"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

mercoledì 17 agosto 2011

27° Capitolo

Fragile

Dopo quell’episodio, che mi sconvolse più di quanto osavo ammettere a me stesso, non sapevo se tornare alla casa con zia Molly. E neanche Chris lo sapeva. Decisi di passare il natale e il capodanno coi miei e di provare a rivivere con serenità la mia cittadina, tornando nei luoghi dove ero solito giocare da bambino.
Feci visita al signor Johnson, che fu di poche parole. M’accolse con un sorriso tirato e parlammo solo per un’oretta.
Si congedò con un:
– Ti auguro ogni fortuna, Charlie Collins. Ne avrai bisogno.
Cercai di non ascoltare le radio e le televisioni. Non volevo sapere cosa succedeva nel mondo e se stavano mandando altri soldati in Vietnam. Per un po’ sembrò ritornare l’allegria. Wendy e zia Molly vennero a Natale e tutto pareva essere tornato alla normalità.
Julia avrebbe di lì a qualche mese terminato gli studi e avrebbe dovuto scegliere un college. In quei giorni niente turbava la quiete, se non i pensieri nascosti nel profondo di ognuno di noi, pensieri inespressi che avrebbero solamente rovinato l’atmosfera di parziale gioia che si era instaurata.
A Capodanno Chris si ubriacò esageratamente, nonostante fossimo in famiglia (io, i miei genitori e Alan eravamo ospiti del signor Matthew). Quando chiese di scusarlo che doveva andare a prendere una boccata d’aria, io lo seguii. In giardino rovesciò la cena sulla neve. Io gli tenni la testa.
– Tutto a posto? – gli chiesi.
– No. Tutto a posto un cazzo, Charlie. Un cazzo.
– Cosa c’è che non va?
Mi chiese se avessi un fazzoletto per ripulirsi. Rovistai nella tasca della giaccia e ne trovai uno po’ stropicciato.
Mentre glielo porgevo, ripetei la domanda.
– È tutto uno schifo – rispose.
– Cosa è uno schifo?
– Tutto.
Cadde in ginocchio e vomitò ancora.
– Perché ti riduci in questo stato?
Quando si fu ripreso disse: – È una questione di rispetto, Charlie.
– Rispetto per chi?
– Te li ricordi tutti quei discorsi di Johnson sulla rivoluzione americana e sulla guerra?
Risposi che sì, me li ricordavo.
– Quel’imbecille aveva ragione. L’abbiamo chiusa noi la guerra, le abbiamo sganciate noi quelle due bombe. Ho letto la testimonianza di una bambina che è sopravvissuta a Hiroshima…
Vomitò ancora, questa volta solo schiuma.
Lo aiutai a rialzarsi. Non riusciva a guardarmi negli occhi.
– Lo stavamo per rifare, Charlie – disse infine. – Stavamo per rifarlo. Johnson ce l’aveva detto solo tre anni fa… e noi le volevamo sganciare ancora quelle bombe. Gli americani! Adesso capisco come ti sentivi… non si può essere qualcuno in questo paese. Per essere qualcuno bisogna anche essere orgogliosi. Ma io ho schifo, solo schifo di quello che vedo.
– Per questo ti ubriachi sempre, Chris?
Avevo il cuore colmo di tristezza. Io che pensavo sempre, in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che alle parole del mio amico.
Lui annuì. – Ho troppo schifo.
– Chris, guardami negli occhi.
Lo fece. Aveva delle vene rotte, e sembrava inquietante alla debole luce del lampione della strada che fiancheggiava la casa.
– Ho schifo anch’io – dissi.
– È il minimo.
– Ascoltami, Chris… guardami! Siamo condannati alla guerra da quando esistiamo… non puoi lasciarti andare perché pensi che non ci sia scampo. Devi fare qualcosa, qualunque cosa. Tieniti occupato. Hai Julia, è una bellissima ragazza. Hai me… spero di valere qualcosa come amico. Non è facile se penso a quanto vali tu… guardami, Chris!
– Ho schifo – ripeté.
Lo lasciai andare e rientrai in casa. Nessuno mi chiese perché non fosse con me. Dopo qualche minuto rientrò anche lui. Cinque minuti dopo la mezzanotte, mentre l’intera città festeggiava ingenuamente il 1963, Chris venne da me e mi chiese scusa.
– Non è niente – risposi.

Dopo Capodanno io tornai a scuola, e Chris con me. Avevamo perso due anni, ma non ne facevamo un grande problema. Ora che eravamo entrambi diciottenni, e anche registrati per la leva obbligatoria.
Julia veniva spesso a casa mia, anche senza Chris. Mia madre le lasciava usare il pianoforte, e lei si metteva lì a suonare mentre aspettava che il suo fidanzato arrivasse.
Come ogni anno arrivò la primavera. Si colorarono gli alberi, i prati. Iniziò a far caldo. Le giacche si appendevano negli armadi e lì le si lasciavano fino a che non fosse tornato l’autunno. Si usciva in strada a giocare a calcio, si andava in bici a scuola. Chris passava a casa di Julia, le dava un bacio e lei montava sulla sua bici, poi passavano da me e insieme andavamo a scuola.
Tornando ci fermavamo a prendere dolci nei negozi. Andavamo a mangiarli nei giardini pubblici, dove passavamo il pomeriggio a parlare e a studiare. Poi arrivò l’estate e ricomincia-rono le feste. Ogni tanto mentre cenavamo i miei mi dicevano che stavano mandando altre centinaia di soldati in Vietnam, ma io scrollavo le spalle e mi concentravo sul presente.
Non era facile. Ancora germogliava in me l’idea di partire, e questa volta per sempre. Poi capivo che non era il momento, ma che presto sarebbe venuto.
Con le feste e l’estate si stava fuori anche tutta notte, e si rientrava di mattina. Poi si dormiva fino a sera o non si dormiva affatto, un amico o un’amica venivano a svegliarti alle nove o alle dieci e si andava a prendere un caffè e a fumare qualche sigaretta. A volte venivano dei gruppi rock a suonare vicino alla spiaggia e c’erano ancora volte in cui Chris esagerava col bere, anche se piano piano andò migliorando.
– Stagli dietro – mi disse Julia una sera, in privato. – Certe volte non sa quello che fa.
– Forse lo sa meglio di me e te – risposi.
Dopo mezzanotte si usciva di casa e proprio in quell’ora si iniziavano a sentire le risate invadere le vie di tutta la città, i ragazzi e le ragazze si rincorrevano, c’era un via vai unico di biciclette, a volte modo, raramente macchine. Alla spiaggia c’era sempre qualcuno, certuni ci dormivano come facevamo noi in Texas, ma dormire era una parola grossa. Anche se eri stanco, alle cinque o alle sei del mattino, non potevi dire che andavi a dormire, perché nessuno o quasi vi andava, e saresti rimasto escluso. Persino quando non c’era niente da fare, si faceva qualcosa. C’erano stelle da guardare, discorsi da fare, bocche da baciare, amicizie che andavano consolidate con pacche sulla spalla e lievi buffetti sulle guancie, c’era da ridere e scherzare, in attesa che il mondo crollasse.
E invece stavamo solo crescendo. Si creava una distanza, ancora poco tangibile, tra di noi. Ognuno si concentrava più sui propri pensieri, sul proprio futuro. Stavamo maturando insieme ai frutti che più tardavano, insieme agli amori estivi e deboli, con il sorriso sul volto e la tristezza nel cuore.

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