"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 23 agosto 2011

29° Capitolo

Giovani per sempre

Se ci fosse stato un qualche modo per sostituire la mia vita con qualcuno che è morto giovanissimo, magari con un viso dolce di quelli che piacciono alla gente, probabilmente l’avrei fatto. Non è che mi considerassi meno importante degli altri o che ne so, ma avevo sempre avuto l’impressione che io facessi più fatica di tutti a vivere.
Ho provato tante volte a dirmi che anch’io valgo qualcosa. Ma poi vedo la gente felice, ma felice per davvero, e mi chiedo come sia possibile divertirsi così tanto a questo mondo. Io non ci riesco. Ho fatto del mio meglio per riuscirci, ho sorriso quando non volevo e fatto complimenti che non avevo nessuna voglia di fare. Ma ho solo peggiorato le cose.
Vorrei solo combattere per qualcosa. È questo che fanno i giovani. Dedicano la loro forza, che è fresca ed estranea all’influenza delle vecchie generazioni, alla lotta per una causa. Se però non ci sono cause per le quali combattere, cosa fare? Il fuoco arde nei rivoluzionari, non nei codardi. Mi consideravo un codardo? Difficile a dirsi. Di certo non ero coraggioso. Mi chiedevo come qualcuno potesse esserlo, coraggioso.
Era forse per codardia che avevo detto a Chris che intendevo ripartire?
– Vuoi parlare di qualcosa, Charlie? – mi chiese dopo due ore di viaggio.
– Arrivati a questo punto – risposi piano – non c’è rimasto molto da dire.
– Non pensi che se tutto fosse diverso, saremmo più felici? Intendo, se fossimo più liberi. Ti ricordi due o tre anni fa, quando pioveva, e siamo usciti e ci siamo coperti di fango, saltando nelle pozzanghere?
Annuii.
– Bisognerebbe sempre sentirsi come quella notte. Io ero felice, e adesso essere felice è un lusso che non posso permettermi.
E tu dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?
Cercavo di essere felice.
Come tutti?
C’è qualcos’altro che possiamo fare, oltre a provare ad essere felici?

Dopo due giorni eravamo a New York. La grande mela ci apparve bianca, coperta di neve, ma immensa come solo le grandi città sanno essere. Grandi città per persone tutte piccole. Alti grattacieli per osservarci in miniatura durante il quotidiano movimento che ci porta a scuola, al lavoro, a casa o da un amico. Era questa la grande America, l’incredibile America. Un posto bello e stupido, costruito male, sul sangue e sull’ipocrisia. Ma sia noi che gli stranieri avremmo continuato a vederla come un idilliaco paradiso.
Quando avevo nove anni, mio padre mi disse che non bisogna vedere le città come la riuscita impresa dell’uomo di convivere con altri uomini civilmente, ma come la necessità di compagnia dettata da un istinto animale e dalla solitudine.
Spendemmo qualche dollaro per un albergo non proprio eccellente e aspettammo in silenzio. Cosa, non lo sapevamo nemmeno noi. Credo che nessuno lo sapesse.
Quando mi chiamarono nella hall per dirmi che c’era una biglietto per me, inizialmente immaginai che fosse dei miei genitori. Invece non il nome non v’era scritto, non fuori almeno. Recava solo un «Per Charlie Collins». La aprii perplesso e iniziai a leggere.

Charlie, mi sei mancato.

Bianca.

Quelle quattro parole messe in croce seguite da un indirizzo. Quindi lei viveva a New York, quindi lei mi aveva visto. In un attimo mi si aprirono davanti miliardi di possibilità, di immagini. Fu come rinascere un’altra volta. Sapere che lei c’era. Che non se n’era andata per sempre dalla mia vita. La certezza di una mancanza riempita con le parole. La voglia di altro suo bacio. Tutto ciò che una sinfonia di Schumann avrebbe potuto dirmi, l’avrebbe detto Bianca spezzando a metà la sinfonia, e ne avremmo poi osservati insieme, tenendoci la mano, i pezzi rotti sparsi per il mondo. Lo scopo era concepire, ammirare, sognare Bianca, amarla più di ogni cosa esistente e inesistente nell’universo, più del concetto stesso di amore. Amare l’essere innamorati è fin troppo semplice. Ci fa sentire bene. Tuttavia amare la persona e non il sentimento, questo mi prefiggevo io, alla vista di quelle parole che erano forse un invito ad andare da lei, forse un consiglio di starle lontano, ma che esprimevano perfettamente quanto fossero stati vuoti quegli anni senza di lei, senza i suoi capelli biondi e le sue labbra a volte laccate a volte no, il vestito rosso e l’appartamento infernale, le sfuriate che in fondo in fondo concedevano dolcezza nascosta e soppressa, il tormento che mi prendeva quando c’era lei. E lei c’era sempre.
– Vacci – sentii la voce di Chris alle mie spalle. – Forse è per questo che sei venuto qui, anche se non lo sapevi.
– Vieni con me – gli dissi.

Fu Thomas ad aprirci la porta. Mi sembrava passata un’eternità da quelle ultime mattine a Denver in cui andavamo insieme a prendere il Times per Bianca.
– Lei dov’è? – chiesi, senza preamboli.
Ci condusse in salotto.
Bianca era lì, seduta su una poltrona a gambe accavallate che fumava una sigaretta. La prima cosa che pensai fu che il salotto non era rosso, ma grigio, e terribilmente triste. Poi incrociai il suo sguardo. Lo vidi accesso, furioso, trattenuto a stento. Gli occhi di lei si posarono su Chris e si calmarono un poco. Con un movimento quasi impercettibile della testa ci indicò un divanetto di fronte a lei.
Sebbene lei fosse la solita donna rossa che avevo conosciuto, c’era qualcosa nel suo aspetto che mostrava decadenza, fallimento. Nei suoi occhi verdi c’era un luccichio d’interesse, forse a causa mia, ma anche un velo opaco, quasi di muta rassegnazione.
– Un giorno, – cominciò a dire, fissando nel vuoto, – quando ero molto piccola, mio nonno mi disse che un formicaio è come una città. Che gli esseri umani e le formiche sono la stessa cosa. Tu le vedi lì, piccole, quasi minuscole, indaffarate a costruire, a raccogliere pane, o anche solo a muoversi, si muovono sempre, lo sai? Poi arriva qualcuno e distrugge il formicaio. Ma alcune scappano e ne creano un altro da un’altra parte. Forse uno più grande, così quando verrà distrutto anche quello, ne moriranno di più. Allora ho risposto a mio nonno che gli esseri umani possono schiacciare le formiche ma le formiche non possono schiacciare gli esseri umani. Mi ha detto che è proprio questo il problema. Le formiche si limitano a creare, noi il più delle volte vogliamo solo distruggere. Noi distruggiamo per poi dare vita a qualcosa di ancora più immenso. È vero che senza le rovine non si può ricostruire, ma a volte mi chiedo se non ci piacciano di più proprio le rovine. E la vita è una rovina. Non c’è niente da costruire. C’è solo da distruggere.
Fece una paura durante la quale tentai di guardarla negli occhi.
– Tu mi hai distrutto, Charlie. Mi hai distrutto e te ne sei andato, proprio come si fa con una formica.

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