"Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover pensare che in un angolo ci siano le fate?"
- Douglas Adams

lunedì 15 agosto 2011

25° Capitolo

Altri giorni felici

Ai primi di settembre, quando ancora mancavano un paio di settimane alla partenza di Alan e Julia, piovve per qualche giorno.
Ciò non contaminò la nostra spensieratezza, e proseguimmo nell’organizzare attività all’interno della villa. Io e Wendy proponemmo il mostro metodo per giocare a scacchi, quello con il whisky. La proposta fu accolta all’unanimità.
Fu un torneo di scacchi molto pittoresco. Arrivai io in finale con mio fratello; lui cercava di stare concentrato nonostante la testa gli girasse parecchio, infatti gocce di sudore freddo gli colavano dalla fronte. Alla fine vinse lui.
Il resto di quella serata la passammo a raccontarci aneddoti, stravaccati sui divani a fumare. La pioggia martellava incessantemente sul tetto. Io ero l’unico a non parlare, quella sera. Ero in uno di quei momenti in cui avrei voluto dire troppe cose, e non sarei riuscito a spiccare parola. Mi concentrai sulla pioggia. Mi dissi che non era così terribile. Era acqua, dopotutto. Lo ripetei ad alta voce.
– Come? – fece Chris.
– Niente.
La discussione riprese normale, come se non avessi detto niente. Era acqua, dopotutto. Non stavamo forse crescendo? Non erano i bambini quelli che si divertivano a uscire anche con la pioggia, a saltare nelle pozzanghere? Avevamo noi perso quella voglia, la voglia di giocare, la voglia di correre e rincorrersi, una voglia così grande che il cielo potrebbe sparire e noi non ce ne accorgeremmo? Cos’era radicato in noi mentre giocavamo a scacchi? Forse la rinuncia al gioco vero, al gioco pulito, senza alcolici e senza forzature. Mancava quello al mondo. Mancava il gioco. Ancora mi dissi: e se corressimo fuori? E se saltassimo nelle pozzanghere? Il bisogno del divertimento non va distorto col bisogno disperato di compagnia. Io avrei potuto benissimo correre fuori da solo se nessuno avesse voluto seguirmi. E pensavo che le decisioni più importanti non possiamo far altro che prenderle da soli, è inevitabile mentire all’altro, dirgli una mezza verità che accontenta lui e accontenta noi, mentre dentro coviamo il desiderio, l’azione.
Forse se mi fossi alzato Chris mi avrebbe chiesto dove andavo, o forse me l’avrebbe chiesto Julia, o mia cugina, o mio fratello. Wendy avrebbe potuto alzarsi un momento prima per andare in bagno o magari sarebbe stato Alan ad alzarsi, per andare a prendere un maglione perché aveva freddo o a farsi un caffè con limone per attenuare la nausea. Mi arrovellavo sulle decine di migliaia di ipotesi che avrebbero potuto interferire tra me e il giocare – il correre – sotto la pioggia. Ma pensare al forse, alla possibilità remota, non fa altro che nutrire l’idea che in noi dice: non accadrà, non è plausibile.
Mi alzai con un balzo e corsi verso la porta.
Chris esclamò: – Ehi, ma che fai?
– Non si vede? – risposi, già messo fuori casa.
L’acqua mi arrivò addosso con una scarica gelida, che mi inzuppò immediatamente. Solo le luci della casa illuminavano i miei passi.
Quella notte, sotto la pioggia, saltai nelle pozzanghere, felice di aver ritrovato la voglia di giocare. E non feci caso ai miei amici che mi guardavano straniti e che dopo qualche minuto, imbarazzati, decisero di fare lo stesso. Non parlai, nessuno parlò, perché tutti provavano le stesse identiche cose. Le cose non dette sono universali. Non viviamo per rivelare i nostri segreti, ma per custodirli come fossero figli speciali da tenere con noi fino alla fine del nostro mondo.
– Tu sei pazzo – mi disse Chris quando rientrammo, coperti di fango da capo a piedi. Poi però scoppiò a ridere. – Cristo, non mi divertivo così da anni!
Smaltita la sbronza, nelle prime ore del mattino, eravamo ancora sui divani, coperte addosso, a parlare di qualunque cosa ci passasse per la testa.
– Cosa diamine ti passava per la testa? – mi chiese mia cugina per l’ennesima volta.
– Volevo giocare.
– L’ho notato.
– Ho creduto di aver perso la voglia di giocare come giocano i bambini, quando non importa niente se non il gioco. Se ci pensi è triste il periodo in cui pensiamo solo alle ragazze o ai ragazzi. Siamo tristi, noiosi.
Nel debole chiarore del primo mattino vidi qualcuno accen-dersi una sigaretta. Era Chris.
– Tornerai con noi a trovare i tuoi? – mi chiese.
– No – risposi secco.
– Non ho ancora intenzione di tornare.
– Perché?
– Perché sarebbe come un fallimento. E non ho ancora trovato quello che cerco da quando sono partito.
– E cosa cerchi? – intervenne mia cugina.
– La pace. Ma non esiste, temo. Tutti cerchiamo un po’ di pace nella vita, anche senza accorgercene. Prima di averne un po’ dovranno crollare le istituzioni. Dovrà crollare la chiesa e la sua religione, dovrà crollare lo stato capitalista e sfruttatore, dovrà crollare la famiglia, la scuola… tutto ciò che limita il pensiero, la libertà di scelta. Quando non ci sarà più nemmeno una di queste cose, allora potremmo dare un senso alle parole pace e libertà. Quando nessun insegnante imporrà il proprio pensiero, quando non un genitore farà battezzare suo figlio nell’età in cui ancora non capisce niente, quando la gente smetterà di essere succube dei vestiti firmati, delle grandi comodità. Allora, forse, allargheremo le braccia, alzeremo gli occhi al cielo, vedremo per la prima volta che è blu e il blu è bellissimo, e chiudendo gli occhi urleremo: siamo liberi!
– Si sta facendo giorno… – commentò Julia.
– Si fa giorno ogni mattina, si fa giorno anche in altri paesi. Non è una cosa nuova, il fatto che si stia facendo giorno – risposi.
Wendy si alzò. – Faccio un thè caldo.
Qualche minuto dopo ero in piedi davanti alla finestra a guardare l’alba, la coperta sulle spalle, la tazza di thè fumante in mano.
Le nuvole si erano un po’ diradate e si vedeva qualche raggio di sole filtrare nella pioggia sempre più debole.
Pensavo a che avrei fatto a dicembre. Pensavo al mio com-pleanno imminente, a ottobre, che avrei festeggiato con Chris e Wendy. Sentivo i miei diciassette – quasi diciotto – anni pe-sarmi addosso come un macigno, e mi chiedevo, stupito, se ogni ragazzo della mia età si sentisse come me: incapace di tornare e terrorizzato di partire.
Il mondo avrebbe dovuto essere governato e abitato da soli ragazzi e ragazze. Loro non sono ancora contaminati dall’ambizione come gli adulti, e nemmeno hanno in testa solo il gioco come i bambini. Gli adolescenti, con i loro problemi che esistono da quando il mondo ha avuto inizio, sono perfetti per costruire un nuovo ordine sociale dove la persone finalmente si rispettano fra di loro. Sono i giovani, ti dicono i politici, che cambieranno il mondo. Ma erano forse giovani anche loro, un tempo? Credevo che crescendo si sarebbe rotto qualcosa di molto importante, di irreparabile. Si rompeva il sorriso, la gioia. Si rompevano le difficoltà che tanto imparavamo ad amare. Senza malinconia i ragazzi non saprebbero vivere, non saprebbero amare né lottare. La tristezza diventa il loro scudo nel momento in cui serve.
Al mondo serviva questo. Servivano giovani che rimanessero per sempre giovani.

1 commento:

  1. Finalmente un altro capitolo che si offre al mio saccheggio. La prima vittima è "Sentivo i miei diciassette – quasi diciotto – anni pe-sarmi addosso come un macigno, e mi chiedevo, stupito, se ogni ragazzo della mia età si sentisse come me: incapace di tornare e terrorizzato di partire".

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