che il mondo non può perdere.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

giovedì 15 settembre 2011

Fratelli


Boyd si svegliò una volta quella notte e restò ad ascoltare il silenzio della casa immersa nell'oscurità e la stufa che scoppiettava, o forse era la casa che scricchiolava al vento della pianura. Quando guardò il letto di Billy vide che era vuoto e dopo un po' si alzò e andò in cucina. Billy sedeva davanti alla finestra a cavalcioni di una sedia. Aveva le braccia incrociate sullo schienale e guardava la luna sul fiume e gli alberi sulla riva e le montagne a sud. Si voltò a guardare Boyd sulla porta.
Cosa fai? disse Boyd.
Mi sono alzato per controllare il fuoco.
Cosa guardi?
Niente. Non c'è niente da guardare.
Che ci fai lì seduto?
Billy non rispose. Dopo un po' disse: Torna a letto. Arrivo subito.
Boyd entrò in cucina. Si fermò accanto al tavolo. Billy si voltò a guardarlo.
Che cosa ti ha svegliato? disse.
Tu.
Non ho fatto nessun rumore.
Lo so.

─ Cormac McCarthy, 'Oltre il confine'

lunedì 12 settembre 2011

Incipit della "nuova creatura"


Sole splendente, così chiamava sua madre da piccolo. Sua madre che sorrideva sempre, che non si lamentava mai, che era sola con il figlio ma viveva felice. Sole splendente. L’unica vera luce nella notte. Era lei che gli diceva «resisti» quando i fascisti venivano a prendere qualcuno. Lei che gli leggeva Andersen alla sera. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca. Rimani a testa alta qualsiasi cosa accada, perché ami qualcosa che va al di là delle disgrazie. Però non pensare che sia l’amore e farti fare il primo passo ogni mattina. È il semplice fatto di esistere. L’esistenza ti permette di amare, e tu sei felice di esistere, non di amare. Si ama perché si è vivi».
Rimaneva lì seduta di fianco al suo letto, mentre fuori scendeva la neve – amava l’inverno –, con il libro di Andersen aperto sulle ginocchia. Ma lui pretendeva di vedere le parole, di toccarle con la mano come se avessero un loro spessore. Sua madre gliele indicava, e lui seguiva quel dito giovane e femminile fino a una vocale, una consonante, e restava estasiato di fronte alla formazione di una parola, ammutolito dopo aver letto una frase. Che grande scoperta, quella del mondo della carta. Lo riempiva di meraviglia. Lo illuminava. E non solo perché sua madre era il sole splendente, ma soprattutto perché imparare a scrivere divenne ancor più importante che imparare a leggere. Voleva creare anche lui qualcosa come il soldatino di stagno. Voleva diventare anche lui un sole splendente. Fuori, da qualche parte, qualcuno scriveva contro i fascisti, e loro lo cercavano, poi lo trovavano e lo ammazzavano. Ma quelle persone non avevano una ballerina come il soldatino con cui fondersi insieme nella morte. Avevano le parole. Giuravano di fronte a «libertà», «democrazia», si inchinavano a mani giunte davanti ai libri, chiedendo di salvarli, di tenere per l’eternità la loro stupida idea. E quando chiedeva a sua madre cos’era la libertà, cos’era la democrazia, lei non rispondeva. «Mamma, per favore». E lei ancora stava zitta. Poi gli spiegava che non sapeva cos’erano quelle cose, che ignorava cosa significassero. Diceva: «gli uomini che le usano, raramente ne hanno un’idea concreta». «E allora perché le usano?». «Perché non hanno altro». «Come non hanno altro?». «Hanno solo la carta e le parole». «E perché i fascisti vogliono uccidere le persone che hanno solo la carta e le parole?». «Perché i fascisti non hanno nemmeno quelle». «Noi siamo fascisti, mamma?». «Noi stiamo zitti». «E quindi?». «E quindi è sufficiente questo per essere fascisti».
La riempiva sempre di domande. Le domande lo tenevano vivo. Se non avesse potuto domandare, non avrebbe saputo come vivere. Curiosità, curiosità, curiosità. Sua madre gli ripeteva quella parola per tre, dieci, mille volte. Voleva che gli entrasse in testa. Che diventasse la sua religione. «Prega la curiosità, non Dio. Se non sei curioso, sei morto». «Come faccio a non aver paura della morte, se non prego Dio?». «Luca, tutti moriremo un giorno. Non serve a niente costruire la propria vita sulla convinzione che dopo ci sarà qualcosa». «Ma dopo c’è qualcosa?». «Qualcuno c’è mai stato, in quel dopo?». «No, mamma. Non credo».
Quell’insicurezza, gli diceva, era umana. L’unica certezza della sua vita erano le fiabe di Andersen prima di dormire. E che certezza era, per lui! Era un bambino acuto, di quelli che si amano o si odiano, ma che mai lasciano indifferenti. D’inverno gli piaceva stare sotto le coperte con la cioccolata calda che ogni tanto sua madre gli preparava. Ficcava la testa tra le pagine di Salgari e Stevenson, leggeva finché le parole non si mischiavano fra loro. D’estate, invece, giocava. Ma odiava il gioco perché non c’era nessuno con cui valeva la pena giocare. Non sapeva se era più felice in primavera quando i fiori sbocciavano o in autunno quando li vedeva morire sapendo, in cuor suo, che la prossima primavera sarebbero sbocciati di nuovo. Bastava poco per renderlo felice, ma non accadeva mai che qualcuno, a parte sua madre, ci riuscisse. Non credeva nei miracoli perché non ne aveva mai visto uno, ma anche se ne avesse visti non ci avrebbe creduto lo stesso, perché nessuno aveva mai fatto il miracolo di renderlo felice. «Tu sei come il soldatino di stagno, Luca». Il soldatino con una gamba sola. La ballerina. La loro tragica fine. Che cosa dolce il fatto che due cuori muoiano insieme. Che cosa dolce, il cuore. Era solo un organo, aveva imparato a scuola. Eppure qualcuno, molti anni prima, gli aveva dato un significato più profondo. Qualcuno aveva preso le cinque lettere di “cuore”, la c, la u, la o, la r e la e, le aveva unite in quell’ordine e per la prima volta aveva dato un volto a delle sensazioni, chiamandole cuore. E Luca si chiedeva sempre se quel qualcuno fosse stato un genio o un imbecille. «Nessuno dei due», rispondeva sua madre; «era semplicemente un folle».
Ricordava sempre quella storia che sua madre gli raccontava; una storia diversa dalle altre perché l’aveva inventata lei. Parlava di un padre, di suo figlio e dei fascisti. Il padre scriveva per un giornale di un altro partito, e continuò a scrivere anche dopo che i fascisti iniziarono a sopprimere tutta l’opposizione politica, divenendo di fatto l’unico partito eleggibile nel paese. Continuò a scrivere semplicemente perché non poteva farne a meno. Così, quando lo vennero a prendere, seppellì suo figlio sotto una montagna di libri e i fascisti non lo trovarono. Fucilarono il padre, e nessuno disse niente. Fucilarono altri cento padri, e nessuno disse niente nemmeno questa volta. E tutto questo alla gente andava bene, perché chi veniva ammazzato era solo perché non voleva diventare fascista. Quel bambino crebbe tra i libri che gli avevano salvato la vita. Respirò le loro pagine e parlò con le loro parole. E non divenne mai fascista.

─ Marco Tamborrino

domenica 4 settembre 2011

I romanzi


I romanzi, [...] non ne ho letti molti, ma quelli che ho letto, a me sembra che non sia sopportabile, la loro forma, questo fatto che pretendono di raccontarti la storia di una persona, di un gruppo di persone, però in realtà non lo fanno, c'è una trama, un inizio e una fine, e in mezzo compaiono dei personaggi, alcuni buoni e alcuni cattivi, e tu ti affezioni e vorresti sapere di loro, com'erano da piccoli e come erano i loro genitori, e cosa pensano dell'amore e della vita, cosa gli succederà quando decideranno di sposarsi, tutte le cose che è normale volere sapere delle persone che ti interessano, e invece gli scrittori ti danno solo poche notizie, quelle che servono per portare avanti la storia, insomma, io mi affeziono, poi non è che mi interessa solo sapere se il tradito si vendicherà o a chi verrà assegnata l'eredità o chi è l'assassino o se il poliziotto verrà ucciso in una sparatoria, io vorrei sapere tutto di quei personaggi, altro e altro ancora, e invece poi arrivi a un punto e c'è la parola fine, e questa mi sembra una cosa così arrogante, e così triste, perdere quelle persone per sempre, insomma hai passato un paio d'ore o di giorni con loro e poi non le riincontrerai più, non è che puoi sperare che ti chiamino al telefono qualche anno dopo e ti raccontino come stanno, niente, persi per sempre, allora forse gli scrittori dovrebbero pensarci bene prima di cominciare scrivere, così, voglio dire, avere moltissime notizie messe da parte sui personaggi, raccontare davvero tutto, anche dopo che finisce la trama, altrimenti a me sembra che i lettori, almeno io sono così, poi ci restano male.

Soriga, 'Sardinia Blues'

Il mondo che non c'è


Era un bambino e andò a dormire con la tristezza nel cuore e pianse, pianse perché non c'era altro da fare. Pianse perché il mondo che sognava non sarebbe mai esistito, perché non appena fosse cresciuto si sarebbe dimenticato di aver pensato queste cose, di aver desiderato che tutti si potessero abbracciare e stringere senza che la gente li guardasse male, pianse perché sapeva che non sarebbe mai giunto il giorno in cui avrebbe potuto dare un bacio sulla guancia a una sua amica o a un suo amico solo per dimostrarle o dimostrargli il suo affetto, come a dire: io ti voglio tanto bene, te ne voglio tanto tanto tanto e per favore abbracciami e baciami anche tu, così stasera non andrò a dormire piangendo, non sentirò mamma che urla con papà e non penserò a mio fratello che è fuori con una ragazza o forse è ubriaco perché è triste, triste di dimenticare quelle cose che anche lui un giorno aveva pensato, triste di aver pianto per loro e con loro, perché il mondo che lui sogna, che io sogno e che noi sogniamo non esiste e non esisterà mai.
Andò a dormire e dopo aver pianto s'addormentò e sognò, sognò che i bambini e le bambine e i ragazzi e le ragazze s'abbracciavano piangendo, ma questa volta piangendo di gioia perché tutti avevano capito che volevano essere abbracciati e stretti con tutte le forze e tutto l'affetto del mondo fino a scoppiare dalla felicità. Poi piansero ancora, e questa terza volta furono lacrime di malinconia perché avevano dimenticato come si sogna o forse la notte era finita ed era sorto il sole.

─ Marco Tamborrino

sabato 3 settembre 2011

Ingenuità umana

Pitt serrò i pugni, furioso... e disperato. Perché sapeva che l'umanità sarebbe passata di stella in stella con la stessa facilità con cui era passata da un continente all'altro, e ancor prima da una regione all'altra. Fine dell'isolamento, fine degli esploramenti autonomi. Il suo grande esperimento era stato scoperto e rovinato. La stessa anarchia, la stessa degenerazione, lo stesso modo di pensare avventato e miope, le stesse disparità culturali e sociali, avrebbero continuato a prevalere... a livello galattico! Cosa ci sarebbe stato adesso? Imperi galattici? Tutti i peccati e le follie di un mondo estesi a milioni di mondi? Tutte le avversità e le difficoltà orribilmente ingrandite? Chi sarebbe riuscito a capire una galassia, dal momento che nessuno era mai riuscito a capire nemmeno un mondo? Chi avrebbe imparato a interpretare le tendenze e a prevedere in futuro in una galassia brulicante di umanità?

─ Isaac Asimov, 'Nemesis'

venerdì 2 settembre 2011

La felicità ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza

Sappi solo che io sono il miglior padre del mondo, davvero. Tutti quelli che mi conoscono la pensano così e fino all'anno scorso, prima che gli affari cominciassero ad andare così bene, passavo un sacco di tempo con Yidò, ogni momento libero. Ancora oggi mi occupo di lui con devozione materna: lo nutro, lo vesto, lo pulisco, e persino in questo momento mi vengono le lacrime agli occhi pensando a quanto bene gli voglio, a quanto sia bello e a come io lo distrugga in continuazione. Cosa ne sarà di lui, Myriam? La linea delicata e fragile del suo mento, la sua solitudine in un gruppo di bambini. Il sorriso incerto, insicuro, che io ho creato per infierirvi contro, senza pietà. Cosa ne sarà di lui, davvero? Una volta potevo indovinare quasi ogni suo pensiero e avevamo il nostro lessico privato. Naturalmente usavamo le loro parole, ma erano nostre, perché le avevo scelte per lui dentro di me. Quasi tutte le parole che ha imparato fino a tre anni gliele ho insegnate io. Gli dicevo: "Ecco un uccello. Ripeti: uccello". E lui mi guardava affascinato, dicendo: "uccello". Solo dopo averla ripetuta la parola diventava sua. Come se io l'avessi masticata e gliela avessi messa in bocca. Era questo il nostro rituale per ogni nuova parola. C'erano persino delle lettere che volevo pronunciasse in un certo modo - una "esse" piena e non leggermente sibilante come la mia, o una "erre" gutturale e virile (come quella di Moshe Dayan, ricordi?)... Non ridere di queste stupidaggini. Mi sentivo come se gli stessi porgendo i primi mattoncini di Lego per costruire il suo mondo, e così facendo penetravo ulteriormente in lui, gli lasciavo un'impronta, esistevo in lui come, forse, non esisto in nessun altro luogo della terra. Capisci? Improvvisamente avevo affondato le radici. Cosa non ho fatto per esistere dentro di lui! Stavo chino sul suo letto quando dormiva, gli passavo una mano sul viso e gli disegnavo i sogni con le dita. Gli sussurravo parole allegre nell'orecchio perché giungessero fino alla fabbrica dei sogni e, all'occorrenza, li rendessero più dorati. Avrei fatto qualunque cosa per divertirlo. E lui rideva con me...

─ David Grossman, 'Che tu sia per me il coltello'

Profanazione

Profanato, già. Era l'unica parola che gli sembrava adeguata, ma loro ne avrebbero riso. Gli volevano bene, lo sapeva, e lo avevano accettato nel loro gruppo, ma ne avrebbero lo stesso riso. Ciononostante c'erano cose non ammissibili. Profanavano il senso dell'ordine di qualsiasi persona sana di mente. Profanavano l'idea fondamentale che Dio avesse dato alla terra un'inclinazione sull'asse, in maniera che il crepuscolo durasse solo dodici minuti circa all'Equatore o si prolungasse un'ora o più lassù, dove gli eschimesi costruivano le loro case di cubetti di ghiaccio. Che lui avesse così deciso e quindi avesse detto: «Okay, se capirete come funziona l'inclinazione, potrete capire tutto quello che vi pare. Perché persino la luce ha peso e quando la nota del fischio di un treno cade all'improvviso è per l'effetto Doppler e quando un aereo varca la barriera del suono il rumore che si sente non è applauso di angeli o flatulenza di demoni, ma solo aria che crolla per tornare al suo posto. Io vi ho dato l'inclinazione e poi mi sono
seduto in una delle file centrali della platea per assistere allo spettacolo. Non ho altro da dire, salvo che due più due fa quattro, che le luci nel cielo sono stelle, che se c'è del sangue lo possono vedere gli adulti bene quanto i bambini e che i bambini morti restano morti». Si può vivere in compagnia della paura, credo, avrebbe voluto dire Stan se gli fosse stato possibile. Forse non per sempre, ma per lungo tempo, questo sì, ma forse non si riesce a vivere in compagnia di una profanazione, perché essa apre una crepa nel tuo modo di pensare e se tu ci guardi dentro vedi che laggiù ci sono esseri viventi con occhietti gialli privi di palpebre, vedi che c'è una tenebra che puzza e dopo un po' ti viene da pensare che forse laggiù c'è un intero universo, ma diverso, un universo dove nel cielo sorge una luna quadrata e le stelle ridono con voci gelide e certi triangoli hanno quattro lati e certi altri ne hanno cinque e certi altri ancora ne hanno cinque elevati alla quinta potenza dei lati. In quell'universo potrebbero crescere rose capaci di cantare. Ogni cosa porta a ogni cosa, avrebbe detto loro se avesse potuto. Andate alla vostra chiesa e ascoltate le vostre storie di Gesù che camminava sull'acqua, ma io, se vedessi qualcuno fare lo stesso, mi metterei a urlare e urlare e urlare. Perché a me non sembrerebbe un miracolo. A me sembrerebbe una profanazione.

─ Stephen King, 'IT'

domenica 28 agosto 2011

Nessuno tocchi Freddie - Prologo




– Provi a spostare il cavallo, signorino Friedrich – gli sussurrò il maggiordomo all’orecchio.
Il bambino alzò gli occhi dalla scacchiera e fissò per un istante sua nonna, che non batté ciglio. Pochi riuscivano a sostenere quello sguardo che, seppur giovane, incuteva timore a causa delle iridi di un azzurro chiarissimo. Sua nonna, che lo conosceva da sempre, era una di quei pochi.
– Non suggerire, Jeeves – disse la nonna al maggiordomo. – Freddie è ben capace di vincere da sé.
Tuttavia il bambino accolse il consiglio e spostò il cavallo verso destra, in avanti.
– Scacco matto – sussurrò, impassibile.
La nonna ridacchiò allegramente. Non rideva spesso, di solito era molto severa. Il bambino le voleva bene, e così anche lei; ed essendo entrambe persone austere e serie, per quanto austero possa essere un bambino, insieme riuscivano a divertirsi, sebbene nessun abitante della Città avrebbe condiviso quel particolare tipo di divertimento.
– È quasi ora che tornino i tuoi genitori – commentò l’anziana donna guardando il suo orologio da polso. – Non mi piace che ritardino.
Le rughe sulla sua fronte s’increspavano sempre quando i genitori di Friedrich erano in ritardo. Aveva capelli radi e bianchi, occhi a mandorla e una voce sottile, limpida.
– Un’altra partita? – chiese il bambino.
La nonna scosse la testa. – Devo andare a preparare la cena. Jeeves, pensa tu a Freddie. Se volete giocare voi due, fate pure.
Il maggiordomo, un uomo allampanato sulla cinquantina, si sedette sul divanetto dove un istante prima c’era seduta la nonna e si mise a riposizionare i pezzi sulla scacchiera. Il bambino sedeva su un altro divanetto.
– Ultimamente la nonna è nervosa – disse il bambino con la sua voce atona.
Jeeves sospirò. – A dirle la verità, signorino Friedrich, anche a me sembra nervosa.
Fecero una partita e il bambino vinse ancora. L’espressione sul viso del maggiordomo era eloquente; si sarebbe detto che era palese la vittoria del bambino ancor prima che iniziassero a giocare.
Si trovavano in un salotto arredato sfarzosamente, c’erano mobili d’antiquariato, un pianoforte a coda, vasi e oggetti di cristallo, un grande tappeto in pelle, un grandissimo orologio di vetro appeso a una parete e un tavolino – su cui posava la scacchiera – al centro dei due divanetti. Poltrone imbottite, scaffali stracolmi di libri e il tutto perfettamente in ordine e pulito.
Prima che potessero iniziare la rivincita, si sentì una chiave girare in una serratura qualche stanza più in là, e udirono la voce della nonna dire: – Eccoli, finalmente.
Il cigolio della porta che si apriva li raggiunse e si alzarono per andare ad accogliere i padroni di casa.
Jeeves si fiondò all’ingresso senza aspettare il bambino. I genitori di questo erano in piedi poco oltre la porta mentre il maggiordomo si impegnava a togliergli le giacche di dosso e metterli sull’appendiabiti.
La madre del bambino gli andò incontro, lo baciò sulla fronte e gli disse: – Tutto bene, Freddie?
Lui annuì gelido. Suo padre gli fece un cenno col capo.
Cenarono in religioso silenzio. Jeeves portava i piatti e poi si sedeva a mangiare qualcosa anche lui. Il bambino intuiva che c’era qualcosa d’importante di cui i suoi genitori avrebbero dovuto discutere con la nonna, ma non erano chiaramente intenzionati a farlo in sua presenza.
Terminato di mangiare, i suoi sospetti furono confermati. Sua madre gli chiese gentilmente se poteva andarsene di là a leggere.
Senza rispondere si alzò e mosse i suoi passi fuori dalla sala da pranzo, ma ciò non servi a niente. Voleva sentire, e avrebbe sentito.
Era fuori dalla porta socchiusa e si preparava a origliare quando udì dei lievi passi accanto a lui.
Jeeves lo guardò serio. – Non dovrebbe, signorino Friedrich.
– Anche tu sei qui per ascoltare – disse semplicemente il bambino. – Allora ascolta con me.
La prima voce che si udì fu quella del padre, e chiaramente si stava rivolgendo alla nonna: – Ciò che avevi sentito è vero, Miranda. I pozzi sono esauriti o avvelenati. Abbiamo ancora due, massimo tre mesi, prima che tutti lo vengano a sapere. Sarà il finimondo. I proprietari dei pozzi se ne andranno in altri paesi con le scorte più massicce, lasciando noi cittadini ad ammazzarci tra di noi finché l’ultima goccia d’acqua non sarà stata bevuta. Noi, non possiamo scappare, Miranda, lo sai bene. Ci vuole almeno un mese di viaggio prima di raggiungere un luogo abitato, e non possiamo comprare scorte per un tempo così lungo senza destare sospetti. E anche se riuscissimo, andarsene sarebbe un’impresa.
Il bambino udì sua madre scoppiare a piangere.
– Ma perché i pozzi si sono esauriti? – chiese la nonna.
– Una malattia, un virus, chi lo sa. Il mare da solo non può soddisfare i bisogni della Città. I proprietari riusciranno a fingere per qualche settimana depurando l’acqua salata, ma poi risulterà chiaro a tutti che non c’è più niente da bere.
Il bambino guardò Jeeves e vide che l’uomo era pallido e tremava visibilmente.
La nonna fece un’altra domanda: – Hai idee?
Dal tono della voce si sarebbe detto che la questione non la toccasse minimamente.
– Sì. Sono già d’accordo con Henry di chiuderci nella sua cantina per tutto il tempo necessario. Almeno finché nella Città non sarà rimasto quasi nessuno. Giorno per giorno accumuleremo più scorte d’acqua possibili.
– Non portarle a casa sua.
– Perché, Miranda?
– Henry è un uomo che, come te, ama la sua famiglia, ma è anche senza onore. Non fidarti di lui, portagli alcune delle scorte e il resto lasciale a casa nostra. Avrai tempo di trasferirle all’ultimo momento.
La madre del bambino parlò tra i singhiozzi: – Freddie non deve vedere niente di quello che succederà. È già così… serio. Non ho idea di che effetto potrebbe fare su di lui vedere le persone uccidersi per un po’ d’acqua. La Città era destinata a questo orribile destino da quando è stata costruita… troppo lontana dal resto del mondo.
– Friedrich non vedrà nulla – rispose convinto il padre del bambino. – Nessuno di noi vedrà nulla.
E intanto il bambino pensava che invece avrebbe voluto vedere tutto.
– Risparmia più acqua che puoi, Miranda – concluse il padre. Si udì il rumore di una sedia che si spostava: si era alzato. – Ne avremo bisogno.
– Via, signorino Friedrich – mormorò Jeeves tirandolo per il braccio.

Il bambino contò i giorni e si accorse che suo padre aveva ragione: i proprietari dei pozzi non riuscirono a fingere per più di due mesi e mezzo. Un pomeriggio di fine primavera c’era già gente che tornava a casa carica di bottiglie d’acqua senza darsi pensa di nasconderle. Alcuni se la ridevano e dicevano che era tutta una farsa, era impossibile che l’acqua fosse finita.
Poi i venditori annunciarono che avevano tagliato i rifornimenti e non ne avevano più da vendere.
Quel giorno, il bambino, la nonna e il maggiordomo chiusero tutte le imposte e si barricarono in casa. Le strade stavano già diventando un inferno.
– Abbi fiducia nei tuoi genitori, Freddie – gli disse la nonna. Non gli diceva mai di pregare. La preghiera era per i deboli, ripeteva spesso.
Alle nove di sera, in ritardo di due ore, suo padre e sua madre fecero ritorno.
Il bambino notò subito, dall’espressione sui loro volti, che c’era qualcosa che non andava.
– Henry se n’è andato! – sbottò suo padre. – Anche con la scorte d’acqua che gli avevo portato! Maledetto figlio di puttana! Avrei dovuto darti più ascolto di quello che tu pretendevi da me, Miranda.
La nonna gli rispose dolcemente: – Non importa, ce la faremo ugualmente.
– No, serve più acqua. Io torno fuori.
A nulla valsero le suppliche della moglie e dell’anziana donna.
– Alfred! Per carità torna dentro, Alfred! – urlò la prima.
Lo videro fare cinquanta metri nella via affollata. La gente sembrava impazzita, correva da tutte le parti urlando.
– ALFRED!
Il padre del bambino adocchiò una bottiglia d’acqua in un angolo e vi si gettò sopra. Non fece in tempo a rialzarsi che si udì uno sparo. Un uomo vestito di stracci con in mano una pistola gli si avvicinò e diede un calcio al corpo già senza vita.
– Chantal! – gridò la nonna. – No!
La madre di Friedrich si gettò nella mischia. – Alfred! Alfred!
L’uomo la vide correre verso di lui e sparò anche a lei.
Il bambino osservò il tutto in silenzio. Sentì lontanamente la mano forte di sua nonna che lo tirava indietro e gli gridava di non guardare. Le ultime immagini che ebbe del mondo di fuori furono sua madre che veniva calpestata dalla folla in fuga e l’uomo coperto di stracci che sparava a chiunque avesse con sé dell’acqua.
Giurò a se stesso che l’avrebbe ucciso. Giurò che non uno di coloro che aveva osato calpestare il corpo di sua madre sarebbe morto da solo. Li avrebbe uccisi tutti lui. Si impresse nella mente ogni singolo volto, ogni dettaglio che potesse farglieli riconoscere anche anni più tardi.
Lui, Friedrich Evans, un bambino di soli undici anni, giurò che per mano sua quella città sarebbe stata epurata. L’odio con cui era vissuto fin dalla nascita gli si riversò fuori in quel momento. Odiava l’essere deboli delle persone, il panico che si impadroniva di loro nell’ipotesi della morte. Odiava la gente, e l’avrebbe punita per questo.

martedì 23 agosto 2011

31° Capitolo e Note Finali

Sensazioni

– Chris, aiutami perché mi sento morire.
Furono le uniche parole che dissi dopo aver lasciato Bianca sola in quel salotto senza luce.
Quando il mio amico mi aveva detto che forse ero venuto a New York per lei, non ci credevo granché. Poi invece divenne l’unica cosa di cui ero assolutamente certo.
– Torniamo a casa? – mi chiese.
Risposi con un cenno affermativo del capo. Non era forse stato lui a dirmi che la casa ce la portiamo dentro? Forse l’Islanda significava solo che avrei potuto richiamarla alla mente in qualsiasi momento. E ciò mi avrebbe fatto sentire meglio.
Il regalo migliore che il mio amico potesse farmi fu di dipingere un ritratto di Bianca. Per quanto facesse male, lo tenni sempre con me. Nonostante lei mi avesse avvertito che avrei dovuto dimenticarla, io non lo feci. Non avrei potuto farlo in nessun caso.

Non è mia intenzione di stare qui a spiegare che piega prese la mia vita quando tornai in California. Nel luglio del ’64 i militari in Vietnam erano saliti a 21.000, e un mese dopo ricevetti una lettera in cui mi diceva che di lì a breve avrei avuto la visita per vedere se ero idoneo alla leva. La ricevettero anche Chris e Alan.
Wendy venne a farci visita a settembre e io la pregai di andarsene in Canada con mio fratello.
– Lui è come te. Legge sempre. Se va in Vietnam lo ammazzano.
Allora lei, Alan e zia Molly si trasferirono in Canada. Mia zia vendette anche l’appartamento di San Francisco, dicendo che se mai fosse tornata negli Stati Uniti, l’avrebbe fatto andando a vivere in Texas in quella villa che aveva tanto trascurato.
Sia io che Chris non cercammo scappatoie. Per una questione di rispetto, come avrebbe detto lui. Andare a morire per dei tronfi politici americani lo faceva incazzare, ma poi mi disse che come ci andavano gli altri, ci saremmo andati anche noi. Per rispetto.
Nel ’65 venimmo spediti in Vietnam senza tante cerimonie. Nel ’68 Chris perse una gamba e venne congedato. Io persi l’utilizzo della mano destra tre mesi dopo, e non potendo più premere un grilletto, venni rispedito a casa. Quando nel ’75 la guerra finì, gli americani morti erano 58.226.
A quel punto Chris non vomitò neppure, si limitò a dire: – Succederà ancora e ancora, finché l’uomo abiterà la terra.



Le storie che mi piace raccontare sono quelle che non racconta nessuno



Questo libro non vuole atteggiarsi a romanzo adolescenziale. Non vuole essere una brutta copia di argomenti già trattati a partire dall’Holden di Salinger. Ritengo che le storie più belle degli ultimi anni siano quelle che dicono cose già dette in un modo migliore, o quelle che dicono cose nuove che nessuno ancora aveva ascoltato. Saltando nelle pozzanghere vuole appartenere a questa seconda categoria. Dico «vuole» perché non ho idea di come gli altri vedranno questo libro. Quello che io ho cercato di fare è stato di ritrarre gli adolescenti per quello che sono, non per quello che gli adulti vorrebbero che fossero. Vengono pubblicati libri con ragazzi per protagonisti, senza fare nomi, che sono un insulto al nostro modo di pensare. Noi non siamo deficienti bisognosi di aiuto. Non abbiamo bisogno di un insegnante che ci indichi la strada né di rappresentazioni distorte della nostra realtà. Ci capiamo a vicenda, e questo è tutto. Se il narratore e gli altri personaggi di questo libro hanno un comportamento che alcuni definirebbero immorale o sbagliato (mi riferisco al bere, al fumare), è perché sono dei ragazzi veri. Non sono caricature messe in atto per farci sembrare tutti dei santi che cercano l’amore e la felicità. Noi non vogliamo inseguire i nostri sogni, siamo stanchi di sentircelo dire. A quest’età nessuno sa cosa vuole. Quindi, per favore, basta scrivere libri che ritraggono i ragazzi come persone quali non sono. Anche se sono ritratti più “buoni” di noi, non ce ne frega. Vogliamo che si dica la verità. Vogliamo che ci mettano in bocca i nostri discorsi, non una filosofia spiccia da quattro soldi e frasi da baci perugina.
Il protagonista del libro ha, almeno nella prima parte, diciassette anni. Perché diciassette anni? Perché è anche la mia età. Charlie è un self-insert, non ho problemi ad ammetterlo. Proprio per questo credo che la sua figura sia diversa dai protagonisti di altri romanzi adolescenziali. Perché Charlie è un tipo di ragazzo come ne nascono ogni diecimila. O forse è solo una mia cattiva impressione, e nel mondo ci sono più Charlie di quanto pensi. So già in anticipo che molti non capiranno il personaggio. Lo odieranno, probabilmente. Ma non ho scritto questa storia perché tutti potessero immedesimarsi in un ragazzo alle prese con i classici problemi dell’adolescenza. I problemi di Charlie sono ben più particolari, sono problemi che la maggior parte dei ragazzi non si pone né sa che esistono. Questo lo affermo secondo esperienza personale. I problemi come il fumo o le droghe sono secondari, giocano un aspetto di sfondo nella mia storia. E qui torniamo a Charlie. Non potevo renderlo bene come l’ho reso in prima persona se l’avessi scritto in terza. Per questo motivo ho deciso che non scriverò più in prima persona per un po’ di tempo. O almeno non scriverò cose che farò leggere a qualcuno. Perché Charlie ha già detto tutto quello che volevo dire io. Lui e gli altri personaggi. Ma soprattutto lui.

Marco Tamborrino,
23 agosto 2011, Busto Arsizio.