"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 23 agosto 2011

31° Capitolo e Note Finali

Sensazioni

– Chris, aiutami perché mi sento morire.
Furono le uniche parole che dissi dopo aver lasciato Bianca sola in quel salotto senza luce.
Quando il mio amico mi aveva detto che forse ero venuto a New York per lei, non ci credevo granché. Poi invece divenne l’unica cosa di cui ero assolutamente certo.
– Torniamo a casa? – mi chiese.
Risposi con un cenno affermativo del capo. Non era forse stato lui a dirmi che la casa ce la portiamo dentro? Forse l’Islanda significava solo che avrei potuto richiamarla alla mente in qualsiasi momento. E ciò mi avrebbe fatto sentire meglio.
Il regalo migliore che il mio amico potesse farmi fu di dipingere un ritratto di Bianca. Per quanto facesse male, lo tenni sempre con me. Nonostante lei mi avesse avvertito che avrei dovuto dimenticarla, io non lo feci. Non avrei potuto farlo in nessun caso.

Non è mia intenzione di stare qui a spiegare che piega prese la mia vita quando tornai in California. Nel luglio del ’64 i militari in Vietnam erano saliti a 21.000, e un mese dopo ricevetti una lettera in cui mi diceva che di lì a breve avrei avuto la visita per vedere se ero idoneo alla leva. La ricevettero anche Chris e Alan.
Wendy venne a farci visita a settembre e io la pregai di andarsene in Canada con mio fratello.
– Lui è come te. Legge sempre. Se va in Vietnam lo ammazzano.
Allora lei, Alan e zia Molly si trasferirono in Canada. Mia zia vendette anche l’appartamento di San Francisco, dicendo che se mai fosse tornata negli Stati Uniti, l’avrebbe fatto andando a vivere in Texas in quella villa che aveva tanto trascurato.
Sia io che Chris non cercammo scappatoie. Per una questione di rispetto, come avrebbe detto lui. Andare a morire per dei tronfi politici americani lo faceva incazzare, ma poi mi disse che come ci andavano gli altri, ci saremmo andati anche noi. Per rispetto.
Nel ’65 venimmo spediti in Vietnam senza tante cerimonie. Nel ’68 Chris perse una gamba e venne congedato. Io persi l’utilizzo della mano destra tre mesi dopo, e non potendo più premere un grilletto, venni rispedito a casa. Quando nel ’75 la guerra finì, gli americani morti erano 58.226.
A quel punto Chris non vomitò neppure, si limitò a dire: – Succederà ancora e ancora, finché l’uomo abiterà la terra.



Le storie che mi piace raccontare sono quelle che non racconta nessuno



Questo libro non vuole atteggiarsi a romanzo adolescenziale. Non vuole essere una brutta copia di argomenti già trattati a partire dall’Holden di Salinger. Ritengo che le storie più belle degli ultimi anni siano quelle che dicono cose già dette in un modo migliore, o quelle che dicono cose nuove che nessuno ancora aveva ascoltato. Saltando nelle pozzanghere vuole appartenere a questa seconda categoria. Dico «vuole» perché non ho idea di come gli altri vedranno questo libro. Quello che io ho cercato di fare è stato di ritrarre gli adolescenti per quello che sono, non per quello che gli adulti vorrebbero che fossero. Vengono pubblicati libri con ragazzi per protagonisti, senza fare nomi, che sono un insulto al nostro modo di pensare. Noi non siamo deficienti bisognosi di aiuto. Non abbiamo bisogno di un insegnante che ci indichi la strada né di rappresentazioni distorte della nostra realtà. Ci capiamo a vicenda, e questo è tutto. Se il narratore e gli altri personaggi di questo libro hanno un comportamento che alcuni definirebbero immorale o sbagliato (mi riferisco al bere, al fumare), è perché sono dei ragazzi veri. Non sono caricature messe in atto per farci sembrare tutti dei santi che cercano l’amore e la felicità. Noi non vogliamo inseguire i nostri sogni, siamo stanchi di sentircelo dire. A quest’età nessuno sa cosa vuole. Quindi, per favore, basta scrivere libri che ritraggono i ragazzi come persone quali non sono. Anche se sono ritratti più “buoni” di noi, non ce ne frega. Vogliamo che si dica la verità. Vogliamo che ci mettano in bocca i nostri discorsi, non una filosofia spiccia da quattro soldi e frasi da baci perugina.
Il protagonista del libro ha, almeno nella prima parte, diciassette anni. Perché diciassette anni? Perché è anche la mia età. Charlie è un self-insert, non ho problemi ad ammetterlo. Proprio per questo credo che la sua figura sia diversa dai protagonisti di altri romanzi adolescenziali. Perché Charlie è un tipo di ragazzo come ne nascono ogni diecimila. O forse è solo una mia cattiva impressione, e nel mondo ci sono più Charlie di quanto pensi. So già in anticipo che molti non capiranno il personaggio. Lo odieranno, probabilmente. Ma non ho scritto questa storia perché tutti potessero immedesimarsi in un ragazzo alle prese con i classici problemi dell’adolescenza. I problemi di Charlie sono ben più particolari, sono problemi che la maggior parte dei ragazzi non si pone né sa che esistono. Questo lo affermo secondo esperienza personale. I problemi come il fumo o le droghe sono secondari, giocano un aspetto di sfondo nella mia storia. E qui torniamo a Charlie. Non potevo renderlo bene come l’ho reso in prima persona se l’avessi scritto in terza. Per questo motivo ho deciso che non scriverò più in prima persona per un po’ di tempo. O almeno non scriverò cose che farò leggere a qualcuno. Perché Charlie ha già detto tutto quello che volevo dire io. Lui e gli altri personaggi. Ma soprattutto lui.

Marco Tamborrino,
23 agosto 2011, Busto Arsizio.

2 commenti:

  1. La chiusa è devastante.

    Non credo, comunque, che se anche Charlie non venisse capito potrebbe essere odiato. E' coerente con se stesso fino in fondo, un personaggio a tutto tondo: come si fa ad odiarlo?

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