"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

venerdì 5 agosto 2011

21° Capitolo

La mia stella cometa

Qual era l’aria che tirava prima del ’64, quando i giovani e gli studenti iniziarono a rendersi conto che avrebbero dovuto fare qualcosa per non essere mandati a morire in una guerra inutile? L’aria era di ignorante attesa. Ognuno, chi più chi meno, si sentiva dentro che sarebbe successo qualcosa, ma nessuno sembrava preoccuparsene molto. Dopotutto, finché la vita va avanti monotona, le persone sono contente. È quando inizi a fucilarli e si vedono il corpo crivellato di pallottole che si rivoltano. È così in tutti i paesi. I popoli si possono prendere per il culo per anni interi, se non si scade nella violenza. A quel punto si rendono conto di avere un cervello.
Ammetto che dedicai buona parte dei miei pensieri al mio paese, anziché a Bianca. Ella s’era un po’ calmata, e io avevo ripreso a scrivere, talvolta sotto la sua supervisione. Pensai meno a lei perché capii che il nostro era un amore impossibile. Non facevamo l’amore, io non mi sentivo in grado. Era una donna troppo grande per me, m’incuteva timore. Chris mi avrebbe capito. Sapevo anche se le avessi detto che intendevo andarmene, non me l’avrebbe lasciato fare. Ero convinto che vivesse in un mondo tutto suo e che la sua intenzione fosse quella di tenermi lì con lei per sempre.
La prima volta che riuscii ad avvicinarmi a un telefono da solo, fu due mesi dopo il mio arrivo a Denver. Era luglio e la temperatura si avvicinava pericolosamente all’insopportabile. Vestivo calzoncini corti e una camicia a maniche corte blu. In quell’occasione no, ma spesso in testa portavo un berretto rosso con scritto a caratteri bianchi: “I love Bianca, the red woman”. Non so come ma era riuscita a farselo fare su richiesta. Era un po’ imbarazzante, ma ci avevo fatto l’abitudine.
Bianca era andata in bagno, ci trovavamo in un ristorante di lusso e Thomas non c’era. Corsi al telefono che c’era vicino alla cassa e composi senza pensarci troppo il numero di mia cugina, a San Francisco.
– Pronto?
– Wendy, sono Charlie!
– Charlie? Stai scherzando?
– No, sono io. Senti, non ho molto tempo…
– Cosa?! Ti fai sentire all’improvviso dopo tutti questi mesi, e la prima cosa che mi dici che non hai tempo?!
– Ascoltami! Sono a Denver e ho bisogno che tu mi porti via da qui. Da solo non posso andarmene, e non andrei lontano. Non posso spiegarti nulla per adesso.
Le diedi l’indirizzo.
– Quando? – mi chiese, ora più calma.
– Il prima possibile, ma non venirmi a cercare dentro il grattacielo. Aspetta che esca io. Non dovrai aspettare molto, te lo assicuro. E stai pronta a partire.
– Charlie?
– Che c’è?
– Non so cosa tu abbia in mente, ma… mi sei mancato.
– Anche tu.
– Davvero?
– Sì, anche tu. Davvero.
Appesi e ritornai al tavolo giusto in tempo per vedere Bianca uscire dalla porta del bagno.
Discussi amabilmente con lei e le tenni la mano fino alla fine della cena.

Più tardi, a casa, mentre eravamo seduti in cucina a prendere un thè e a risolvere cruciverba, Thomas salì un attimo per dare un bigliettino a Bianca. Lei lo lesse in silenzio e alla fine sospirò.
– Il thè mi ha stufato, Thomas. Portami il whisky poi vai pu-re dove ti pare.
La guardia del corpo obbedì e si dileguò nel giro di un minuto.
– Charlie… – iniziò a dire Bianca.
– Sì?
– Il cassiere del ristorante mi conosce molto bene, e io conosco molto bene lui. In grazia di questa conoscenza gli ho chiesto un favore questa sera.
– Che favore? – chiesi, impallidendo.
– Oh, lo sai bene che favore. Gli ho chiesto di tenerti d’occhio. E si è rivelata una mossa saggia, a quanto pare. Tu aspetti tua cugina, non è vero?
Prima che potessi rispondere fece scattare la mano e mi graffiò il braccio con le unghie.
Tu, lurido fetente, bamboccio viziato che non sei altro… come osi? Come osi anche solo pensare di andartene da qui senza dirmi niente?
– Io non…
TU NON SAI CON CHI HAI A CHE FARE, CHARLIE! TU STAI SCHERZANDO CON IL FUOCO! NON RISCHI SOLAMENTE DI SCOTTARTI, TESORO, RISCHI DI BRUCIARE VIVO! GUARDAMI NEGLI OCCHI, CHARLIE! GUARDAMI HO DETTO!
– La sto guardando – replicai stizzito, dandole del lei dopo tanto tempo.
– Cosa credi che ti tenga qua a fare, eh? Ti tengo qua perché come ti ho visto mi sono innamorata di te! Mi sono innamorata di una merdina di diciassette anni che a quanto ne so non ha nemmeno idea di dove metterlo! TU NON PUOI ANDARTENE DA QUI FINO A CHE NON LO DICO IO!
– Io me ne andrò con mia cugina – replicai, risoluto.
Strabuzzò gli occhi, sembrò che stesse per dire qualcosa ancor più forte di prima, poi tacque.
– Io tengo tantissimo a te – dissi. – Ed è per questo che devo andarmene.
Le accarezzai la mano, lei non si mosse.
Mi alzai e mi diressi lentamente in camera mia.

Nell’attesa di Wendy, Bianca non disse e non fece nulla. Smise di parlarmi, di prestarmi attenzione. Sapeva che avevo ragione, stava solo cercando un modo per accettarlo. Guardavamo la televisione, ascoltavamo Kennedy e guardavamo i film della Monroe; il tutto senza dirci una parola, senza uccidere il silenzio.
Quando mia cugina arrivò, come d’accordo non mi venne a cercare. Uscii una mattina con Thomas a prendere il Times (ormai potevo fare quello che volevo, alla mia ospite non importava più niente) per Bianca e me la ritrovai lì, con l’auto di zia Molly parcheggiata sul bordo della strada.
Portava una camicetta verde e dei jeans stretti. I lunghi capelli castani erano sciolti al vento. Il sorriso le invase la faccia nel vedermi. Feci un cenno a Thomas e lui annuì, ma non ebbi il coraggio di tornare su per salutare Bianca. L’amore per lei mi aveva divorato, e sebbene me ne andassi col cuore in pace, ero certo che il tormento mi avrebbe seguito per molto tempo ancora.
Aprii la portiera e mi lanciai su Wendy, abbracciandola e stringendola con tutta la forza che avevo.
Le dissi: – Mi sei mancata come mancano le stelle di notte se il cielo è nuvoloso. Ti voglio tanto bene, cugina mia.

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