"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

martedì 16 agosto 2011

26° Capitolo

Sono solo ragazzi

Qui finisce il periodo movimentato della mia adolescenza, il periodo dell’amore e del viaggio, della tristezza e della felicità. Inizia il periodo più oscuro, quello in cui le cose iniziarono a precipitare; il periodo durante il quale non avevo tempo per pensare all’Islanda né ai miei genitori. A me e ai miei amici successero le peggiori cose che potrebbero succedere a dei ragazzi. E solo perché eravamo ragazzi.

Quando nella villa al mare rimanemmo solo io, Chris e Wendy, le giornate presero a passare più calme, tranquille. Scrissi tanto, in quei giorni. Wendy si concentrò sullo studio e Chris sulla pittura.
Il mondo sembrava essersi fermato, sembrava essere arrivata la pace interiore e esteriore che tanto agognavo. Non mi resi conto che era solo il silenzio antecedente alla tempesta.
Quando venne dicembre, Wendy tornò a San Francisco per dare l’esame. Chris rimase con me, ma restò sottinteso che per Natale avremmo dovuto fare qualcosa. I suoi genitori l’avrebbero voluto a casa, ma lui mi disse che non si sarebbe mosso senza di me.
– So che non vuoi tornare. Piuttosto stiamo qui io e te da soli. Il Natale è solo una festa.
Il Natale sarà stato anche solo una festa, ma intanto si avvicinava il 1962 e per me erano quasi sei mesi ch’ero lì senza muovermi, senza decidere cosa fare.
– Non c’è fretta, Charlie – mi diceva Chris. – Non ci corre dietro nessuno. Abbiamo tutto il tempo del mondo… pensa bene a ciò che vuoi fare.
Sbagliava, il tempo non c’era. Non c’era mai stato, ma negli anni sessanta mancava particolarmente. Ancora non ce ne rendevamo conto.
Passò Natale; io e Chris fummo gli unici abitanti nella villa al mare. Parlammo tanto e ridemmo di vecchi ricordi, proprio come due amici dovrebbero fare. Non ricordo un solo litigio con lui, in quel periodo. Ora che ci penso, l’ultimo era stato quando eravamo entrambi ancora a casa e gli avevo detto che volevo andarmene.
Dopo Natale, Wendy Julia e Alan vennero a passare una settimana con noi, approfittando delle vacanze. Chris e Julia furono introvabili in quella settimana. Se ne stavano sempre soli, appartati, vicini. Si baciavano, a occhi chiusi, in silenzio, lui il mondo di lei e lei il mondo di lui, unici sopravvissuti – così credevano – in un universo senza più amore.
Trascorremmo un capodanno felice, tutto sommato. Se si esclude quello del ’63, che andò così e così, fu l’ultimo capodanno felice che passammo tutti insieme. Allora non lo sapevo, o avrei cercato di divertirmi di più, di fare altro.
Vivevamo grazie ai soldi che ci mandavano i nostri genitori e ai quadri che Chris riusciva a vendere a Houston. Tuttavia comprendevamo alla perfezione che non si poteva continuare così per sempre.
Chris tornò a casa. Lo convinsi io a farlo. Lui e Wendy si alternarono per un anno a farmi compagnia, tranne l’estate. Lì c’eravamo tutti e cinque ancora una volta, ma fu comunque un’estate diversa, sotto certi punti di vista. Un’estate più triste.
Alan venne a dirmi che mio padre e mia madre quasi avevano dimenticato chi fossi. Gli mancavo ancora, ma non faceva più male. Stavo diventando un estraneo a me stesso e agli altri. Dalla radio apprendemmo che il numero di militari in Vietnam era salito a 12.000.
Seguirono giorni in cui qualcuno, alla mattina, si recava sempre a Houston per fare incetta di giornali. Ogni dettaglio mi sembrava lontano, confuso, mentre gli altri erano chiaramente più preoccupati.
Come già detto, quell’estate fu cupa. Non mancarono certo le notti in spiaggia e i giorni felici che tanto avevano caratterizzato la precedente, ma si sentiva nell’aria che qualcosa stava cambiando, e non in bene.
– Non preoccupatevi, – ci diceva mia cugina, – Non succederà niente. Vedrete che Kennedy sistemerà le cose. Non ci sarà un’altra guerra.
Quando iniziò la crisi di Cuba, il Vietnam passò in secondo piano. Chris si trovava in California, il quindici ottobre. Appena la crisi cominciò, corse da me. Wendy mi scrisse una lettera. Non riusciva a studiare, era terrorizzata. Mi pensava tanto e mi abbracciava con tutto il cuore, qualunque cosa sarebbe successa.
Alan preferì telefonarmi e io parlai con i miei genitori, entrambi in lacrime. Mi implorarono di tornare, di farlo per loro. Non volevano correre il rischio di morire senza mai più rivedermi. Le loro parole mischiate al pianto, e Chris, che insistette fermamente, mi convinsero. Sarei tornato a casa finché la crisi non fosse cessata.
Il mio amico, per tutto il tragitto, non fece altro che ripetere, cupo: – Qui ci ammazzano tutti, Charlie. Tutti.
Fu un viaggio senza soste, perché i missili potevano venir lanciati da un momento all’altro. Il venti ottobre ero a casa.
Abbracciai i miei genitori, cercando di rimanere freddo, distaccato, ma non ci riuscii. Mi si sciolse il cuore, e prima che me ne rendessi conto, dentro di me seppi che ero finalmente tornato a casa. Avrebbe dovuto saperlo il mondo intero. Pensavo che fosse un evento incredibile, da zittire tutti per la sorpresa. E invece non fu così, a momenti dimenticavo che la gente temeva di star vivendo i suoi ultimi giorni.
Andai anche a casa di Chris, e salutai con gioia la piccola Mary.
– Sono sempre più belli i tuoi capelli – disse la bambina, con un velo di tristezza negli occhi. – Ma anche tu sei bello, Charlie. Sono felice che tu sia tornato.
E piccola, tenera com’era, mi abbracciò stretto senza dare a intendere che volesse lasciarmi.
Mi chiesi come fosse possibile che chi avrebbe deciso delle nostre vite non tenesse in considerazione le bambine come la piccola Mary? Con che coraggio avrebbero lanciato i missili, avendo in mente la piccola Mary? Come avrebbero potuto guardarsi allo specchio con la coscienza a posto, prima di andare a dormire?
Gli otto giorni che trascorsi a casa durante la crisi, li passai un po’ con i miei genitori e mio fratello e un po’ con Chris. Soprattutto con Chris. Passavamo le ore davanti alla televisione ad aspettare che ci dicessero che saremmo morti. Vedevamo Kennedy, e avremmo voluto che ci dicesse di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene. Ci dicono sempre che andrà tutto bene anche quando sanno benissimo che è la più grande delle bugie.
Il giorno più tremendo, il penultimo giorno di crisi, vidi Chris abbracciato a Julia che piangeva di rabbia, adirato come non l’avevo mai visto. Si mangiava le unghie, aveva le occhiaie, non dormiva quasi niente. Quando l’aereo di ricognizione statunitense venne abbattuto su Cuba, tutti trattennero il respiro. In quei minuti mi chiesi per cosa vivessi. Se dopotutto ci fosse veramente qualcosa per cui vivessi. Pensavo a Bianca, alle sue labbra, al suo vestito, al suo appartamento, ai suoi scatti d’ira. Pensavo: non c’è donna nel mondo con lo stesso fascino. Non c’è donna che sia più donna di lei.
Il ventisette ottobre fu la giornata più lunga della vita di molti americani. Ognuno non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. C’era da domandarsi perché mai qualcuno avesse permesso la costruzioni di armi nucleari. È così facile preparare armi che uccideranno intere masse di persone?
– Non capisco – continuava a ripetere Chris.
– Cosa non capisci? – chiedevo, con voce atona.
– Il motivo. Cristo santo, datemi un motivo – disperato, chiedeva una ragione al possibile massacro.
Tesi com’eravamo, quasi non ci rendemmo conto che il giorno dopo la crisi era finita. Non ci furono sospiri liberatori né abbracci, come se il fatto di trovarsi ancora lì, di essere ancora vivi, fosse di per sé più che sufficiente.

1 commento:

  1. Ottimo. Lo spessore storico è molto buono, si incastra naturalmente e senza forzature.

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