– Andiamo alla casa sul mare che mia madre ha poco fuori Houston. Chris e Julia mi hanno contattato da Los Angeles, li chiameremo e li faremo venire – disse mia cugina, dopo pochi minuti che eravamo partiti. – E non provare nemmeno a dire di no, Charlie. Così ho deciso io, e per il momento le decisioni spetteranno a me.
Non commentai. Stavo pensando a che generazione era la mia, a come sarebbe stata ricordata in futuro. Ancora non sapeva. Nessuno sapeva.
– Telefonerai anche ai tuoi genitori. Parlerai con loro.
Anche a quella provocazione non risposi.
– Che ci facevi a Denver? – mi chiese poi.
– Lunga storia.
– Adoro le storie, lo sai, e la strada è lunga.
Allora iniziai a raccontare, lasciai che le parole scivolassero via. E pensavo che tra tutte le cose che diciamo, se ce n’è anche solo una giusta è già un risultato incredibile.
– Hai dell’alcol? Mi hai fatto parlare per un’ora e adesso ho bisogno di rinfrescami la gola.
Mia cugina rise di gioia. – Ho solo acqua, ma la casa di mia madre è piena di champagne. Lei è una donna di classe, lo sai. Devi solo pazientare fino a che non ci arriveremo. La strada è lunga. A proposito, hai detto che volevi andare a New York?
Annuii. – L’idea era quella.
– Io so qual è il luogo che sogni sempre. Ma anche se te lo dicessi sarebbe inutile. Non ci andrai mai.
Rimasi stupito. – Come lo sai?
Fece spallucce. – Oh, è sufficiente sapere qualcosa di geografia. La domanda è: sei davvero sicuro di volerlo sapere? Dopo che l’avrai saputo potresti ricadere nella crisi che ti ha portato via da casa, perché saprai di non avere più una meta.
– Lo voglio sapere – dissi, deciso.
Wendy sospirò. – Tu sogni l’Islanda, Charlie.
Quella rivelazione mi colpì duramente. L’Islanda? Sognavo un paese gelido con pochissimi abitanti? Perché? E d’un tratto rividi i bei paesaggi incontaminati, riascoltai la musica e le parole senza significato, riprovai la sensazione di sentirmi infinito, sopra il mondo e invincibile. Quel posto mi chiamava, mi aveva sempre chiamato.
Ma al solo pensiero di andare a vivere là, a una così grande distanza dalla mia famiglia… mi mettteva i brividi. E se poi una volta là non fosse cambiato niente? Non c’era un posto che mi appartenesse, e io non appartenevo ad alcun posto, mi torcevo in un’interna agonia senza fine, vedevo il mondo con troppa consapevolezza, con occhio troppo critico, come si guardano due giovani al primo appuntamento, cercano di trovare i difetti, i pregi, cercano di piacersi, anche solo per non rimanere soli. Io mi sentivo solo ovunque andassi. Che fossi col mio migliore amico, con mia cugina, con la mia famiglia. Ero solo.
Wendy non mi chiese se ci sarei andato o no, né diede a intendere che attendeva una mia risposta. Solo dopo un po’ si decise a parlarmi.
Disse: – Devi solo aspettare, Charlie. Le cose si faranno più chiare tra qualche anno.
Risposi: – Sono diciassette anni che aspetto. E non voglio crescere. Nessuno dovrebbe crescere.
Houston era una grande città, per certi aspetti simile a Denver. Mancava Bianca e sarebbe stata come Denver. Tutto sarebbe stato Denver, con Bianca. Lei era la mancanza che rendeva incompleto il mio mondo.
La gente correva indaffarata per recarsi al lavoro, le mamme accompagnavano i figli più piccoli a scuola, i fratelli tenevano per mano le sorelline e i postini correvano in bicicletta per tutta la città. C’era odore di dolci, i pasticcieri attiravano i primi mattutini clienti; i fornai, già svegli da qualche ora, vendevano le ultime pagnotte fresche. Gli uomini e le donne dell’alta società camminavano lenti sui marciapiedi, si fermavano nei caffè, leggevano il Times e se ne andavano pagando cospicue mance ai camerieri.
Wendy comprò una copia del giornale e dopo qualche minuto mi disse: – È morto Hemingway.
– Quando?
– Ieri mattina
Era il 3 luglio.
Dieci minuti dopo eravamo seduti in un bar a bere un caffè e a fumare sigarette su sigarette.
– Penso che potrei aspettare l’ora di pranzo così come sono ora – commentò mia cugina.
– Ovvero?
– Annoiata. Non vedo l’ora di arrivare al mare. Ti piacerà la casa, vedrai. Mia madre l’ha conservata per quando avrò finito di studiare legge. Ma dato che non darò esami da qui a sei mesi, una pausa me la posso anche prendere. Mi hai beccato nel momento giusto, Charlie Collins.
Sorrisi e mi sporsi per darle un bacio sulla guancia. Non mi sentivo così felice da settimane. Amavo Bianca follemente, ma non era uno di quegli amori che rendevano felici le persone. E mi chiedevo poi se esistevano, simili amori.
– Sei diventato una persona adorabile, cugino caro. L’amore ti ha cambiato. Cambia tutti, prima o poi.
Ricordai la sua lettera in cui mi parlava del fidanzato con cui era finita male. Non glielo accennai, temendo di toccare un punto dolente.
– Chris se l’è presa a male? – chiesi, interrompendo il silenzio.
– Molto. Era incazzato nero, Charlie. Al telefono non riuscivo a calmarlo. Non aveva né soldi né mezzi per raggiungerti, così è rimasto a Los Angeles con Julia. Hanno guadagnato un po’, i due artisti. A quanto ho capito in loro possesso c’è anche un certo tuo libro…
Feci spallucce. – Niente di che.
– Prima lo leggerò io, poi se non mi è piaciuto potrai ancora dire niente di che.
Mischiai lo zucchero del secondo caffè.
– Fa’ caldo coi jeans – si lamentò Wendy.
Sospirai. – Non so se voglio veramente rivedere Chris.
– Sei un’egoista – replicò secca mia cugina. – Quel ragazzo farebbe di tutto per te. Pensa a quelli che conoscono tantissime persone ma non hanno amici. Tu ne hai uno che basta e avanza per mille. Vuole più bene a te di quanto ami la sua ragazza o sua madre.
Stetti in silenzio senza sapere cosa rispondere.
– Devi tenere sempre in mente – riprese Wendy – che non puoi fare ogni volta quello che vuoi tu perché lo ritieni giusto per te. Non vivi da solo su questa terra, Charlie. Altrimenti è meglio che te ne vai davvero in Islanda.
– Sto cercando di imparare a vivere, Wendy, provo a cercare un posto che faccia per me. Ma non ci riesco.
Trattenni a stento le lacrime.
– Fatti aiutare da Chris – rispose lei. – Provaci, almeno.
Bevvi il caffè in un sorso e accesi un’altra sigaretta. Da qualche parte suonò un clacson.
Ripartimmo dopo pranzo. In poco più di mezz’ora arrivammo alla casa di zia Molly. Era una bellissima villetta di due piani a cinquanta metri dal mare, con un bel giardino (al mo-mento poco curato) e una recinzione di metallo che circondava l’intero perimetro.
Wendy si fece una doccia, poi toccò a me. Alla fine riuscimmo a riposare un po’; crollammo esausti sui divani del salotto senza che nemmeno avessi visto tutta la casa.
Ci risvegliammo che era quasi ora di cena. Wendy si stiracchiò, fece uno sbadiglio e mi chiese:
– Lo chiami tu Chris?
Scossi la testa.
Penso che se l’aspettasse, perché non rispose e andò al telefono.
Uscii per non sentire e mi diressi lentamente sulla spiaggia. Il sole estivo calava lento alle mie spalle. Mi tolsi scarpe e calze, poi la camicia e infine i pantaloni. Mi tuffai in mutande nell’acqua, assaporando a pieni polmoni l’aria del mare.
Il tratto di spiaggia era completamente deserto. Sembrava di essere in paradiso.
Wendy mi raggiunse dieci minuti dopo.
– Chris e Julia arrivano settimana prossima – mi disse. – Prima passano a casa tua a prendere Alan. E tu – mi guardò irremovibile – stasera chiami i tuoi, non ci sono scuse.
Feci spallucce. – Entri anche tu?
Scoppiò a ridere. – Certo, ma prima vado a mettermi il costume. Non sono un animale come te.
– Dopo aperitivo con champagne? – chiesi, prima che entrasse in casa.
Non rispose, ma rise di nuovo.
Rimasti lì ad attenderla, la testa rivolta al cielo azzurro, all’infinito. E pensavo che la donna rossa che avevo baciato non mi avrebbe lasciato in pace così facilmente. Dopotutto, già desideravo nuovamente le sue labbra.
Non c’era un posto che mi appartenesse, e io non appartenevo ad alcun posto, mi torcevo in un’interna agonia senza fine, vedevo il mondo con troppa consapevolezza, con occhio troppo critico, come si guardano due giovani al primo appuntamento, cercano di trovare i difetti, i pregi, cercano di piacersi, anche solo per non rimanere soli.
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